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I ragazzi di Portofranco, un'esperienza di educazione e integrazione

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I ragazzi di Portofranco, un'esperienza di educazione e integrazione

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Con i suoi quattromila ragazzi, una cinquantina di sedi in tutta Italia e un giro di ottocento volontari, Portofranco è una realtà semplice e grande insieme. Nato a Milano nel 2000 da un'intuizione di don Giorgio Pontiggia, amico di don Giussani e a lungo rettore di una grande scuola milanese, è un centro di aiuto allo studio, completamente gratuito, rivolto ai ragazzi delle superiori. Moltissimi di loro – circa un terzo – sono immigrati o italiani di seconda generazione: cinesi e sudamericani, mediorientali e africani, musulmani e ortodossi. Lavorano insieme, si incontrano, molto spesso diventano amici. E soprattutto trovano adulti disponibili ad accoglierli e seguirli, uno per uno. Oltre a essere un'esperienza educativa straordinaria e una risposta concreta a problemi come il recupero scolastico e la lotta alla dispersione, Portofranco è una finestra spalancata su temi cruciali – integrazione, dialogo tra generazioni, futuro – e sulle domande di senso ultimo, come testimoniano le storie e i ritratti di ragazzi e volontari che Davide Perillo ha raccontato in questo libro.

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Informazioni

A Julián,
perché nessuno genera
se non è generato

PREFAZIONE
di S.E.R. Cardinale Matteo Zuppi
Arcivescovo di Bologna

«Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore»1. Per parlare dell’esperienza di Portofranco mi piace partire da questa frase di San Giovanni Bosco che, a mio avviso, è una parafrasi perfetta della frase che troviamo scritta in caratteri cubitali all’ingresso dei locali dell’associazione: «I ragazzi non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere». E solo il cuore, che accende la mente e la tiene viva, può accendere i cuori anziché riempirli, spesso in maniera disordinata. Maria Montessori diceva che «più dell’elettricità, che fa luce nelle tenebre, più delle onde eteree, che permettono alla nostra voce di attraversare lo spazio, più di qualunque energia che l’uomo abbia scoperto e sfruttato, conta l’amore: di tutte le cose esso è la più importante». E l’educazione è sempre un atto di amore che suscita amore e che non lo possiede, come il vero amore.
Questo centro di aiuto allo studio che aiuta gratis almeno quattromila ragazzi in tutta Italia, con una cinquantina di sedi e un giro di ottocento volontari, è «una rete larga ma nascosta», scrive l’autore, fatta di «gesti così normali e quotidiani» che può passare inosservata, come la foresta che cresce senza fare rumore: «È raro che compaia sui giornali quando si parla dei giovani, della scuola, dell’“emergenza educativa”». Ma è lì e continua ad illuminare tante tenebre e preparare il futuro, specialmente ai tanti che, purtroppo, ancora oggi “restano indietro”. Lo abbiamo visto nella pandemia: l’abbandono scolastico è aumentato e chi aveva difficoltà ne ha avute ancora di più.
Le cose importanti nascono sempre da quello che appare un caso e che è soltanto «il travestimento assunto da un Dio che vuol passeggiare in incognito per le strade del mondo», diceva il Cardinale Biffi. Dio aiuta le cose grandi proprio con le piccole, Lui che è il più grande e che si fa piccolo. Spesso le persone pensano il contrario e disprezzano gli inizi umili, cercando le prove immediate, stancandosi, arrendendosi alle prime difficoltà. Qui, come vedremo più avanti, tutto è nato nel novembre 2000 grazie a una cena tra amici: «A capotavola, don Giorgio, prete sanguigno, figlio – più che allievo – di don Giussani e a sua volta educatore tenace di centinaia di ragazzi, da responsabile di Gioventù Studentesca e da rettore dell’Istituto Sacro Cuore di Milano. Intorno, un gruppetto di insegnanti. Discussione calda, appassionata. E il sacerdote ha un’intuizione che lui stesso, poi, racconterà così: “Se dobbiamo aiutare i ragazzi, qual è il punto in cui fanno più fatica, il bisogno che esprimono di più? La scuola. Bene, cominciamo da lì”».
Educare, insegnare, far crescere è solo una questione intellettiva e di apprendimento o è un’esperienza che coinvolge l’aspetto relazionale, affettivo, emozionale, amicale? C’è spazio per il cuore nell’esperienza educativa? Direi che Portofranco ci aiuta a dare una risposta chiara, perché ci mette di fronte ad una realtà che, all’apparenza, si presenta come un grande e strutturato “dopo-scuola” mentre, di fatto, si caratterizza per essere una vera e propria scuola di vita e di relazione, in cui “insegnanti” e “alunni” condividono non solo le nozioni e le conoscenze, ma un tratto della propria vita. Non è, in realtà, sempre così l’educazione? Quando non c’è condivisione o relazione, a cosa si riduce?
Non a caso Portofranco, anche nella sua stessa denominazione, è un luogo libero. L’educazione rende liberi ed è frutto di tanta e vera libertà, così diversa dal vivere slegati. L’intuizione di don Giorgio Pontiggia non fu quella di dar vita ad una seconda scuola, ma ad un’esperienza in cui l’“insegnante”, spesso un professore in carica o in pensione o uno studente universitario, si relaziona uno ad uno con l’“alunno”, in un rapporto che diventa una condivisione di vita, un legame profondo, un aiuto reciproco. È la comunicazione che non salta ambiguamente i ruoli, non li confonde, ma li rende comunicanti, pieni; tanto che chi insegna si accorge che sta imparando, e chi deve imparare diventa lui stesso un insegnante.
È un libro di storie, di persone, di fatti, di creatività originale, che ci parlano di incontri, di fatiche, di diffidenze, di gioie, di soddisfazioni, di riconciliazione, di fuoco e di passione. Storie vere, che ci aiutano a leggere i nomi, i volti, le provenienze, senza nessun pregiudizio, ed a capire e valorizzare la ricchezza nascosta in ognuno.
Sono storie all’apparenza semplici, mai banali, anzi che ci aiutano a vedere le tante presenze dello Spirito di Dio nella vita ordinaria delle persone. Storie sussurrate e non enfatizzate; storie a volte tragiche, ma a lieto fine. Storie dove tutti sono uguali e tutti originali. In questo senso Portofranco realizza quello che papa Francesco indica con la sua enciclica Fratelli tutti, grande sogno che prepara il futuro per la nostra casa comune, convinti che siamo sulla stessa barca e che solo insieme se ne esce. A Portofranco, tutto ciò è una realtà.
Il libro è una miniera «dove, lavorando, si trovano, un po’ incrostate e nascoste, piccole o grandi pepite», come dice uno dei ragazzi parlando di questo posto. E ci aiuta a farlo in luoghi che avremmo pensato privi di valore. È vero: aspettavano solo qualcuno che le scoprisse. E il segreto è la gratuità. L’amore non possiede ed è prezioso quando non ha altro interesse. Julián Carrón ricorda che l’educazione è «un’opportunità strepitosa», a patto che a coglierla siano adulti «senza volontà di possesso, animati solo dal desiderio di condividere quello che abbiamo ricevuto con i giovani». Ecco, questo è un buon esempio. Così i ragazzi «si stupiscono e diventano capaci di cose belle. E l’incendio di un cuore è sempre un miracolo», dice uno dei volontari.
Michele, ormai all’università, racconta che ora cerca di «splendere come una fiaccola»; Giovanni gioisce, perché finalmente non si sente trattato «come un deficiente»; Nurgul, ora educatrice, ha trovato in Portofranco un aiuto non solo allo studio, ma alla vita.
Ma Portofranco è anche la storia, mischiata a quella dei ragazzi, di tanti volontari, che vedono ogni giorno i miracoli del voler bene, dell’accoglienza, della disponibilità, come Giovanni che riassume il suo servizio in una frase densissima: «L’essere amati fa fare cose straordinarie». Alessandra, una degli universitari, racconta che «guardando i loro volti ho iniziato a commuovermi. Ho sperimentato di essere bisognosa di un posto così. Mi sono resa conto che non erano solo i ragazzi ad aver bisogno di me, ma io di loro e di un posto in cui il mio “io” venisse così sfidato». È proprio vero: troviamo il nostro io non collezionando le sue infinite interpretazioni, ma nell’incontro, con emozione, dell’altro.
Sempre Alessandra aggiunge che «Portofranco mi ha aiutata a capire anche la mia vocazione: io non ho fatto Lettere con l’idea che sarei andata a insegnare, ma stando con i ragazzi mi sono accorta di una contentezza strana». Portofranco sa che l’educazione ha bisogno di pazienza; non è digitale, non serve nemmeno verificarla con indicatori e coefficienti immediati, perché l’amore è sempre una creazione originale e ha bisogno di tempo. Ad esempio, Enrica racconta di Megla, ragazza sveglia, arrivata a Scholé (il Portofranco di Bologna) quando faceva la seconda superiore, che «ha fatto un percorso altalenante, perché a volte si legava ad amicizie un filo trasgressive… Ma anche questo era un modo per coinvolgersi con la realtà. E qui è sempre venuta». Al punto che, osserva l’autore, «negli anni, è maturato un rapporto di fiducia, di condivisione». Negli anni. Gratuità e fedeltà.
I ragazzi che “sbarcano” a Portofranco come ultima spiaggia vi trovano una seconda casa e gli insegnanti che, dopo ore di lezione o di studio non vedrebbero l’ora di andare a casa, ritornano a “far scuola” gratuitamente, sapendo che lì sono attesi. Questo vale anche per tanti insegnanti, ormai in pensione, come il compianto Benedetto che, dopo aver iniziato l’esperienza di Portofranco a settant’anni, scriveva: «È arrivata la pensione e credevo di aver finito, che sciocco; adesso ho uno stuolo di ricercatori». Anche Giovanni, parlando dei colloqui con i genitori dei ragazzi, dice: «Vedo due cose: il bisogno che i figli si sentano accolti, e lo stupore quando si rendono conto che qui può succedere».
Portofranco è un luogo in cui i ragazzi vengono accolti come persone, in cui si intraprende la lotta alla dispersione che, spesso, significa disoccupazione, in cui si impara a vivere l’impegno scolastico come un’occasione di crescita umana, attraverso una forte esperienza di condivisione e di integrazione sociale.
Portofranco è un faro, come si vede nel logo dell’associazione, che traccia la via e dà sicurezza a chi è perso e non sa che direzione prendere; che illumina l’oscurità che, a volte, avvolge chi ha perso fiducia nelle sue capacità; che rimane stabile e fermo, sempre presente ed accogliente verso chi chiede aiuto.
I ragazzi di Barbiana affermavano di aver bisogno di insegnanti che fossero capaci di amare: insegnanti che possano «appassionarsi alla scuola, amare i ragazzi e essere amati. E soprattutto aver la gioia d’una scuola che riesce». Era la passione di un educatore come don Milani, che diceva di sé: «Non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare». I ragazzi dicevano di lui che «voleva che noi si capisse: “Tu vali! Tu sei importante!”». È la stessa preoccupazione che si vede qui, in azione.
«Continuate così», conclude la sua lettera un ragazzo, dopo aver parlato della realtà di Portofranco. «Continuate così», è anche il mio augurio.

INTRODUZIONE

Premessa d’obbligo: non sono un insegnante. L’ho fatto solo per due anni, tanto tempo fa, per pagarmi gli studi e prima di imboccare un’altra strada. Di quel biennio in un ginnasio della “Milano bene” ho ricordi molto vivi, volti e momenti che mi porto dentro e mi hanno dato tanto. Ma dopo di allora, le uniche scuole in cui ho messo piede – a parte qualche occasione sporadica legata al mio mestiere – sono state quelle dei miei figli, e non certo per salire in cattedra. Davvero poco per pensare di essere un esperto, tantomeno un “addetto ai lavori”.
Perché, allora, occuparmi di un doposcuola, di un posto dove ogni pomeriggio decine di ragazzi incontrano dei volontari che li aiutano a fare la cosa apparentemente più scontata della loro vita da adolescenti, cioè studiare? Che cosa mi ha colpito di una realtà come Portofranco?
Non è una domanda retorica: è venuta fuori più volte, man mano che andavo avanti. Le risposte le ho messe a fuoco strada facendo. E sono due.
La prima è quella che tanti, ormai, chiamano “emergenza educativa”. È un problema evidente, drammatico. Molto più profondo dei (pur giusti) dibattiti su quanto sia rimasta indietro la scuola, quanto annaspi la famiglia e quanto i ragazzi siano bombardati da media, social e modelli variamente discutibili. Tutti argomenti interessanti, certo. Ma nascondono una questione più radicale, e riguarda noi adulti: che cosa consegniamo ai nostri figli? E come lo facciamo? Non sto parlando di conoscenze e nozioni, di strumenti per guadagnarsi un lavoro o ritagliarsi una posizione: parlo di attrezzi per vivere. Qualcosa di bello da proporre ai loro desideri, qualcosa di vero da offrire alle loro domande, un terreno solido su cui invitarli a fare i loro passi, a conquistare le loro certezze… Lo abbiamo? Abbiamo proposte reali da comunicare? E dico reali perché parole e discorsi – e persino valori, se astratti – non bastano più: servono fatti, esperienze. Serve una vita, per accendere la vita. Per invitare un ragazzo a tirar fuori, e spendere, il talento della propria umanità. «Se qualcuno ti ha educato può averlo fatto solo con il suo essere, non con le sue parole», ha scritto Pier Paolo Pasolini. Credo sia più vero che mai.
Questa emergenza è uno dei nervi più scoperti in una società che pare assillata da un maldimare perenne, piena di incertezze e vuota di senso. E riguarda tutti, non solo gli addetti ai lavori. Forse, anzi, è il problema decisivo di oggi. Io, ad ogni modo, lo avverto molto. Da padre di tre figli. Da giornalista che ha diretto a lungo un mensile come Tracce, in cui l’educazione è un tema portante. Da uomo che ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada educatori formidabili, di quelli che spendono la vita per aiutarti a vivere: persone come don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione, o Julián Carrón, il suo erede, e altri.
Ma c’è un secondo fatto che mi ha colpito, e mi ha spinto a occuparmi di Portofranco: la bellezza di ciò che accade in quelle aule. Gli incontri. I dialoghi. La crescita percepibile a colpo d’occhio dei ragazzi, quando si accende la loro libertà. E il cambiamento, altrettanto visibile, dei volontari, anche dei più anziani, quando si rendono conto di essere lì non solo per fare, ma per scoprire qualcosa di sé e del mondo. Non c’è niente di più spettacolare che vedere fiorire l’umano. E qui succede.
L’idea del libro è nata così. Da fatti che vedevo accadere o mi venivano raccontati. E dall’ipotesi che dentro quei fatti particolari, non eclatanti, seminascosti tra aule e banchi – un ragazzo che si presenta con una sbarra nello zaino, pronto per le solite risse notturne, e nel tempo diventa a sua volta educatore; una ragazza che si illumina davanti ai versi di Dante perché ci trova qualcosa di suo; un gruppo di prof italiane invitate al funerale di un alunno bengalese e musulmano come fossero gente di famiglia, e tantissimi altri –, ci fossero delle dinamiche universali, dei segnali per tutti. Strade reali per affrontare problemi enormi, a prima vista inestricabili. L’educazione, appunto. Ma anche l’integrazione, il rapporto tra generazioni, la delinquenza giovanile…
Quei fatti accadono, dunque si può. Esistono vie per affrontare quei drammi. Il problema non è più elaborare teorie sulla scuola o sui giovani, ma guardare. E chiedersi: perché succedono? Che cosa li rende possibili?
Ho provato a capirlo compiendo un piccolo giro d’Italia, visto che da quella prima realtà nata a Milano nel 2000 ne sono spuntate tante altre: almeno una cinquantina. Ne ho visitate alcune, da altre ho raccolto testimonianze e documenti. Ne vengono fuori cinque reportage, pieni di fatti e racconti, alternati ad altrettante storie, più approfondite. E una rassegna finale di lettere e contributi. Storie particolari, di ragazzi e volontari, in cui emergono almeno due fattori universali.
Il primo è il cuore dei giovani. È potentissimo, e continua a lavorare. Anche sotto l’assedio dello scetticismo, il dilagare del “non ne vale la pena”. Attenzione: non è una questione di sentimenti. Parlo di “cuore” nel senso in cui ne parlava proprio don Giussani: un fattore irriducibile della nostra umanità, un complesso di esigenze e di evidenze fondamentali che abbiamo tutti, dovunque e in qualsiasi momento storico. Desideriamo il bello, il vero, il giusto. Ne abbiamo bisogno per vivere, anche quando ci sembrano parole impolverate. E questo bisogno ci fa avvertire se la proposta che abbiamo davanti è seria o no, è alla portata di questi desideri. Ci metteremo tutto il tempo e i tentativi necessari a vagliarla, potremo anche dire “no”, ma dentro di noi una spia resta accesa, una bussola continua a indicare il Nord.
Bene, nell’incertezza che li circonda, in cui siamo immersi tutti, i ragazzi hanno uno strumento che resiste. Anzi, forse si è fatto ancora più acuto e sensibile. Perché sono – siamo – disarmati di fronte alla vita: parole e teorie non servono più. Consapevoli o no, attendiamo. Tutti.
Il secondo fattore è il metodo. La strada che si apre quando questa attesa viene «presa sul serio» (come reclamava don Giorgio Pontiggia, ideatore di Portofranco) e incontra una proposta. Qui succede nel rapporto personale, uno a uno, tra docente e discente, tra il ragazzo che ha bisogno e il volontario che lo aiuta a recuperare. E lo fa gratis. Non solo perché non gli chiede soldi, ma perché non pone condizioni: non “ti aiuto se fai…” o “ti premio se prendi…”. No: semplicemente, ti aiuto perché ci sei, sei un valore. E vedere crescere questo valore, aiuta me e il mondo. Tu fai quello che vuoi, ma io sono con te.
Gratuità e libertà. Sembrano parole grosse, per parlare di un semplice doposcuola. Ma Portofranco si regge su questo. Ed è grazie a questo che parla a tutti. Perché l’ultimo aspetto che mi ha colpito, in questo viaggio, è il valore sociale e civile di una realtà come questa. È un’esperienza che nasce all’interno di una storia precisa, con una fisionomia chiara – la matrice è cristiana, e molti dei volontari vi prendono parte con lo scopo di educare se stessi alla carità e alla fede, non solo per “fare qualcosa di buono” –, ma genera un bene per la società intera. Anzi, forse lo fa proprio per questo, perché quella radice permette una dimensione veramente cattolica – che, non dimentichiamolo, vuol dire universale.
In un libretto preziosissimo uscito qualche tempo fa (Educazione, comunicazione di sé, edito da San Paolo), proprio Julián Carrón citava una frase profetica di don Giussani: «Tra non molto diventerà difficile, quasi impossibile comunicare qualcosa di importante alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il desiderio che abita nel cuore di ogni uomo possa essere risvegliato». Portofranco, nel suo piccolo, è uno di questi luoghi. È per questo che vi invito a visitarlo, insieme.

1

«COME FATE A ESSERE COSÌ?»

Quattro rampe di scale, due piani appena. Ma «si fanno con gli occhi», come dicono qui: sali e vedi. Alle pareti ci sono i pannelli di una mostra. Foto in bianco e nero: volti giovani, qualche adulto. E frasi semplici: «Si può essere felici anche studiando», o «finalmente ho trovato chi mi ascolta». In molti scatti c’è un abbraccio, in tutti facce contente. L’ultimo pannello cita Martin Luther King: «Non hai bisogno di vedere tutta la scala: inizia semplicemente a salire il primo gradino». Ma in cima, sul pianerottolo, c’è anche una lavagna, con il fondo nero e le lettere colorate. Non c’entra con la mostra, è lì da anni. Forse da sempre. È una frase di Plutarco: «I ragazzi non so...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Prefazione di S.E.R. Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna
  8. Introduzione