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Accordando il mio pianoforte
Per uno come me, le cui attività letterarie dal 1920 in poi si sono limitate alla stesura di documenti giudiziari e alla raccolta di materiale per l’Indagine, la parte più difficile dell’impresa imminente – ossia, il resoconto di un giorno del 1937 in cui cambiai idea – è proprio cominciarla. Mai ho tentato nulla di simile ma mi conosco abbastanza per sapere che, rotto il ghiaccio, tutto diventerà facile, anche troppo, giacché di natura sono un tipo espansivo, e anzi il problema sarà quello di non perdere il filo della storia, e di sapermi azzittire alla fine. Non ho dubbi al riguardo: riesco quasi sempre a prevedere con esattezza il mio comportamento, perché, nonostante qui a Cambridge l’opinione comune sostenga il contrario, sono di fatto una persona molto coerente.
Gli altri (il mio amico Harrison Mack, per esempio, o sua moglie Jane) mi giudicano eccentrico e capriccioso: ma unicamente perché le mie azioni e le mie opinioni non sono coerenti con i loro princìpi, ammesso che ne abbiano. Ma vi assicuro che sono coerenti con i miei. E anche se i miei princìpi di tanto in tanto possono cambiare – questo libro, rammentiamolo, è proprio dedicato a un tale cambiamento – resta il fatto che ne ho in abbondanza, anche più di quanti me ne servano, e in genere li applico tutti insieme; cosicché la mia vita non è certo priva di logica solo per il fatto di non essere ortodossa. E poi, di norma, quando mi metto in testa di fare qualcosa, la faccio.
Ora, per esempio, ho cominciato il mio libro, e anche se probabilmente siamo ancora molto lontani dalla storia vera e propria, se non altro ci stiamo muovendo in quella direzione, e intanto ho imparato ad accontentarmi di questo. Forse quando avrò finito di descrivere quel giorno a cui ho accennato prima (sono quasi certo fosse il 21 giugno 1937), forse quando arriverò alla sera di quel giorno, se mai ci arriverò, tornerò indietro a distruggere queste prime pagine, l’accordatura del pianoforte. O forse no: intendo infatti, di qui a poco, presentarmi a voi, mettervi in guardia contro alcune erronee interpretazioni del mio nome; spiegarvi perché ho intitolato così il mio libro; e compiere qualche altro gesto graziosamente ospitale, per mettervi a vostro agio nella mia prosa come farei per ricevervi a casa mia, per immergervi con delicatezza nel sinuoso meandro dei miei pensieri: azioni utili, che sarà meglio conservare piuttosto che eliminare.
Per estendere un altro poco la metafora del «sinuoso meandro», se mi è concesso: mi è sempre parso, nei pochi romanzi che ho letto di quando in quando, che esigano parecchio dai lettori quegli autori che iniziano i loro racconti furiosamente, nel bel mezzo delle cose, piuttosto che entrandovi, indietreggiando o di sbieco, con dolcezza. Un tale tuffo nella vita e nel mondo di altre persone, come un tuffo fatto a metà di marzo nel fiume Choptank, offre, mi sembra, uno scarso piacere. No, venite con me, lettori, e non abbiate timore per il vostro cuore ammalato; ne ho uno anch’io, e so bene quanto sia importante inserire prima il dito d’un piede, poi il piede intero, poi una gamba, lentissimamente le anche e la pancia, e infine tutti voi stessi nel mio racconto, concedendovi moltissimo tempo per farlo. Tutto sommato, vi invito a un tuffo di piacere, non a un battesimo.
Ebbene, dove eravamo? Stavo per commentare, forse, il significato dell’«ossia» che ho usato prima? O per spiegare la mia metafora della «accordatura del pianoforte»? O il mio cuore ammalato? Santo cielo! Come si fa a scrivere un romanzo? Voglio dire, come è possibile non perdere il filo del racconto, se si è anche solo minimamente sensibili al significato delle cose? Quanto a me, vedo già che la narrazione non è il mio forte: ogni nuovo periodo che scrivo è pieno di divagazioni e complicazioni che tanto volentieri inseguirei fin dentro le loro tane insieme con voi, però un tale inseguimento implicherebbe nuove divagazioni e nuovi inseguimenti, in modo che di certo non riusciremmo mai a dare inizio al racconto, né tantomeno a terminarlo, se sguinzagliassi le mie inclinazioni. Non che ciò mi dispiacerebbe, di solito – per me un libro vale un altro – ma davvero ci tengo a spiegare quella giornata (o il 21 o il 22) del giugno 1937 in cui ho cambiato idea l’ultima volta. Dobbiamo dunque restare nel bel mezzo del canale, voi e io, sebbene la barca sulla quale navighiamo sia destinata alle secche, e rinunciare alle insenature e alle cale, per quanto possano essere graziose. (Questa metafora, a proposito, non è ingiustificata, ma lasciamo andare.)
Dunque. Todd Andrews, mi chiamo. Lo potete scrivere con una d o con due; ho ricevuto lettere indirizzate a me nell’un modo e nell’altro. Volevo quasi avvertirvi di non usare la grafia con una sola d, per paura che diceste: «Tod in tedesco vuol dire morte: forse il nome è simbolico». Personalmente adopero due d, in parte anche per evitare quel simbolismo. Però, capite, alla fine quell’avvertimento non l’ho fatto, perché mi è venuto proprio ora in mente che la doppia d è anch’essa simbolica, e il simbolismo è assai appropriato. Tod è morte, e in questo libro la morte non c’entra molto. Todd è quasi Tod, cioè quasi morte, e in questo libro, se mai sarà scritto, c’entra moltissimo la quasi-morte.
Un’ultima osservazione. Siete mai rimasti delusi da racconti che parevano promettere chissà quale rivelazione, e invece se la sono cavata con un raggiro? A me è capitato più volte di imbattermi in racconti che riguardano qualche prodigiosa invenzione – una sfida alla gravità, o un telescopio abbastanza potente da vedere gli uomini su Saturno, o un’arma segreta capace di alterare il sistema solare – però la meccanica del mezzo atto a sfidare la gravità non viene mai spiegata; la questione se Saturno sia abitato o no non trova mai risposta; non ci viene mai insegnato il modo di costruirci da soli qualche macchinario capace di alterare il sistema solare. Ebbene, non sarà così questo libro. Se vi dico che sono arrivato a capire alcune cose, vi dirò che cosa sono queste cose, e le spiegherò più chiaramente che posso.
Todd Andrews, dunque. Adesso, tenete gli occhi aperti e vedrete come so muovermi veloce quando faccio sul serio. Ho cinquantaquattro anni e sono alto un metro e ottanta, però peso soltanto sessantasei chili. Il mio aspetto è quello che penso avrà Gregory Peck, l’attore, quando arriverà a cinquantaquattro anni, soltanto tengo i capelli abbastanza corti da non dovermeli pettinare, e non mi rado tutti i giorni. (Il confronto col signor Peck non è inteso come elogio di me stesso, soltanto come descrizione. Se fossi Iddio, creando la faccia sia di Todd Andrews, sia di Gregory Peck, farei solo qualche piccolo cambiamento qua e là.) Vivo discretamente bene, secondo i criteri comuni: sono socio dello studio legale Andrews, Bishop & Andrews (il secondo Andrews sono io) e la clientela mi fa guadagnare quanto desidero, sino a forse diecimila dollari l’anno, o forse meglio nove, ma non mi sono mai dato molta fatica per appurarlo. Vivo e lavoro a Cambridge, capoluogo della contea di Dorchester, sulla Costa Orientale del Maryland. È la mia città natale e quella di mio padre (Andrews è un vecchio cognome a Dorchester) e non sono mai vissuto altrove se non negli anni passati nell’esercito durante la prima guerra mondiale, e in quelli passati alla Johns Hopkins University e, dopo, alla facoltà di legge dell’Università del Maryland. Sono scapolo. Vivo in una camera singola dell’hotel Dorset, ho soltanto da attraversare High Street per recarmi al tribunale, e il mio ufficio si trova ad appena un isolato di distanza, a «Lawyers’ Row», quel tratto di Court Lane dove non ci sono altro che studi legali. Sebbene l’attività giuridica mi paghi il conto dell’albergo, per me la carriera non è più importante di cento altre cose: andare in barca, bere, passeggiare, scrivere la mia Indagine, fissare le pareti, dare la caccia alle anitre e ai procioni, leggere, giocare alla politica. Mi interesso di parecchie cose, e non sono entusiasta di nessuna. Indosso vestiti piuttosto costosi. Fumo sigari Robert Burns. Bevo di preferenza Sherbrook Rye e ginger ale. Leggo molto e senza metodo: cioè, ho un mio metodo, ma non è ortodosso. Non ho fretta. In breve, vivo la mia vita (l’ho vissuta, almeno, sin dal 1937) suppergiù nel modo in cui scrivo questo primo capitolo dell’Opera Galleggiante.
Ho quasi dimenticato di accennare alle mie malattie.
La verità è che non godo di buona salute. Questo mi è tornato in mente ora, perché mentre meditavo sul nome Opera Galleggiante, seduto qui al mio tavolino nell’hotel Dorset, circondato dai grossi archivi della mia Indagine, ho cominciato a tamburellare con le dita sul tavolo, seguendo il ritmo di un’insegna luminosa intermittente al neon fuori della finestra. Dovreste vedere le mie dita. Sono l’unica deformità in un corpo altrimenti molto funzionale e, come nel corso della mia vita mi è anche stato sussurrato, non privo di bellezza. Ma queste dita! Grosse, tozze; unghie immense, giallastre, pesanti. Avevo una volta (probabilmente l’ho ancora) una specie di endocardite settica subacuta (in parole povere: mal di cuore) con una complicazione speciale. L’ho avuta sin da giovane. Mi ha fatto gonfiare le dita, e ogni tanto mi indebolisco, ma non troppo spesso. Però la complicazione è una tendenza all’infarto del miocardio. Che vuol dire? Vuol dire che un giorno qualsiasi posso cadere morto sull’istante, senza alcun preavviso, forse prima di terminare questa frase, forse a venti anni da oggi. Lo so fin dal 1919, cioè da trentacinque anni. Il mio altro guaio è un’infezione cronica della ghiandola prostatica. Mi ha causato problemi piuttosto gravi quando ero più giovane – diverse specie di problemi, come senza dubbio spiegherò più avanti – ma da molti anni ormai prendo semplicemente una pillola di ormoni (un milligrammo di dietilstilbestrolo, un estrogeno) tutti i giorni, e salvo una notte insonne ogni tanto, l’infezione non m’inquieta più. Ho i denti sani, salvo un’otturazione nel molare sinistro inferiore posteriore e una corona sopra il canino destro superiore (me lo sono spezzato sulla ringhiera d’un traghetto nel 1917, a fare la lotta con un amico mentre attraversavamo il Chesapeake). Non sono mai stitico, e ho la vista e la digestione perfette. Infine, ho ricevuto un debole colpo di baionetta da un sergente tedesco nelle Argonne durante la prima guerra mondiale. Mi è rimasto un puntino sul polpaccio sinistro, dove un muscolo è stato atrofizzato; però non zoppico, e la piccola cicatrice non mi fa male. Il sergente tedesco l’ho ucciso.
Senza dubbio, quando avrò preso il ritmo della narrazione, dopo un capitolo o due, avanzerò più rapidamente e senza tante digressioni.
Avanti dunque, il titolo, e poi vedremo se possiamo cominciare il racconto. Quando decisi, sedici anni or sono, di scrivere come avevo cambiato idea in una notte del giugno 1937, non avevo in mente nessun titolo. In verità, soltanto un’ora addietro o giù di lì, quando mi sono messo a scrivere, mi sono accorto che il racconto sarebbe stato lungo almeno quanto un romanzo, e perciò ho deciso di dargli un titolo da romanzo. Nel 1938, quando stabilii di mettere il racconto per iscritto, era inteso soltanto come un aspetto dello studio preliminare per un capitolo della mia Indagine, gli appunti e i dati necessari alla cui stesura mi riempiono quasi tutta la stanza. Sono uno che va a fondo nelle cose. Il mio primo compito, una volta che ebbi giurato di mettere per iscritto quella giornata di giugno, fu di raccogliere il più completamente possibile tutti i miei pensieri e le mie azioni di quel giorno, per essere sicuro di non avere omesso nulla. Quel piccolo compito mi ha occupato nove anni (non volevo andare di corsa) e gli appunti hanno riempito sette cassette da frutta là vicino alla finestra. Poi ho dovuto ogni tanto fare un po’ di letture; qualche romanzo, per prendere dimestichezza con questa faccenda di narrare le cose, e alcuni libri sulla medicina, sulle costruzioni navali, la filosofia, i canti popolari, la biologia marina, la giurisprudenza, la farmacologia, la storia del Maryland, la chimica dei gas, e una o due altre cose, per acquistare certe «conoscenze di fondo» e per essere sicuro di aver capito almeno approssimativamente che cosa era accaduto. Per questo mi ci sono voluti tre anni, anni piuttosto spiacevoli, perché ho dovuto abbandonare il mio solito metodo di scegliere i libri per dedicarmi a quella lettura relativamente specializzata descritta sopra. Gli ultimi due anni li ho passati restringendo i miei ricordi di quel giorno da sette cassette da frutta a una, commentandoli e interpretandoli sino a ritrovarmi di nuovo sette cassette da frutta piene, e infine riducendo il commento da sette cassette da frutta a due, dalle quali intendevo tirare fuori commenti piuttosto a caso ogni mezz’ora circa durante la lavorazione del libro.
Ahimè. Ogni cosa, temo, è significativa, e nulla è definitivamente importante. Sono discretamente sicuro oramai che i miei sedici anni di preparazione non saranno così utili, o almeno non nello stesso modo, come avevo pensato: capisco gli avvenimenti di quel giorno abbastanza bene, ma in quanto al commento ritengo che mi conviene non commentare per nulla, bensì semplicemente limitarmi ai fatti. In questo modo sono certo che farò comunque ampie digressioni (infatti la tentazione è sempre grande, e si fa irresistibile quando so che il fine è irrilevante) però ho almeno qualche speranza di arrivare sino alla fine, e quando sarò abbandonato dalla grazia, potrò almeno felicitarmi delle mie intenzioni.
Perché L’Opera Galleggiante? Potrei spiegarlo sino al Giorno del Giudizio, senza riuscire a spiegarlo completamente. Ritengo che per comprendere interamente una sola cosa, non importa quanto sia minuscola, occorra la comprensione di ogni altra cosa al mondo. Ecco perché a volte mi do per vinto di fronte alle cose più semplici; ecco perché non mi dispiace di passare una vita intera nel prepararmi a iniziare la mia Indagine. Dunque, L’Opera Galleggiante. Fa parte del nome d’uno showboat che un tempo viaggiava per le paludi costiere della Virginia e del Maryland: l’Unica e Inimitabile Opera Galleggiante di Adam; Jacob R. Adam, proprietario e comandante; ingresso, 20, 35 e 50 centesimi. L’Opera Galleggiante era ormeggiata al Molo Lungo il giorno in cui ho cambiato idea, nel 1937, e una parte di questo libro si svolge a bordo di essa. Ecco una ragione sufficiente per prenderla come titolo. Però c’è anche una ragione migliore. Mi è sempre parsa una magnifica idea costruire uno showboat con una sola grande coperta piatta, su cui rappresentare una commedia ininterrottamente. Il battello non sarebbe ormeggiato, ma andrebbe su e giù per il fiume con la marea, e il pubblico sarebbe seduto sulle due sponde. Potrebbe afferrare quella parte della trama che il caso vuole si svolga mentre il bastimento passa, e poi dovrebbe aspettare il riflusso della marea per vederne un’altra parte, se per caso fosse ancora seduto in quel posto. Per colmare le lacune, gli spettatori dovrebbero servirsi della propria immaginazione, o domandare ai vicini più assidui, o sentir passare la parola da monte o da valle. Per lo più non capirebbero affatto quel che vi si svolge, o crederebbero di capirlo, mentre in verità non ne saprebbero niente. Moltissime volte potrebbero vedere gli attori, ma non sentirli. Non c’è bisogno di spiegare che molte volte la vita è così: i nostri amici ci passano davanti come sulla corrente di un fiume, e noi restiamo coinvolti nella loro vita; poi passano oltre, e noi dobbiamo fidarci di qualche chiacchiera per sentito dire o perderli completamente di vista; tornano indietro sempre sulla corrente, e ci tocca o rinnovare l’amicizia, aggiornandoci su quello che è successo nel frattempo, o scoprire che non ci comprendiamo più. E questo libro farà il medesimo effetto, ne sono sicuro. È un’opera galleggiante, amici, piena zeppa di curiosità, di melodramma, di spettacolo, di istruzione e di divertimento, ma scorre via volente o nolente secondo la marea della mia prosa vagante: l’avvisterete, poi la perderete di vista, poi la rivedrete; e senza dubbio vi ci vorranno grandissimi sforzi di attenzione e di fantasia – insieme a non poca pazienza, se siete lettori comuni – per non perdere di vista la trama mentre vi naviga sotto gli occhi e poi vi sfugge alla vista.
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Il circolo esploratori di Dorchester
Penso che mi sarò svegliato alle sei, quella mattina del 1937 (voglio chiamarla il 21 giugno). Avevo passato una brutta nottata, era quello l’ultimo anno dei miei disturbi alla prostata. Mi ero alzato più d’una volta per fumare un poco, per passeggiare su e giù per la camera, per mettere per iscritto degli appunti della mia Indagine, o per guardare dalla finestra verso l’ufficio postale, di fronte all’albergo dall’altro lato di High Street. Poi ero riuscito a prendere un po’ di sonno subito prima dell’alba, però la luce, o chi sa che cosa, mi svegliò alle sei in punto, come fa ogni mattino.
Avevo precisamente trentasette anni allora e, secondo la mia abitudine, salutai il nuovo giorno con un sorso di Sherbrook dal litro che si trovava sul davanzale della finestra. Vi tengo un litro anche in questo momento, ma non è lo stesso litro: ce ne corre. L’abitudine di salutare il giorno alzando il gomito era un residuo dei tempi delle associazioni universitarie: avevo imparato a prenderci un vero gusto, ma qualche anno fa ci ho rinunciato. Ho perso l’abitudine deliberatamente, in verità, soltanto per il piacere di interrompere un’abitudine.
Aprii gli occhi, dunque, stappai la bottiglia e feci un lungo sorso, mi scossi bene dalla testa alla punta dei piedi e mi guardai attorno nella camera. Era una mattina di sole, e anche se la mia finestra dà a ponente, la luce vi si rifletteva abbastanza da illuminare la camera. Il che era un peccato: l’hotel Dorset è stato costruito nei primi decenni del secolo decimonono, e la mia camera, come parecchie signore attempate, rende meglio sotto una luce soffusa. Allora, come oggi, l’unica finestra era picchiettata di piccoli cerchi di polvere formati da gocce di pioggia asciugate; le pareti intonacate verde chiaro erano percorse da una filigrana di antiche screpolature come una cartina in rilievo delle paludi di Dorchester; un barattolo da stufato di manzo vuoto – il mio portacenere – straripava di mozziconi (all’epoca fumavo) sopra la mia scrivania, un mobile bizzarro fornito dalla direzione dell’hotel; gli appunti per la mia Indagine, allora al settimo anno di lavorazione, riempivano appena tre cassette da frutta e una scatola di cartone ondulato sulla cui estremità era stampato PRODIGIOSI POMODORI MORTON. Una parete era in parte coperta, come lo è ancora, da una grande mappa catastale della contea di Dorchester, non così fittamente annotata come è oggi. A un’altra parete era appesa una pittura a olio da dilettante di quella che sembrava la concezione d’un cieco di quattordici cigni minori che atterravano simultaneamente nell’oceano Atlantico durante una mezza burrasca. Non ricordo come sia venuta in mio possesso, ma so che la tenevo per mera inerzia. In verità, si trova ancora là sulla parete, ma una volta, in un momento di ebbrezza, il mio amico Harrison Mack, il magnate dei sottaceti, vi dipinse sopra una specie di nudo a carboncino. Su tutto il pavimento (allora, ma non oggi) erano sparsi i bozzetti d’una barca che stavo cost...