La libertà di espressione nelle Università tra USA ed Europa
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La libertà di espressione nelle Università tra USA ed Europa

Una prospettiva pedagogica

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La libertà di espressione nelle Università tra USA ed Europa

Una prospettiva pedagogica

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Nel 1964 un giovane studente americano, Mario Savio, diventa uno dei leader del Free Speech Movement all’Università di Berkeley in California. Chiede per sé e per i propri colleghi studenti universitari il diritto alla libertà di espressione e di parola, aprendo la strada per altre battaglie in favore dei diritti civili.
Poco più di 50 anni dopo, un’altra generazione di giovani studenti universitari americani chiedono invece qualcosa all’apparenza di opposto, con un nuovo lessico per definire queste richieste: safe spaces e comfort zones dove sentirsi al sicuro da discorsi troppo urtanti, speech codes per regolamentare lezioni e dibattiti in università e trigger warning per essere avvisati da parte dei docenti qualora intendano affrontare argomenti controversi o che in qualche misura potrebbero generare in loro una situazione emotivamente complessa. Una tendenza che si sta espandendo velocemente anche in Europa.
Ma che cosa accade all’università se, proprio in questo luogo preposto alla formazione dei giovani e alla ricerca, vengono limitati gli spazi di libertà per le idee e il dialogo? Quali sono i rischi di escludere dal dibattito accademico le questioni più controverse? Perché è importante, invece, dal punto di vista pedagogico, difendere e rilanciare la libertà di espressione non solo nelle università, ma in ogni sede dove è possibile?

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788838251900

1. Da Mario Savio ai trigger warnings: che cosa è accaduto?

Sono passati ormai più di 50 anni dalle parole e dalle vicende di Mario Savio e del Free Speech Movement e qualcos’altro sta accadendo a partire nei colleges e nelle università americane [1] . Proprio nell’epoca in cui le università svolgono un ruolo fondamentale nella formazione di persone con conoscenze e competenze adeguate ad affrontare le sfide complesse e mutevoli del nostro mondo contemporaneo, ecco che quasi inaspettatamente, nell’era della rivoluzione digitale e dell’ open access, emergono da più parti richieste ed episodi volti a limitare la libertà di parola nelle università.
Di volta in volta, infatti, nel corso degli ultimi anni si sono registrati numerosi episodi di limitazione della libertà di manifestazione del pensiero nei campus americani: è accaduto, infatti, che venissero censurate e/o vietate rappresentazioni di tragedie (Shakespeare), così come la lettura di classici della letteratura mondiale ( Le Metamorfosi di Ovidio o la Divina Commedia di Dante) per via di alcuni contenuti ritenuti violenti, controversi o troppo “sensibili” per gli studenti [2] .
Inoltre, in altre occasioni, gruppi di studenti o docenti hanno contestato la possibilità di intervenire ad alcuni relatori invitati per seminari, lezioni o discorsi pubblici a causa delle idee o convinzioni rappresentate dagli oratori, fino in molti casi ad impedire del tutto che questi ultimi potessero svolgere i propri interventi, negando loro una “piattaforma” dalla quale poter esprimere le proprie idee (c.d. no-platforming).
Su questa scia, numerose università statunitensi (ma ormai anche inglesi ed europee) hanno quindi introdotto regolamenti, codici di condotta e speech codes che impegnano i docenti ad avvisare preventivamente (tramite i c.d. trigger warnings) i propri studenti nel caso in cui stiano per affrontare argomenti controversi o che potrebbero generare una situazione emotivamente complessa, che possa poi configurarsi – o anche solo essere percepita – come una micro-violenza o aggressione verbale (c.d. “ microaggression”).
Gli studenti universitari secondo alcuni osservatori rischiano così di essere “coccolati” [3] – per usare una fortunata espressione di Greg Lukianoff, Presidente della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE) [4] – protetti all’interno di echo chambers (“camere dell’eco”), comode casse di risonanza o “bolle” dove si conversa con chi ha le stesse posizioni e nelle quali ognuno desidera solo essere ri-confermato in quello che già pensa [5] o trascorrendo l’esistenza universitaria tra comfort zones e safes spaces, luoghi dove non ci sarebbe il rischio di imbattersi in parole o espressioni che possano suscitare in loro sensazioni di disagio, urto o imbarazzo.
Per questi e altri motivi non è forse un caso che la generazione dei giovani di questo decennio (2010-2020) è stata definita da alcuni come la “ snowflake generation”, una delle parole dell’anno 2016 per il Collins English Dictionary e che letteralmente significa “generazione fiocco di neve”, una traduzione in italiano che evidentemente non rende bene l’idea di fondo (il significato si avvicina a quello di una sorta di “anima candida”); in ogni caso il significato complessivo del termine andrebbe ad indicare una persona eccessivamente sensibile ed emotiva, vulnerabile, facilmente offendibile, incapace di confrontarsi con opinioni diverse dalle proprie e di gestire una eventuale discussione o contraddittorio al riguardo. Il Collins English Dictionary definisce questa generazione di giovani come meno resilienti e più inclini ad offendersi rispetto alle generazioni precedenti proprio come un fiocco di neve: ciascuno unico e diverso l’uno dall’altro, ma tutti estremamente fragili.
Per altri, invece, simili classificazioni sarebbero utili solo a favorire una facile quanto falsa «dicotomia tra l’ipersensibilità di una generazione più giovane e la libertà di parola come un bene assoluto che porta alla verità» [6] .
In ogni caso le nuove generazioni appaiono molto differenti da quello che accadeva fino a qualche decennio fa, quando i bambini americani crescevano al suono di una filastrocca che insegnava loro a non prendere quello che dicevano gli altri troppo sul serio e che recita così: « sticks and stones will break my bones, but words [or names] will never hurt me» [7] . Un modo come tanti altri per ispirare nei giovani pargoli un senso di resilienza e per superare fin dall’adolescenza insulti e dileggi verbali. Ma ormai, lo sappiamo, siamo nell’era della suscettibilità [8] e ogni mezza parola può rappresentare offesa, insulto, vilipendio. Appare lontanissimo in un remoto passato il motto latino della Royal Society [9] , la più antica istituzione scientifica al mondo fondata a Londra nel 1660 dal re Carlo II, che recita “ Nullius in verba”, una frase latina traducibile con un «non dar fiducia alle parole di nessuno» presa dal primo libro delle Epistole di Orazio [10] e che voleva rappresentare l’autonomia e indipendenza da ogni affermazione derivante da qualche potere e non dalla ricerca scientifica. Evidentemente altri tempi.
Già qualche decennio fa lo storico e sociologo americano Cristopher Lasch aveva individuato nel narcisismo uno dei tratti tipici della nostra epoca [11] : «malgrado le occasionali illusioni di onnipotenza, il narcisista tende da altri la conferma della sua autostima. Non può vivere senza un pubblico di ammiratori» [12] .
Non occorre tirare in ballo i social network e il mondo degli influencer contemporanei per accorgerci che, in realtà, questo tipo di inclinazione non è affatto estranea all’esperienza umana. Basti pensare che già Adam Smith nel suo testo La teoria dei sentimenti morali del 1759 ha ben evidenziato come nell’Inghilterra del XVIII secolo sia il ricco sia il povero cercavano la ricchezza non tanto e non solo per accrescere i propri beni materiali o per soddisfare le necessità di base, ma in misura non indifferente anche per «essere osservato, ricevere attenzioni, essere considerato con simpatia, compiacimento e approvazione [...]. È la vanità che ci interessa, non il benessere o il piacere. Ma la vanità è sempre fondata sul credere di essere oggetto di attenzione e approvazione». Così prosegue il filosofo ed economista scozzese:

L’uomo ricco si vanta delle proprie ricchezze, perché sente che naturalmente attirano su di lui l’attenzione del mondo, e che gli uomini sono disposti ad accompagnarlo in tutte quelle piacevoli emozioni che la sua situazione gli procura tanto facilmente. [...] L’uomo povero, al contrario, si vergogna della sua povertà. Sente che essa lo pone fuori dalla vista degli altri, o che se gli altri lo prendono minimamente in considerazione, difficilmente hanno un qualche sentimento di partecipazione per la miseria e angoscia che gli patisce [13] .

Analogamente, ma in maniera ancor più radicale, la figura del nuovo narcisista contemporaneo proposta da Lasch esige una gratificazione immediata e vive perciò «in uno stato di inquietudine e di insoddisfazione perenne», in un mondo dell’eterno presente che rispecchia in molti casi la miseria della propria vita interiore. Ogni decisione, anche la più impegnativa sul piano esistenziale, appare ormai come reversibile e sempre rovesciabile, lasciando inappagate esigenze fondamentali del vivere. Allo stesso tempo l’uomo contemporaneo sembra continuamente

perseguitato dall’ansia e non dalla colpa. Non cerca di imporre agli altri le proprie certezze, ma vuole trovare un senso alla sua vita. Libero dalle superstizioni del passato, mette in dubbio persino la realtà della sua stessa esistenza. Superficialmente rilassato e tollerante, non condivide più i principi di integrità razziale o etnica, ma perdendo in questo modo la sicurezza che gli derivava dalla solidarietà di gruppo, vede in ciascuno un rivale con cui competere [14] .

La promozione a tutti i costi della propria autostima, anziché attivare e realizzare il potenziale umano di ciascuno, rischia di svolgere un effetto paralizzante, intrappolando le persone in una sorta di “dipendenza emotiva” [15] . È in questa traiettoria che si consuma anche il passaggio dalle lotte per la giustizia sociale degli anni ’60 ad una società “terapeutica” dove in primo piano sarebbe sempre più la dimensione psicologica della persona [16] .
Rispetto alla generazione di Mario Savio, sembra di essere giunti davvero alla “fine della storia” [17] , dove all’inquietudine esistenziale per la propria vita si accompagna un’incertezza dilagante in ogni ambito e dimensione dell’esistenza umana, dagli affetti alla famiglia fino alla sfera politica e sociale.
Ma la storia ci ha insegnato che essa vive di «eventi inattesi, di scarti e di mosse del cavallo originali, nuove, creative» [18] e che ogni “fine del mondo”, dal punto di vista storico, non è mai tale ma solo la fine di un mondo. Che apre alla nascita di uno nuovo, diverso e magari imprevedibile rispetto a quello che è possibile immaginarsi. È d’altronde la vicenda del bruco e della farfalla: ciò che per il primo è la fine della parabola esistenziale, per la seconda non è che l’inizio della vita.
Occorre dunque domandarsi: esiste ancora qualcosa per cui valga la pena vivere e impegnarsi per i giovani (e non solo) ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE NELLE UNIVERSITÀ TRA USA ED EUROPA
  3. Indice dei contenuti
  4. PROLOGO
  5. Gli anni ’60, l’università e la libertà di espressione
  6. PARTE PRIMA
  7. PROFILI RICOSTRUTTIVI E PROVOCAZIONI PEDAGOGICHE
  8. 1. Da Mario Savio ai trigger warnings: che cosa è accaduto?
  9. 2. Cenni storici sul sistema di higher education negli Stati Uniti
  10. 3. Microaggressions, trigger warnings, speech codes, no-platforming: una panoramica
  11. 4. Intermezzo. Alcune celebri epurazioni dalle università di ieri e di oggi
  12. 5. Il valore pedagogico della libertà di espressione in università
  13. SECONDA PARTE
  14. DEMOCRAZIA, LIBERTÀ DI PAROLA E “POLITICAMENTE CORRETTO”
  15. 1. La libertà “nutrimento indispensabile all’anima umana”
  16. 2. John Stuart Mill e il principio di libertà di espressione
  17. 3. Il politicamente corretto: origine e attualità di un concetto
  18. 4. Libertà e uguaglianza: inevitabile dissidio?
  19. BIBLIOGRAFIA
  20. INDICE DEI NOMI
  21. CULTURA STUDIUM