Migrare nel web
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Migrare nel web

Comunicazione relazionale a distanza nella cronaca di un biennio vissuto con il virus

  1. 228 pagine
  2. Italian
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Comunicazione relazionale a distanza nella cronaca di un biennio vissuto con il virus

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I lunghi mesi che all'inizio del 2020 hanno visto l'esplosione della pandemia da Covid-19 sono già iscritti nella storia dell'umanità come un momento di passaggio catastrofico, portatore di lutti, perdite, capovolgimenti di stili di vita, amplificatore di disuguaglianze e sofferenze, come per tutte le catastrofi. Una riflessione su quello che ci ha permesso di restare umani comincia a essere possibile soltanto a distanza di due anni dalla prima emergenza sanitaria.L'autrice, a partire dalla sua esperienza diretta di professionista e studiosa delle persone e dei legami tra le persone, si rivolge con questo testo a chi come lei prima nei lunghissimi mesi del lockdown, e poi nella fase di limitazioni, ha visto cambiare radicalmente il suo lavoro con le persone. Terapeuti, insegnanti, educatori, assistenti sociali, tutto un mondo di operatori, da lei definiti in modo assai significativo operatori relazionali, che il lockdown ha posto in un territorio di esilio coatto, nell'impossibilità di incontrarsi in presenza sono il campo di ricerca e i destinatari di questo testo.È stato il web a fornire risposta e antidoto all'esilio, anche per i professionisti della relazione, con uno spostamento di massa che l'autrice definisce nella sua sostanza e al tempo stesso nel significato metaforico che contiene come una vera e propria migrazione. Migrare infatti è da sempre una delle strategie di adattamento che la vita utilizza per attraversare i cambiamenti, soprattutto i cambiamenti che hanno segnato le sorti del nostro pianeta con le grandi catastrofi.Leggere queste pagine può aiutarci a rimettere in moto i pensieri.La questione era, e rimane, quella del restare umani. Insieme.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788861538887

PARTE PRIMA

ERA IL 2020
In realtà, ho sempre pensato che,
dietro a ciò che noi chiamiamo le nostre storie “personali”,
si nasconda sempre la stessa sfida,
in una forma o in un’altra:
rendere la vita (e non la sopravvivenza) possibile
in questa situazione concreta.
Miguel Benasayag

SCOPPIA LA PANDEMIA

Venimmo estromessi dai nostri studi, scacciati dalle aule e allontanati dalle scrivanie degli uffici. Ci trovammo a curare, studiare e lavorare dentro alle nostre case. Ci obbligarono a stare confinati tra le pareti domestiche, più o meno affollate. Fummo privati della possibilità di stare insieme a chi volevamo.
Ai primi di marzo del 2020 un decreto governativo costrinse i professionisti della relazione a stravolgere le loro abitudini. Bisognava provare ad arginare una pandemia.
Guardammo alla storia per comprendere le devastazioni dovute ai virus, chiedemmo lumi alle scienze, reagimmo psicologicamente con le nostre risorse emotive. Ci sentivamo smarriti. Il trauma fu davvero violento. Per tutti. Le reazioni tra gli operatori relazionali1 furono però diverse a partire dallo schema traumatico introiettato da ognuno in quel tempo lontano in cui, privi della possibilità di pensare, avevano ricevuto sufficienti o inadeguate cure nell’ambiente materno. Il dramma pandemico fece emergere la struttura traumatica, magari riparata da un lavoro su se stessi, ma pur spesso presente in molti soggetti che si occupano dell’altro.
Gli psicoterapeuti che risanano le frammentazioni psichiche, gli educatori e i docenti che si occupano della maturazione cognitiva ed emotiva e gli operatori sociali che cercano di aggiustare le fratture imposte dalle vicende della vita, non smisero tuttavia di lavorare poiché l’emergenza sanitaria era anche emergenza sociale.
La pandemia interrompeva, destabilizzava, impediva i ritmi della vita lavorativa conosciuta lasciando senza uno schema di riferimento chi aveva consolidate abitudini di incontro in presenza.
Tuttavia molti psicoterapeuti, psicologi, docenti, educatori e assistenti sociali si posizionarono in prima linea accettando il repentino cambiamento e la conseguente sfida a continuare ad occuparsi di chi ne aveva bisogno.
Conoscevano il rapporto in presenza, dovevano imparare a costruire la relazione a distanza.
Gli operatori, che già lavoravano sul vincolo relazionale e che su quel legame costruivano l’apprendimento, che poi è sinonimo di cambiamento e perciò di cura della mente, sentirono sia il dovere di rispettare le regole dell’emergenza sanitaria, sia l’obbligo di rimanere fedeli alla deontologia di una professione che si fonda sul prendersi cura dei rapporti umani.
Migrarono quindi nel web come estensione dello spazio vitale quotidiano.
Migrarono con la speranza e la convinzione di poter arricchire la loro capacità di vivere le relazioni.
Migrarono perché capirono subito che non solo era necessario usare uno strumento digitale, ma anche che era contemporaneamente urgente saper creare un ambiente speciale, con un suo stile di pensiero, per contribuire a definire un nuovo modo di stringere i legami.
Anche se in difficoltà l’operatore relazionale non abbandonò pazienti, allievi o assistiti. Il professionista che aveva fondato la sua teoria e la sua tecnica sullo sviluppo di una struttura vincolare, pur sentendosi minacciato, sgomento e privato dei suoi strumenti, non si lasciò sopraffare dall’isolamento dovuto al dilagare del virus. Fu un situazione inedita perché mise tutti alla pari sullo sfondo pandemico, ma gli operatori, che hanno come compito la cura dei legami, non poterono disertare il loro lavoro e perciò si attivarono audacemente per mantenere vivo il valore dell’incontro. Dovevano iscrivere i significati e i principi della loro vita professionale nell’ambiente digitale.
La novità fu che noi e i nostri interlocutori fummo parimenti colpiti dalla minaccia del virus killer. Non c’era chi era salvo e chi era a rischio. Ognuno soffriva e temeva per la sua stessa vita. Sentimmo però la responsabilità di prenderci cura dei nostri timori per fronteggiare, con intrepida determinazione, il panico che serpeggiava tra la gente trasformandosi in rabbia, paura, aggressività, depressione, violenza e disperazione.
Lo facemmo consapevoli che una parte della dissimmetria era saltata. O perlomeno crollò un’immaginaria differenziazione di status. Eravamo nella stessa barca, quella che naviga in mari sconosciuti con la terribile minaccia di un virus invisibile che portava presagi distruttivi.
Ognuno doveva fare la sua parte affrontando il conflitto interiore tra vita e morte per salvaguardare se stesso e gli altri.
Per i professionisti della relazione che cura, educa e assiste, pertanto, pazienti, allievi e utenti furono una fetta di popolazione da salvaguardare, ma anche rappresentarono un’ancora di salvezza vitale.
Curarono il senso da dare a se stessi.
Coprirono ogni possibile depressione da solitudine.
Vivificarono giornate senza cadenze.
Incrementarono il piacere della ricerca sul campo.
E non solo perché gli operatori potevano continuare a lavorare, ma soprattutto perché la presenza delle persone da curare, educare o assistere animava la monotonia di ogni giornata. I professionisti della relazione si sentirono meno soli perché mantennero quel contatto umano che rappresenta la linfa vitale della generatività. Molti lavorarono operando da lontano. A loro dobbiamo l’inizio della rivoluzionaria migrazione nel web. Solo qualcuno invece lo fece intervenendo da vicino pur dovendo così sopportare pesanti tute protettive. A loro dobbiamo le videochiamate con persone isolate e malate.
Grazie alla Rete chi doveva occuparsi dell’altro non lo abbandonò in quanto fu capace di non farsi sopraffare dall’atavica angoscia di morte.
Viola, dalla folta chioma rosso tiziano che incornicia due brillanti occhi color turchese, è la coordinatrice di una struttura protetta che accoglie persone disabili. Vivace e intelligente, guida con allegria e determinazione il suo gruppo di ragazzi e ragazze, quasi nemmeno vedesse i loro limiti. È un vulcano di iniziative e, se gli ospiti faticano ad andare in giro, lei porta il mondo dentro alla struttura. Settimanalmente arrivano docili e placidi cani per la pet therapy, variopinti pappagalli parlanti per stimolare nuovi linguaggi, virtuosi musicisti per rendere il sonoro un discorso comprensibile a tutti e poi tanti stravaganti artisti di ogni genere capaci di sollecitare la creatività.
Con Viola ci conosciamo da più di venti anni ed è stata una mia attenta allieva.
La incontro in una gelida mattina di febbraio per chiederle il piacere di portare dell’acqua minerale gassata a un mio familiare che è alloggiato nella residenza per anziani che è annessa a quella dei disabili. L’entrata dei visitatori è stata proibita con uno sconfortante foglietto appeso al pesante cancello scorrevole. Proprio davanti a questo limite invalicabile avviene lo scambio. Scherziamo su come una “semplice influenza” abbia creato tanto allarme. Lei esce dalla soglia della struttura e ci abbracciamo e baciamo con il solito trasporto. Intanto arriva l’educatrice della Residenza Socio Sanitaria per gli anziani, è molto tesa, forse un po’ infastidita dal nostro “complotto” per l’acqua. Fredda e distaccata, commenta il trambusto che già dilaga in struttura. Si teme che questa specie di influenza sia qualcosa di più grave. C’è stato un primo morto sospetto. Rientrato dall’ospedale civile, dove era stato condotto per una visita di routine, Piero è deceduto. L’aria non riusciva più ad entrare nei suoi polmoni. Il clima però è di fiduciosa speranza che fra qualche giorno tutto sia chiarito e si possa aprire il possente portone d’entrata riattivando le visite ad anziani e disabili. Sono pronte le feste per la fine del Carnevale e gli ospiti non vorrebbero proprio perderle.
Ci lasciamo con un arrivederci, senza dubbi.
In realtà non ci vedremo mai più.
Il virus porta là dentro una gelida folata di morte che, come in un domino, uccide, uno dopo l’altro, gli anziani ospiti.
Per me non ci sarà più motivo di ritornare.
Con Viola ci vediamo per una cena nella terrazza della mia casa al mare durante l’estate. Assieme a noi siedono a tavola Fabrizia, una simpatica educatrice della residenza per disabili, e Mariangela, una mia cara amica che fa l’assistente sociale. Commentiamo a lungo la paura, il panico, l’angoscia che ha invaso la vita di tutti gli operatori delle due strutture.
Viola racconta dei pianti inconsolabili di infermiere ed operatori sanitari della residenza per anziani, di fughe angosciate di psicologi e di sanitari, delle dimissioni di coordinatrici impaurite e della paralisi di dirigenti frastornati. Fabrizia mi fa partecipe di come abbia mantenuto le attività con i suoi ragazzi attraverso internet e come labrador, golden retriver, parrocchetti, cenerini, sassofonisti, pianisti, pittori e scultori abbiano potuto continuare ad entrare in struttura attraverso i collegamenti digitali.
“Per non avvilirsi troppo” dice sospirando la giovanissima educatrice. “Per non isolarsi completamente, per continuare a sentirsi parte del mondo” sostiene l’infaticabile Viola.
Il fuori era impraticabile, il dentro diventò – grazie ad internet – spazio dove espandersi, ricercare, sperimentare.
La creatività vinse sulla paura.
Mantenere la finalità del proprio lavoro fece sì che sia i singoli utenti sia i gruppi di cui il professionista della relazione si occupa diventassero interlocutori importanti e maggiormente consapevoli della necessità di collaborare. Per la prima volta fu chiara la differenza tra chi era sopraffatto da pulsioni distruttive e chi, invece, era capace di una vitale gratitudine verso chi gli si affidava, chiedeva aiuto, aveva bisogno di una presenza significativa.
Per mantenere questo contatto dinamico ogni rigidità professionale ebbe però bisogno di una rivisitazione.
Più fummo in grado di vivere momenti di trasformazione dell’identità professionale più traemmo piacere dal continuare a stare insieme perché solo rimanendo uniti potevamo affrontare la nuova situazione. Ci stringemmo gli uni agli altri per immaginare un mondo inedito. Eravamo consapevoli che avremmo tracciato le vie di un diverso modo di essere a contatto con l’altro non solo perché stavamo cercando nuove strade per comunicare, ma soprattutto perché la sperimentazione di nuovi modelli relazionali avrebbe visto la trasformazione di alcuni paradigmi professionali che prima parevano intoccabili.
Il trauma aveva sottratto ogni presunta sicurezza e quindi era necessario imparare a transitare dentro all’incertezza.
Questa fluidità, che in quei lunghi mesi a momenti si solidificò e in altri momenti si liquefece, è tuttora necessaria perché ci troviamo ancora dentro al crollo del mondo che conoscevamo e perciò non possiamo avere un’idea definitiva su come ricostruirci. O forse mai più potremo sentirci stabili, fermi, compatti, definiti una volta per tutte. Siamo entrati nell’era della incertezza identitaria.
Quando l’emergenza sanitaria finirà ci aspetta un lunghissimo travaglio emotivo e operativo poiché dovremo capire come riorganizzarci a partire dalla nuova consapevolezza che la vita è continuamente a rischio. Nulla è certo. Niente è per sempre.
La perdita di presunzione, di arroganza, di rigidità, di supponenza potrebbero quindi diffondersi prima di tutto tra le professioni relazionali.
È però fin da ora possibile riflettere su ciò che accadde e sta accadendo, magari provando a pensare cosa potremmo cambiare se trarremo un insegnamento da questa terribile esperienza di dolore, malattia e morte.
Sappiamo dalla storia che le grandi pandemie hanno rivoluzionato modi di vivere e sfondi culturali. Speriamo di saper elaborare il trauma, il dolore, lo scoramento migliorando la convivenza tra gli uomini con l’obiettivo di creare una nuova civiltà capace di un profondo senso civico. Lo sentiamo come opportunità e responsabilità. Soprattutto perché, in quanto professionisti della relazione, già percepivamo che eravamo ormai al punto di rottura della capacità di salvaguardare ambienti umani, costruiti e naturali, che sapessero rispettarsi. Prima della pandemia, infatti, avevamo osservato e spesso combattuto un mondo ammalato che stava perdendo il senso del limite, il valore dei legami e la capacità di fermarsi a pensare. Tutto stava diventando consumo, spreco, accaparramento. Ogni azione era compiuta dentro ad un vortice caratterizzato da una vita quotidiana senza pause.
Quel giorno di fine inverno però apparve la polmonite interstiziale bilaterale a segnalare che dovevamo fermaci perché la vita umana era minacciata di morte.
SARS-CoV2 ci ha costretti ad interrogarci sul nostro modo di sfruttare l’ambiente e le risorse, le relazioni e gli affetti. Fu inizialmente uno stop collettivo. Cambiare pagina o aspettare fu l’interrogativo che attraversò ogni operatore relazionale e che vide le persone maggiormente flessibili immettersi, con determinazione, in un percorso di grandi cambiamenti nei modelli di comunicazione.
Se immaginiamo la mente dell’umanità come il frutto di interazioni di un vasto gruppo attraversato dagli assunti di base bioniani2 possiamo osservare i processi di resistenza al cambiamento e proporre una lettura di come si mosse in quei giorni l’inconscio individuale e collettivo.
Intercettare i depistaggi psichici, rimuovere gli ostacoli intellettivi ed emotivi, promuovere nuove narrazioni sul senso dell’esistenza sono dunque nostri compiti.
Leggemmo rimozioni, resistenze, ossessioni, fobie, isterie, spostamenti e scissioni. La comprensione dell’impatto che il virus stava avendo sulla vita psichica gruppale ed individuale fu ad appannaggio di chi, praticando una professione relazionale, aveva gli strumenti per cercare di interpretare quanto accadeva nella comunità e nei singoli soggetti che la costituiscono.
L’inconscio collettivo, deposito delle esperienze dell’umanità, messo sotto pressione dalla pandemia, avrebbe parlato nelle famiglie, nei contesti di lavoro, nella aule, nelle città, negli ospedali, nei presidi sanitari portando a galla lo specifico modo di affrontare in ogni ambito la caducità della vita.
Attraversati dalla morte come avrebbero reagito i gruppi umani alla castrazione della loro presunta onnipotenza?
L’inconscio individuale, deposito della storia emotiva di ogni persona, avrebbe palesato la struttura psichica con le sue risorse e fragilità?
Minacciato dalla morte come ognuno avrebbe potuto far fronte a questa angoscia primitiva?
Il professionista della relazione, per non lasciare spazio all’ansia che paralizza i pensieri, doveva darle urgentemente una forma narrativa. Ed essa per svilupparsi aveva bisogno della comunicazione via internet. Velocemente perciò si riformularono le modalità quotidiane di colloquio e di riunione. Si sviluppò intanto, quasi automaticamente, una sorta di discernimento digitale, l’arte cioè di scegliere fra un uso delle tecnologie che potenzia e arricchisce e un utilizzo che distrugge e inabissa verso il lato oscuro della dipendenza.
I professionisti della relazione, riunendosi anche tra di loro grazie a internet, provarono, attraverso un serrato confronto di esperienze, a comprendere come essi stessi e la gente qualsiasi andava difendendosi dall’angoscia sia nei confronti di Covid-19 sia nei confronti dello strumento tecnologico che inizialmente rappresentava materialmente e concretamente il limite imposto dalla malattia.
Gli operatori si confrontarono dunque ripetutamente per dare parola all’indicibile cercando di capire come mutasse l’uomo nell’era della migrazione di massa nella...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione di Rosangela Paparella
  5. PARTE PRIMA – Era il 2020
  6. FLASHBACK
  7. PARTE SECONDA – L’esperienza condivisa
  8. Nota dell’editore
  9. Bibliografia