Guerre napoleoniche
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Oltre a girare la pagina della Storia e a trasformare gli apparati della sua nazione, influendo su quelli degli altri Stati europei, Napoleone ebbe uno straordinario genio militare. Alla testa degli eserciti si guadagnò la fiducia e l'ammirazione dei francesi e di molti avversari. Artefice di grandi innovazioni come la creazione del corpo d'armata, introdusse nuove tecnologie e ridusse le discriminazioni sociali nel percorso delle carriere militari. Ritornò alla guerra di attacco e di occupazione con esaltanti successi che lo portarono in breve nel cuore d'Europa, fino a quella che fu definita la battaglia perfetta: Austerlitz, in Moravia. Ma, dopo aver ridisegnato i confini di mezzo mondo occidentale, il destino e le nazioni europee gli volsero le spalle. Dalle disastrose campagne di Spagna e di Russia giunse alle drammatiche sconfitte di Lipsia e, infine, di Waterloo. Un percorso unico e inspiegabile di cui François René de Chateaubriand avrebbe detto: «le comete descrivono curve che sfuggono al calcolo, […] le loro leggi sono note a Dio soltanto».

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2022
ISBN
9791255010111
Argomento
Storia
FOCUS

IL PROLOGO

TRA NUOVE GUERRE E ANTICO REGIME
Le Guerre napoleoniche, vale a dire, in questo caso, le guerre che Napoleone Bonaparte gestì in prima persona quale comandante di un’armata oppure mentre occupava il vertice politico-militare di una Francia dapprima repubblicana e poi imperiale nelle vesti, rispettivamente, di primo console e di imperatore, abbracciano i vent’anni compresi tra la prima campagna d’Italia (la prima battaglia fu quella vinta contro gli austriaci a Montenotte il 12 aprile 1796) e la sconfitta, che chiuse definitivamente il ciclo, di Waterloo (18 giugno 1815).
A sua volta la prima fase delle Guerre napoleoniche (1796-1802) s’inserisce nella sequenza, iniziata nel 1792, delle guerre della Rivoluzione francese. Prima che gli fosse conferito il comando dell’Armée d’Italie, il giovane Bonaparte prese parte, in una posizione più o meno subordinata, ad alcuni significativi episodi di questo ciclo bellico.
Tra questi meritano di essere ricordati: il fallimentare tentativo d’invasione della Sardegna del febbraio 1793 (all’epoca Bonaparte era in Corsica, dove comandava un battaglione delle Guardie nazionali di Ajaccio); l’assedio di Tolone del settembre-dicembre 1793, quando contribuì in modo significativo, grazie ad un più funzionale dislocamento delle artiglierie repubblicane, alla riconquista della città portuale, che si era ribellata a Parigi e che era presidiata dagli inglesi; la sua redazione nel maggio del 1794, quando era ispettore alle artiglierie nell’Armata d’Italia – un incarico che gestì lontano dal fronte –, di un lungimirante Piano preparatorio alla campagna del Piemonte ispirato ai principi tattico-strategici che avrebbe messo in atto due anni più tardi; e, soprattutto, la giornata parigina del 5 ottobre 1795 quando, in qualità di comandante in seconda dell’Armata dell’Interno, represse in maniera brutalmente efficace un tentativo insurrezionale dei monarchici. Un successo sul fronte della guerra civile che fu ricompensato dal Direttorio (in particolare dal suo presidente e membro più autorevole, Paul Barras) con il comando dell’Armée d’Italie.
Ma le guerre della Francia repubblicana (alle quali possiamo aggiungere anche quelle dell’Impero nella misura in cui ne ripresero parecchie caratteristiche) possono trovare posto, sia pure con le opportune precisazioni, in una fase storica più ampia sia cronologicamente sia geograficamente. Vale a dire in quella rivoluzione americano-europea del tardo Settecento, che gli storici Jacques Godechot e Robert R. Palmer ribattezzarono più di mezzo secolo fa «occidentale atlantica», una rivoluzione destinata ad incidere in misura quanto mai significativa, dove e quando si affermò, sui rapporti tra la società e la guerra e quindi sulla gestione di quest’ultima.
Napoleone capo dello Stato francese intrattenne, si sa, un rapporto piuttosto complicato con le scelte del decennio rivoluzionario, che aveva preceduto la sua conquista del potere, ma va tenuto presente che, quanto alle scelte militari di fondo, ne fu, come vedremo più avanti, un convinto e consapevole erede.
Senza dubbio va riconosciuto che il lascito militare della Rivoluzione e, ancora prima, quello dell’illuminismo, che non soltanto in questo ambito ne aveva anticipato alcuni tratti, erano assai lontani dall’essere univoci.
Sul telaio, se si vuole, «occidentale atlantico» della guerra di popolo, della guerra dei cittadini-soldati, che combattevano per la libertà e per la patria e si contrapponevano ad eserciti permanenti che facevano capo a sovrani assoluti ed erano formati da mercenari, da uomini che – come scriveva Voltaire – combattevano «senza neppur sapere di che si tratta», erano stati tessuti, in effetti, scenari assai diversi.
Si ricorda, per inciso, che ancora nel 1808 in un Veneto annesso al Regno d’Italia napoleonico una gazzetta di Padova, Il telegrafo del Brenta, avrebbe fatto propaganda alla leva, continuando ad impiegare una terminologia fondamentalmente rivoluzionaria: «la maggior prova di attaccamento che dar possa un popolo alla sua patria e al suo sovrano, si è quella di presentarsi volontario e pronto per vestire l’onorata uniforme militare», dal momento che «senza milizia non vi è nazione, non vi è libertà, non vi è indipendenza».1
Sullo sfondo era rimasta quella prospettiva pacifista (nel corso del Settecento era stata promossa, tra gli altri, da filosofi e pensatori come l’abate di Saint-Pierre, Charles-Irénée Castel, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant), che considerava la guerra un fenomeno da mettere in conto soprattutto all’ambizione dei principi e, più in generale, alle dinamiche interne ad un antico regime dominato da élite aristocratiche, le quali vivevano, in linea di principio, per la guerra e della guerra.
Era idea o, meglio, speranza diffusa che, una volta eliminati i tiranni che li opprimevano, i popoli avrebbero fraternizzato e che, di conseguenza, sarebbe stato possibile costituire una confederazione tra gli Stati, la quale avrebbe dovuto/potuto impedire per sempre le guerre.
In questa direzione era avanzata, in una certa misura, anche la Rivoluzione francese nel corso della sua stagione monarchico-costituzionale. In un decreto relativo al diritto di fare la pace e la guerra, che era stato approvato il 22 maggio 1790, l’assemblea nazionale costituente aveva formalmente rinunciato a intraprendere guerre di conquista e ad intervenire a danno della libertà degli altri popoli.
Tuttavia l’idea, che era stata al centro della Rivoluzione americana e delle riflessioni di alcuni illuministi e che per un certo verso costituiva non tanto una negazione quanto un corollario della visione pacifista, l’idea, cioè, che la guerra fosse legittima unicamente qualora fosse combattuta dai cittadini in difesa di una libertà minacciata dai nemici interni ed esterni, doveva di fatto autorizzare sviluppi bellici. Questi potevano, come avvenne nel caso della Francia repubblicana, essere convertiti, facendo leva sull’ideologia rivoluzionaria, proprio in quelle guerre di conquista, che erano state in precedenza stigmatizzate.
L’approdo militarista era stato invece evitato dagli Stati Uniti, quanto meno nel breve-medio periodo, grazie alla convergenza di una serie di fattori, dalla pace del 1783, che aveva sterilizzato la minaccia inglese, alla peculiare situazione geografica: fattori che avevano congiurato, all’indomani della Guerra d’Indipendenza, a favore del ripristino di un assetto difensivo già collaudato in età coloniale e che era basato sulle milizie dei singoli Stati, mentre all’esercito federale era stato concesso uno spazio alquanto limitato.
È vero che anche al di là dell’oceano era stato chiamato alla testa della nuova repubblica, come avverrà dieci anni più tardi in Francia, il generale che si era maggiormente distinto in tempo di guerra, ma l’elezione di George Washington era avvenuta in un quadro politico che guardava con molto sospetto alla presenza di forze armate permanenti.
Quando, nel 1783, era stata costituita la Società dei Cincinnati (dal romano Lucio Quinzio Cincinnato, del VI-V sec., che alla fine della guerra tornò a coltivare i suoi campi), che riuniva, sotto la presidenza di Washington, gli ex ufficiali che avevano prestato servizio durante la Guerra d’Indipendenza e i più anziani dei loro discendenti maschi, nonostante che la sua denominazione fosse affatto in linea con il paradigma del cittadino-soldato, la si accusò di essere il vivaio di una nobiltà militare ereditaria, quindi la negazione dell’uguaglianza repubblicana.
Gli Stati Uniti non erano inclini a riconoscere particolari distinzioni né agli aristocratici, né ai militari, due corpi che invece l’antico regime tendeva ad embricare e che non a caso Napoleone imperatore chiamerà a nuova vita, tentando di trasformarli nell’architrave del suo Stato.
IL GIOVANE BONAPARTE DAL PATRIOTTISMO CORSO ALLA SCELTA “GIACOBINA”
Il giovane Bonaparte si era a lungo riconosciuto in quella che potremmo chiamare una versione dello scenario americano anche se in un contesto quanto mai contraddittorio, dal momento che apparteneva alla piccola nobiltà della Corsica ed era stato avviato, grazie alla consueta rete di protezioni e di clientele imperniata sulla famiglia, alla carriera delle armi nell’esercito francese.
Negli anni in cui frequentava la scuola militare d’artiglieria e anche dopo aver ottenuto il brevetto di ufficiale, Bonaparte doveva coltivare un patriottismo corso a tutto tondo declinato nella scia del generale Pasquale Paoli e della sua eroica resistenza contro i genovesi e, in particolare, gli stessi francesi (1768-69).
In altre parole, quando la rivoluzione «occidentale atlantica» prese piede in Francia, Bonaparte era a favore della lotta d’indipendenza della Corsica e auspicava una “piccola” rivoluzione all’interno – di fatto contro – la “grande” Rivoluzione scoppiata nell’esagono [simbolo della Francia per la sua sagoma geografica – ndr].
Ma questa opzione politico-militare di Napoleone svanì nell’arco di un paio di anni di fronte, soprattutto, alle scelte dello stesso Paoli e dei suoi partigiani nell’isola, che finirono per fare della Corsica uno degli avamposti di quel secessionismo di matrice localistica in molti casi nutrito anche da succhi controrivoluzionari, che in particolar modo nel 1793 investì gran parte della Francia, dalla Vandea al Midi.
Bonaparte abbracciò in quell’anno la posizione assunta da Maximilien Robespierre e dai giacobini, la difesa ad oltranza della Repubblica una e indivisibile dai controrivoluzionari dell’interno e dalla grande coalizione europea, che era nata, in parte, in risposta alla politica aggressiva di un’assemblea legislativa allora controllata dai girondini. Nell’aprile del 1792 era stata la Francia che aveva dichiarato guerra all’Impero; in novembre era stato promesso l’aiuto della Repubblica a tutti i popoli che volevano rivendicare la loro libertà, il che significava, come avrebbe esplicitato il principale ispiratore di queste scelte, il leader dei girondini Jacques Pierre Brissot de Warville, che la neonata Repubblica si poneva quale obiettivo di appiccare l’incendio rivoluzionario a tutta l’Europa.
LE GUERRE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
Di fatto gli sviluppi della guerra rivoluzionaria erano stati a zig zag: la Francia era stata invasa sia nell’estate del 1792 sia nelle primavere-estati del 1793 e del 1794. Aveva quindi conosciuto delle fasi più o meno critiche, nelle quali la patria era stata proclamata in pericolo e la guerra aveva preso il carattere di una guerra d’indipendenza, recitando, se si vuole, un copione all’americana.
Ma negli autunni del 1792 e del 1793 e nell’estate del 1794 gli eserciti francesi avevano ribaltato la situazione precedente. In particolare, negli ultimi mesi del 1792 non soltanto avevano respinto gli invasori, ma avevano anche occupato il Belgio, la Renania e i domini sabaudi transalpini, Nizza e Savoia, raggiungendo in questo modo quelli che venivano considerati i confini naturali della Francia.
La salvaguardia di tali confini divenne, dopo che la gestione della guerra fu affidata principalmente a Lazare Carnot, ufficiale del genio diventato membro del Comitato di salute pubblica, l’obiettivo primario delle campagne militari della Repubblica.
Il progetto girondino dell’Europa in fiamme passò in secondo piano, anche se la Francia non rinunciò affatto ai vantaggi, provenienti dalla collaborazione degli stranieri, che simpatizzavano per il regime nato dalla Rivoluzione, e quindi dalla circostanza di poter contare su una quinta colonna che minasse dall’interno la resistenza degli Stati che circondavano l’esagono.
Quando i successi militari lo permisero – come avvenne nei Paesi Bassi nel gennaio del 1795 – fu presa la decisione di fondare una repubblica sorella (la Repubblica Batava) sotto la protezione della Grande Nation.
Questa e altre analoghe scelte istituzionali avvenute negli anni seguenti in Italia e in Svizzera non devono tuttavia oscurare il dato di fondo. Soprattutto dopo la fine del Terrore la Repubblica francese ritrovò un suo posto nel sistema politico europeo, mentre la guerra della prima coalizione perse, in parte, quel carattere fortemente ideologico, che l’aveva innescata, così come, sul fronte opposto, si ritornò a perseguire la «regolata politica di grandezza» della Francia. Politica auspicata vent’anni prima nell’Essai général de tactique dal teorico militare del Settecento maggiormente apprezzato da Bonaparte, il conte Jacques Antoine Hippolyte de Guibert, e che lo stesso Napoleone avrebbe rilanciato con la proclamazione dell’impero in un’inedita – e in effetti assai poco «regolata» – versione.
L’EREDITÀ E IL POTENZIAMENTO DELL’ESERCITO
Bonaparte «ereditò dai suoi predecessori un esercito già pronto e continuò a perfezionarlo e a potenziarlo, fino a che non ottenne la formazione perfetta – i corpi d’armata – con la quale attuare i suoi principi di guerra mobile, a largo raggio».2
Non si può che sottoscrivere questo giudizio dello storico britannico David Geoffrey Chandler, uno dei massimi studiosi delle Guerre napoleoniche: anzi appare opportuno estenderlo, al di là delle scelte in materia di organica, all’intero quadro militare.
La Rivoluzione innovò radicalmente il reclutamento tanto degli ufficiali quanto dei soldati. Anche se le prime battaglie furono combattute da eserciti composti principalmente da professionisti, questi ultimi furono ben presto integrati – e numericamente soverchiati – dalle Guardie nazionali e dagli altri cittadini-soldati mobilitati con le leve di massa del 1793 (sulla carta più di un milione di uomini).
L’amalgama dei battaglioni superstiti di regolari con quelli composti da cittadini-soldati all’interno delle mezze-brigate (così furono ribattezzati i reggimenti) fu, in linea generale, un successo.
Inoltre la permanenza dei cittadini-soldati nei ranghi degli eserciti lungo parecchi anni favorì la metamorfosi di eserciti rivoluzionari in truppe assai affidabili nella misura in cui avevano conservato motivazioni ideali tali da garantirne la combattività e nello stesso tempo avevano acquisito significative competenze belliche. Si ricorda che la coscrizione vera e propria su base quinquennale, salvo che in tempo di guerra, clausola che di fatto consentiva, in quegli anni di continui conflitti, di trasformare i soldati di leva in professionisti, fu introdotta soltanto nel 1799.
Le leve di massa garantirono anche ai francesi, in parecchi casi, un vantaggio quantitativo, che permise spesso di ovviare agli inconvenienti che derivavano dal ridotto addestramento dei quadri e della truppa.
Quanto agli ufficiali, la quota parte degli aristocratici diminuì, tra il 1789 e il 1793, da oltre il 90 al 3 per cento: il merito e il talento presero il posto della nascita quale criterio per l’attribuzione delle spalline e per le promozioni, anche se Carnot e poi lo stesso Bonaparte avrebbero sempre continuato ad avere un occhio di riguardo per la componente nobiliare rimasta al servizio della Repubblica.
Non è un caso che nel 1814 ben 166 dei 277 generali di Napoleone provenissero da famiglie nobili dell’antico regime, anche se spesso, a part...

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