Parte II
Alla ricerca di una teoria della razionalità morale
l. 4103Nella Parte I di questo lavoro abbiamo mostrato a grandi linee le differenti direzioni in cui è stato intrapreso negli ultimi decenni il rinnovamento della teologia morale fondamentale e della filosofia morale di ispirazione tomistica. Le ragioni di questa molteplicità di direzioni possono essere attribuite a diverse cause, ma senza dubbio una delle principali è la mancanza di una teoria della razionalità morale condivisa dai moralisti cattolici.
Tuttavia, se è vero che le differenze sono grandi, dobbiamo anche notare una certa unità di approccio, derivante dal fatto che tutti gli attori di questo rinnovamento pretendono di dare ragione dell’esperienza morale cristiana. Nessuna filosofia realista parte da zero: tutte partono dall’esperienza vissuta, per cercare di spiegarla, comprenderla, orientarla, ecc. Per questo motivo, nell’intraprendere il lavoro di fondazione della morale, presuppongono un’esperienza (morale) che contiene in sé non poche verità dalle quali si parte e che danno una certa direzione alla ricerca. Infatti, qualunque etica cristiana presuppone che l’uomo sia un individuo libero, creato da Dio con uno scopo in cui consiste la sua piena felicità, e che egli raggiunge attraverso il suo comportamento. Da qui la convinzione che l’uomo non agisce per agire: agisce per soddisfare i bisogni e, fondamentalmente, per soddisfare il bisogno di essere felice, il desiderio di vivere una vita buona, che in pratica si articola in una complessa serie di desideri che devono essere compresi e integrati in un insieme armonioso. Una seconda importante convinzione che ha dato origine alla riflessione etica fin dall’antichità – e che è presupposta anche dall’esperienza morale cristiana – è che non tutti i modi di soddisfare i bisogni dell’uomo sono buoni, il che equivale a dire che non tutti i modi di soddisfare i desideri umani li soddisfano veramente: la complessità del desiderare e dell’agire umani non di rado fa sì che l’uomo si sbagli (si “inganni”, dicevano i classici) su ciò che deve fare per essere felice. Questa esperienza della fragilità della nostra conoscenza morale ci porta a indagare ciò che vogliamo veramente e come possiamo soddisfare efficacemente quel desiderio: questo è a grandi linee ciò in cui la riflessione morale, filosofica e teologica consiste1.
L’etica moderna, rinunciando alla ricerca critica sui contenuti della vita buona e limitando la morale a un discorso sulle regole di comportamento, finisce spesso per separare in ambiti diversi ciò che per l’etica classica rappresentava un tema unico: la felicità personale e il bene (morale)2. Secondo F. Botturi, per l’etica classica – e quindi per l’etica cristiana, e a differenza di quanto accade nell’etica moderna – la libertà umana non è mai solo autodeterminazione (libero arbitrio, possibilità di scegliere) che la morale deve limitare in maniera ragionevole, ma soprattutto l’autorealizzazione, il compimento del soggetto agente nell’adesione volontaria al bene felicitante, un bene che fa parte dell’essenza della libertà, dandole il senso e la direzione, e che la riflessione morale cerca di individuare3. Se è vero che questa identità tra felicità personale e bene morale è stata in parte oscurata anche nella morale cattolica – ricordiamo le critiche alla manualistica per aver riportato la morale prevalentemente all’obbedienza alla volontà di Dio, lasciando in secondo piano la spiegazione del valore intrinseco delle azioni in una vita buona – oggi sembra esserci un certo consenso tra i moralisti cristiani a questo proposito. Persino per gli esponenti della morale autonoma o del proporzionalismo, il bene (morale) coincide con la felicità, anche se tendono a comprendere in modo particolare il contenuto oggettivo delle azioni sulla base del quale giudicare la loro bontà morale.
In fondo, mentre c’è un ampio consenso sul fatto che esiste una razionalità morale, una razionalità del bene umano che è oggetto della filosofia morale – e, alla luce della pienezza offerta dalla Rivelazione cristiana, oggetto della teologia morale – è diverso il modo di comprendere che forma ha quella razionalità, in cosa consiste quell’ordine razionale (ordo rationis) che risponde alla piena e vera realizzazione dei nostri desideri, al bene umano. Come si vede, prima di indagare il contenuto del bene umano, è necessario chiarire che forma ha, che cosa stiamo cercando quando poniamo la domanda sul bene umano, qual è la sua specifica razionalità (razionalità pratica). Come abbiamo avuto modo di vedere, è qui che le risposte – o meglio, la forma della domanda sul bene umano – differiscono tra i diversi moralisti: dal rispetto per le teleologie naturali colte speculativamente come un ordine voluto da Dio, alla realizzazione in situazione di valori personali sempre in conflitto, passando per l’obbedienza alla legge delle forme originarie della coscienza con la sua promessa di pienezza, o alla luce dell’amore che suscita la presenza dell’altro, ecc.
L’obiettivo di questa Parte II sarà, quindi, quello di offrire le linee generali di una teoria della razionalità morale che riesca a superare le aporie che abbiamo indicato nelle diverse proposte di fondazione della morale e che serva come base alla teologia morale per comprendere l’agire umano, cioè per capire di che cosa è pienezza la vita cristiana virtuosa o santità cristiana, e in che modo lo è. Non procederemo facendo un confronto dialettico tra le varie proposte delineate nella Parte I – abbiamo già evidenziato in quella sede le note critiche che ci sembravano più rilevanti –, ma con una nostra presentazione che tiene conto dei nodi teorici del dibattito e dei contributi di ciascuna proposta. Alla luce dell’esposizione, speriamo anche di mostrare come questa riesce a dare una risposta alle principali difficoltà o carenze che abbiamo evidenziato in questi progetti.
Questa teoria della razionalità morale cercherà principalmente di rispondere alla domanda sulla forma di tale razionalità, quella del bene che l’uomo raggiunge agendo: in cosa consiste quel bene, qual è la sua origine, come possiamo conoscerlo, perché esistono così tante risposte diverse alla domanda sul bene umano, in base a cosa diciamo che alcune sono vere e altre false, in che modo la fede influenza la conoscenza e la pratica del bene.
A tal fine, divideremo questa esposizione in due capitoli: prima di tutto, cercheremo di capire come agisce l’uomo, in base a quali desideri e a quali conoscenze prende le sue decisioni; in breve, come si spiega che questa persona ha agito in questo modo in questo momento (tradizionalmente questa riflessione si chiama “Teoria dell’azione”). In un secondo momento, cercheremo di spiegare in cosa consiste agire bene, quali sono le azioni che realmente soddisfano la nostra aspirazione alla felicità (tradizionalmente questo è il discorso sulla “Regola morale”).
Questa organizzazione dell’esposizione non è la più usuale nei trattati generali di morale, che di solito si propongono, fin dall’inizio, la spiegazione della vita buona – a cominciare dalla determinazione del fine ultimo, passando poi alle virtù, le azioni, ecc. che lo realizzano – e considerano i diversi elementi della teoria dell’azione quando questo ordo disciplinae lo richiede. L’Etica Nicomachea di Aristotele e la II Pars della Summa theologiae di San Tommaso sono esempi classici di questo modo di procedere. Il vantaggio di questa modalità tradizionale è che lo scopo principale dell’etica – determinare in cosa consiste la vita buona – è ...