Capitolo 1
La imago Dei nella relazione paterno-filiale. Profili teologici
l. 1Giulio Maspero
Pontificia Università della Santa Croce, Roma.
1.1 Introduzione etimologica
l. 6Dio, paternità e autorità sono termini profondamente connessi fin dall’inizio della storia del pensiero umano. L’analisi etimologica rivela una grande profondità teologica che risulta fondamentale per la questione in esame. Gli studi linguistici, infatti, ricollegano auctoritas ad auctor, che a sua volta dipende dal verbo augeo come suo nome d’agente. La radice aug- sembra indicare la forza, declinata in ambito sia religioso sia politico, come dimostra la prossimità tra augur, la sua variante augus, e il termine augustus, ad essa collegato, di cui era insignito l’imperatore. Ma la forza per eccellenza è quella generativa, il fecondare un sostrato, prerogativa tipica degli dèi. Si tratta del “far crescere” nella sua dimensione più radicale. Augustus, dunque, indica propriamente colui che è stato accresciuto dagli dèi, quindi da loro generato. Auctor e auxilium sarebbero, così, collegati, in riferimento ad una parola pronunciata con autorità che cambia il mondo, che fa crescere e vedere la luce1. Da un punto di vista teologico l’osservazione è particolarmente rilevante, perché permette di riconoscere il fondamento dell’autorità nell’autorevolezza del poter far essere e crescere.
La valenza religiosa e politica di auctoritas rinvia, dunque, anche alla dimensione familiare mediante il riferimento alla paternità, cioè all’atto più basilare che fa essere e crescere. Qui l’analisi etimologica chiama in causa la radice sanscrita pa- legata al proteggere e nutrire. Ma immediatamente e contemporaneamente in questo passaggio si presenta una distinzione fondamentale per la rivelazione cristiana: in ambito indoeuropeo è, infatti, comune la presenza di due termini distinti per indicare (1) la paternità universale, che si rinviene in primo luogo nella sfera mitologica e religiosa, indicata da pater, il quale si differenzia però nettamente da (2) atta, termine relativo alla paternità fisica e famigliare, caratterizzata dalla consanguineità. Ad esempio, Zeus è pater, ma non atta2. La stessa distinzione si ritrova sul fronte materno, tra mater, corrispondente a pater, ed anna, corrispondente ad atta3. Infine, anche nell’ambito delle relazioni di fraternità, tali distinzioni si ripercuotono nel senso diverso di phrater e adelphos: il primo esiste al plurale ed è riferito al padre, senza indicare il sangue, il secondo dice che si è dalla stessa matrice, quindi consanguinei, e si riferisce alla madre, dicendosi al singolare4.
In sintesi, l’autorità nella sua fonte primigenia è fondata nella capacità di generare che caratterizza la paternità, ma questa è distinta nella paternità estesa e in quella personale. Nella concezione pagana la prima è chiaramente superiore alla seconda, anche se la grandezza greca ci ha lasciato testimonianze mirabili dell’irriconciliabile e tragico conflitto tra queste due dimensioni, come dimostra, ad esempio, l’Antigone di Sofocle. Per questo è fondamentale che la relazione tra Cristo e il Padre Suo sia stata espressa nel vangelo proprio dall’accostamento di Pater ed Abbà (cfr. Mc 14,36). Gesù non chiama l’Altissimo solo padre, come ogni creatura potrebbe fare, ma lo chiama papà, con un termine che indica identità di natura. Proprio tale accostamento è la causa della sua condanna alla morte di croce, perché dice di essere Dio affermando che il Pater è il Suo Abbà (cfr. Gv 10,33). Lui che è vero uomo, in quanto figlio di Maria, Sua anna, sua mamma, dalla quale ha ricevuto la carne e la natura umana, tanto da poter subire le conseguenze della fame, del dolore e, perfino, della morte, è nello stesso tempo vero Dio perché Colui che è il Pater di tutti, cioè il Creatore di ogni cosa, è il Suo abbà, il Suo papà.
La Buona Novella, cioè il Vangelo, è che attraverso l’effusione del Suo Spirito di Figlio, nel mistero pasquale, tale filiazione è disponibile ad ogni uomo, perché Gesù “ha dato il potere di diventare figli di Dio” (cfr. Gv 1,12), mediante il dono della relazione con Sua madre, cui Giovanni è affidato ai piedi della Croce (cfr. Gv 19,25-27). Così, come esplicita Paolo, anche i cristiani possono chiamare Dio abbà, cioè papà, in Cristo e nel Suo Spirito che abita in loro. Per questo, anche per noi il Pater è diventato abbà (cfr. Rm 8,15 e Gal 4,6) in quanto generati nella Sua Vita che non conosce limite perché è la sua stessa natura (cfr. 2 Pt 1,4).
1.2 Breve storia della filiazione divina: il pensiero pagano
l. 16Ma la chiarezza di tale comprensione ha richiesto un percorso lento e profondo, che a poco a poco ha riconfigurato le categorie di paternità, filiazione e autorità del pensiero umano, superando resistenze che ancor oggi continuano a riemergere e devono essere teologicamente neutralizzate. Ciò si può mostrare attraverso una presentazione estremamente succinta dello sviluppo della concezione della filiazione divina, che coincide in gran parte con lo sviluppo del pensiero sul rapporto tra Dio e mondo dal paganesimo fino alla modernità.
È essenziale, per questo, muovere nell’analisi dal pensiero greco, in concreto dalla filosofia di Platone, il quale termina il Timeo con la seguente affermazione:
E così ora possiamo affermare di aver portato a termine il nostro discorso sull’universo: perché, comprendendo in sé gli esseri mortali e immortali, ed essendone pieno, questo mondo, essere visibile che contiene in sé le cose visibili, dio sensibile fatto a immagine dell’intellegibile, massimo e ottimo, e bellissimo e perfettissimo, così è stato generato, questo cielo uno e unigenito5.
l. 24 Nella concezione platonica il mondo è considerato come figlio unigenito e dio immagine sensibile dell’intellegibile. Si vede subito che il rapporto tra la divinità e il mondo è espresso in termini filiali: la prima è considerata pater del secondo, che a sua volta è immagine del primo principio. Nello stesso tempo si manifesta anche con grande chiarezza l’elemento che distingue radicalmente tale posizione dal cristianesimo: Dio e il mondo sono concepiti come un unico ordine ontologico e, quindi, connessi in modo necessario. È possibile, perfino, risalire con il pensiero la scala gerarchica delle cause fino a giungere alle prime Idee6. La costruzione è simile a quella che sottostà alla scala dei motori aristotelici, che conduce alla scoperta del Motore immobile7. Sempre, nella concezione filosofica antica, Dio e il mondo appartengono ad un unico ordine ontologico finito, e per questo esplorabile dalla ragione umana.
Manca, dunque, un’autentica discontinuità e il mondo è eterno come la divinità, dalla quale non è creato attraverso un autentico atto di libertà e di amore che dia inizio al suo essere e ne fondi la bontà, come avviene nella tradizione giudaico-cristiana. La distinzione tra la divinità e il mondo deve essere, dunque, ricondotta a un principio negativo, come avviene con la Diade rispetto all’Uno nel caso platonico o con la potenza rispetto all’atto in quello aristotelico. Così, la generazione e la filiazione sono sempre accompagnate da un riferimento intrinseco all’inferiorità, che tanto costerà superare nella formulazione del dogma trinitario, in particolare nel sec. IV, come si vedrà di seguito.
Platone assegna un’enorme valore alla generazione, collegata all’immortalità e quindi al divino, come quando definisce Eros in termini di desiderio di generare nel bello8, ma, appunto, nello stesso tempo è costretto ad affermare che Eros non è un dio, perché l’amore è letto sempre come desiderio di qualcosa che manca e non come desiderio di donarsi. La generazione è considerata, dunque, dalla prospettiva della necessità e dell’inferiorità ontologica. Ciò si riflette sulla concezione di immagine, che, come visto nel testo del Timeo appena citato, è predicata del mondo in quanto fondamento del suo essere specchio della realtà più vera e fondamentale che è quella intellegibile. Così la connessione necessaria si traduce in termini di inferiorità metafisica dell’immagine di Dio rispetto all’archetipo9.
Tali caratteristiche della filiazione divina furono man mano ricollegate alla concezione del logos, inteso come causa necessaria che connette i diversi livelli dell’unica scala ontologica. La ragione dell’uomo poteva procedere di causa in causa, fino a giungere alla Causa prima di ogni cosa, e il logos veniva inteso proprio come nesso causale tra i diversi livelli. Esso univa, ma nello stesso tempo distingueva e, per definizione, doveva essere diverso dal Primo Principio. Valga come esempio paradigmatico la seguente affermazione di Porfirio, ormai in epoca cristiana: “Tutto ciò che genera, genera qualcosa di inferiore alla sua essenza”10.
È evidente il valore di queste affermazioni per la riflessione trinitaria e le difficoltà che tali precedenti filosofici ponevano al riconoscimento della piena divinità del Figlio Unigenito del Padre, identificato con il Logos eterno nel prologo del quarto vangelo11. In riferimento alle categorie introdotte nell’introduzione etimologica del presente contributo, ciò significa che il Pater non poteva metafisicamente essere Abbà, in quanto il secondo termine implica l’identità di natura e un “essere immagine” orizzontale, piuttosto che verticale, quindi nell’identità di dignità, piuttosto che nella subordinazione.
1.3 La novità nella sto...