Guerra Civile americana
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Guerra Civile americana

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Dopo quella per l'Indipendenza, un'altra guerra, violenta e fratricida, si scatenò nei giovani Stati Uniti d'America tra il 1861 e il 1865. Si intrecciò alle ragioni economiche e sociali e a quelle ideologiche di una nazione divisa secondo gli interessi di due grandi blocchi territoriali, la cui crescita aveva seguito strade diverse: l'imprenditorialità industriale basata su commercio e finanza nel Nord e l'attività agricola estensiva con il ricorso massiccio alla schiavitù nel Sud. Nello scontro confluirono temi come l'abolizionismo e i diritti civili delle classi più fragili, sebbene nessuno di essi rappresentò la reale motivazione del conflitto. Gli schieramenti non erano, però, così compatti come è stato tramandato dalla tradizione: molte furono le divisioni in seno agli stessi Stati e tra i cittadini, e a volte causa di vere e proprie secessioni interne. Tra i fattori che decisero la vittoria del Nord, inizialmente non prevista, grande peso ebbero la tecnologia, i trasporti e l'industria militare. Da questa guerra emerse il Paese, tutt'oggi polarizzato, che conosciamo.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2022
ISBN
9791255010173
Argomento
History
FOCUS

IL PROLOGO

«Fuori dalla porta, sotto un albero a una decina di metri dalla casa, scorgo un mucchio di gambe, braccia, mani, piedi amputati, ce n’è da riempire un carro. Vicino, parecchi cadaveri sotto coperte stracciate e nel cortile verso il fiume delle tombe fresche, soprattutto di ufficiali, con i nomi scritti su pezzi di assi infilati nel terreno».1
A scrivere, nel 1863, è il poeta Walt Whitman, autore della raccolta Foglie d’erba, uno dei grandi della letteratura americana, che per due anni passò da un ospedale all’altro, assistendo i feriti dell’esercito nordista, portando loro tabacco, cibo e quel che più chiedevano: giornali, matite, carta, francobolli per scrivere a casa. Cresciuti in una cultura protestante che ne aveva favorito l’alfabetizzazione, i soldati di entrambi gli schieramenti, nordista e sudista, hanno lasciato lettere e diari che ci trasmettono l’angoscia e l’orrore degli ospedali e della vita militare. I chirurghi che operavano per ore in mezzo a pozze di sangue con le braccia insanguinate fin sopra il gomito, i feriti più gravi «lasciati alla natura» col solo ausilio, quando possibile, di pillole d’oppio. L’atrocità di giorni e giorni di marce forzate su terreni senza strade con caldi asfissianti o sotto piogge continue, le giubbe fradice che si sfacevano perché di pessimo tessuto, spesso mancavano le scarpe, almeno tra i sudisti. La vita in accampamenti di fortuna o in trincea dove si viveva ammassati in condizioni ributtanti, tormentati da pulci e pidocchi, con epidemie di morbillo, scarlattina, orecchioni, per non parlare della polmonite, della dissenteria, delle gastroenteriti croniche provocate dal cibo, carne di maiale salata o anche solo biscotto durissimo da rompere col calcio del fucile. Per ogni soldato che moriva in battaglia due morivano di malattia.
Il dolore fisico e la morte erano eventi comuni per gli americani di metà Ottocento; ma alla morte ci si preparava, si sperava di morire in famiglia, assistiti da un pastore. Al contrario, essa giungeva in battaglia, con parvenze orribili, a uomini sradicati. In molti casi le tombe non avevano che un numero, dentro corpi fatti a pezzi dalle granate, sbranati dai canister, gli involucri contenenti decine di palle di ferro o di piombo sparati a mitraglia dai cannoni contro le linee della fanteria nemica.
Era normale, in tali situazioni, che i soldati andassero all’assalto ubriachi, che cercassero di rimanere indietro con la scusa di aiutare compagni feriti o che disertassero. Si è calcolato che le diserzioni siano state pari al 12% delle forze unioniste e al 16% di quelle confederate.
La Guerra Civile americana è stata da vari storici definita, da sola o con la Guerra di Crimea, prima guerra industriale per le enormi quantità di materiali necessari e la difficoltà di trasportarli fin oltre 2000 chilometri di distanza; per l’intenso uso delle ferrovie, del telegrafo, dei battelli a vapore e per la sperimentazione di armi nuove. Alcuni l’hanno anche definita la prima guerra totale per la distruzione spesso voluta di città, fattorie, raccolti. Molto dipende da quel che si intende per “guerra industriale” o “guerra totale”. Quel che è certo è che si trattò di una guerra di massa.
Nella guerra contro il Messico del 1846-1848, gli Stati Uniti mobilitarono 115.000 uomini inviandoli dal Mississippi fino a Città del Messico, un exploit di non poco conto; ma nella Guerra Civile la sola Confederazione mise in campo fra un milione e 1.200.000 uomini, quasi il 90% della popolazione maschile fra 17 e 50 anni, e l’Unione oltre 2.200.000, circa la metà degli arruolabili. La popolazione totale degli Stati Uniti al censimento del 1860 era di 31 milioni di abitanti. Le cifre, tutt’altro che precise e diverse a seconda delle fonti, sono più che sufficienti a mostrare lo sforzo compiuto dalle due parti. Ancor meno sicuri i dati delle perdite, tradizionalmente fissate in 620.000 morti; numero elevato da alcuni recenti studi, con qualche esagerazione, ad almeno 700.000 a cui si debbono aggiungere 50.000 civili. Per un confronto, basti ricordare che nella Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti ebbero 407.000 morti. Dati sufficientemente affidabili danno 390.000 morti per l’Unione, il Nord, – di cui 110.000 in battaglia, 220.000 per malattia e 30.000 in prigionia, oltre a 275.000 feriti nei combattimenti – e 290.000 per la Confederazione – 95.000 caduti in battaglia, 165.000 per malattia e 31.000 in prigionia, oltre a 200.000 feriti. Vista la rispettiva popolazione – 22.000.000 contro 9.100.000 di cui 3.500.000 schiavi – il 25% dei sudisti bianchi maschi in età di servizio militare morì in guerra.
NASCITA DI UNA NAZIONE DIVISA
La genesi degli Stati Uniti come paese unitario si mostra frastagliata e contraddittoria anche se la storiografia americana ha cercato di offrirne un’immagine di compatto, lineare progresso ormai smentita dagli studiosi. Le colonie inglesi nordamericane del Sei-Settecento, distribuite su duemila chilometri di costa atlantica, differivano molto l’una dall’altra in quanto assai diverse erano le loro condizioni geoclimatiche e poiché ognuna godeva di ampia autonomia interna. Infatti, il governo centrale dell’Impero britannico interveniva solo nella gestione commerciale e militare e, dal momento che costituiva anche il maggior sistema economico dell’epoca e pretendeva efficienza dalle colonie, queste ultime svilupparono avanzati sistemi produttivi. Le colonie meridionali divennero l’estrema propaggine del sistema agricolo di piantagioni a schiavi che, dalla produzione di caffè del Brasile, passando per quella dello zucchero dei Caraibi, giungeva fino alle coltivazioni di tabacco della Virginia. A nord di quest’ultima, invece, le colonie vivevano di un’agricoltura cerealicola a base famigliare, di pesca atlantica, di cantieristica e commercio marittimo.
Al momento dell’indipendenza, gli Stati Uniti erano moderni sul piano economico; ma avevano il problema politico della coesistenza in un unico Paese di tredici ex colonie dissimili e abituate a grande autonomia.
Si risolse di coniugare valori e istituzioni delineati dal pensiero politico europeo, quali i diritti naturali degli individui e la separazione dei poteri, con la soluzione innovativa di un federalismo che limitava i poteri del governo centrale nei confronti degli Stati.
La Costituzione del 1787 fu anche una “costituzione possibile”, frutto di molti compromessi. Fra questi fu la norma che riconosceva implicitamente la schiavitù, pur non costituzionalizzandola, consentendo agli Stati di sommare al numero delle persone libere i tre quinti di «tutte le altre persone», vale a dire gli schiavi, nel computo per fissare le rispettive quote di deputati da cui essere rappresentati al Congresso. Norma che favoriva numericamente gli Stati meridionali e che questi pretesero in modo assoluto. Non fu, invece, preso in considerazione, forse perché non percepito, il problema delle eventuali dispute fra governo federale e Stati su questioni che il primo o i secondi ritenessero essenziali. Una mancanza che si dimostrò esiziale.
Per tutta la prima metà dell’Ottocento la storia statunitense visse di un continuo, delicato bilanciamento fra spinte centrifughe provocate dagli interessi dei singoli Stati e spinte centripete legate ai bisogni dello Stato federale e alla costruzione della nazione.
Le spinte unitarie prevalsero fino alla fine degli anni Quaranta per l’affermarsi di un nazionalismo esasperato, nutrito dalla certezza degli americani di essere il solo popolo libero al mondo, peculiare e unico. Contemporaneamente una serie di profonde trasformazioni accrebbero l’integrazione fra gli Stati. Tali il revivalismo religioso, che esplose ovunque ed esaltò il ruolo autonomo del singolo nel perseguire la salvezza, e il suffragio universale maschile bianco, conquistato negli anni Trenta, che creò un sistema bipartitico nazionale, oltre alle cosiddette “rivoluzioni” economiche, come quella dei trasporti e delle comunicazioni, che con i canali, le navi a vapore, le ferrovie e il telegrafo consentì la nascita di vasti mercati, e quella industriale iniziata negli anni Venti con l’industria tessile del New England. Tali rivoluzioni, però, non unificarono l’intero Paese, ma due macro-regioni, a nord e a sud, i cui sistemi economici erano legati alle radici coloniali.
Vennero così a coesistere un sistema economico agricolo-industriale nel Nord, fondato sul lavoro libero e il contratto, e nel Sud un sistema agricolo basato sulla schiavitù per la produzione di cotone e tabacco altrettanto dinamico e moderno.
Due sistemi opposti, ma complementari – perché le industrie settentrionali usavano il cotone sudista e vendevano carne e granaglie al Sud cui occorrevano i servizi bancari e commerciali nordisti –, che si espansero con rapidità a ovest ed erano entrambi economicamente razionali e ben inseriti nell’economia atlantica.
L’abolizionismo statunitense che, parallelamente a quello inglese e francese, fece sentire negli stessi anni la sua voce non era in grado di modificare la situazione nonostante il coraggio e l’impegno degli attivisti bianchi e neri. Per la maggioranza degli americani, anche a Nord dove lo schiavismo era stato abolito ai primi dell’Ottocento perché economicamente inutile, la convinzione dell’inferiorità razziale dei neri faceva ritenere la schiavitù un sistema naturale di gestione dei loro rapporti con i bianchi o almeno necessario per salvare l’unità del Paese. Questo faceva sì che gli afroamericani liberi fossero privati quasi ovunque dei diritti politici e di buona parte di quelli civili.
Fino alla fine degli anni Quaranta i due sistemi poterono coesistere senza grandi difficoltà; ma dopo la vittoria nella guerra di aggressione contro il Messico del 1846-1848 ebbe inizio un duro scontro sul futuro – libero o schiavista – dei territori del Sud-ovest fino alla California strappati al Messico e di quelli già statunitensi del Nord-ovest fino al Pacifico.
Gli Stati del Sud volevano, infatti, introdurvi la schiavitù, mentre quelli del Nord intendevano riservarli ai pionieri bianchi.
In assenza di precise norme in materia lo scontro politico si inasprì rapidamente. Sebbene il Far West non fosse adatto all’agricoltura di piantagione – argomento sostenuto dai sudisti per convincere il resto del Paese che introdurvi la schiavitù non avrebbe generato squilibri produttivi a svantaggio degli altri territori –, la crisi del mercato del tabacco aveva indotto Virginia e North Carolina a dare il via alla cerealicoltura e all’industria, anche con l’uso di schiavi affittati dai loro padroni.
A Nord si temeva che questo nuovo tipo di schiavismo potesse attecchire nell’estremo Ovest a discapito dei pionieri bianchi. Era chiaro che la richiesta sudista recava con sé, inoltre, una riaffermazione della legittimità costituzionale dello schiavismo e del suo essere parte integrante della nazione.
LA COMPARSA DEL PARTITO REPUBBLICANO
Nel corso degli anni Cinquanta lo scontro si esacerbò provocando una sanguinosa guerriglia fra schiavisti e non schiavisti in Kansas e l’imporsi di due opposte interpretazioni del nazionalismo americano. Nel Nord, legato all’idea di lavoro libero, il Sud veniva dipinto come dominato da una cospirazione di piantatori, retrogrado civilmente e culturalmente e nemico di quei valori universali di libertà contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza da cui erano nati gli Stati Uniti. Nel Sud era il Nord a essere descritto come profittatore, volto a sottomettere il Sud e la sua superiore civiltà in nome del profitto andando nella pericolosa direzione di una degradata società razzialmente mista.
Quando il Sud riuscì a far passare in Congresso leggi che potevano aprire il Far West alla schiavitù e la Corte Suprema, con il caso Dred Scott del 1856 [uno schiavo che a norma di legge chiese di essere liberato in quanto aveva vissuto con il suo padrone in Illinois e Wisconsin, due Stati liberi – ndr], dichiarò che i neri non godevano di alcun diritto in quanto non ricompresi nei documenti fondanti della Nazione, al Nord nacque un nuovo partito, il Partito repubblicano [da notare che all’epoca, e all’incirca fino agli anni Trenta del Novecento, democratici e repubblicani non avevano ancora le connotazioni attuali di progressisti e conservatori. Per esempio, i maggiori sostenitori dell’abolizionismo si trovavano tra i repubblicani – ndr].
Presentatosi per la prima volta alle presidenziali nel 1856, il Partito repubblicano intendeva bloccare l’espansione della schiavitù a ovest in nome dei principi fondamentali del Paese e di un progresso agricolo e industriale fondato sul contratto e il lavoro libero, ritenuto il solo degno della nazione della libertà.
Sconfitto nel 1856, il Partito repubblicano si ripresentò alle presidenziali del 1860; era evidente che si trattava di una forza politica sezionale, pressoché assente a Sud. I democratici, fino ad allora dominanti nel Paese anche se forti soprattutto nel Sud, non riuscirono però a proporre un unico candidato in quanto, spaccati fra radicali ormai convinti della necessità di una secessione e moderati che cercavano un compromesso, finirono col presentare tre candidati destinandosi alla sconfitta. Anche i repubblicani erano divisi, non tanto a livello ideologico quanto fra leader potenti che alla Convenzione si bloccarono l’un l’altro aprendo la strada a un candidato debole che tutti pensavano di poter controllare, un politico poco conosciuto dell’Illinois: Abraham Lincoln.
Alle elezioni Lincoln, conseguendo la maggioranza in tutto il Nord e nell’Ovest, vinse facilmente con 180 voti elettorali su 303, anche se con solo il 40% del voto popolare. La situazione nel Collegio elettorale, quello su cui si basa l’elezione del presidente, non sarebbe mutata neppure se i democratici fossero stati uniti perché nel Nord, dove persero ovunque, vi era la maggioranza degli Stati e della popolazione statunitense.
1 W. Whitman, Memoranda during the War, (1875), Applewood Press, Bedford, MA. 1993

GLI EVENTI

L’inverno 1860-61 trascorse in un’atmosfera irreale. L’elezione di Lincoln era appena avvenuta, il 7 novembre, quando la South Carolina convocò una convenzione che il 20 dicembre votò l’uscita dall’Unione basandone la legittimità sulla tesi, già elaborata nel Sud fin dagli anni Trenta, che la Costituzione non fosse espressione del popolo americano, bensì frutto di un patto fra gli Stati dal quale questi ultimi potevano uscire. Fra gennaio e febbraio anche Georgia, Florida, Louisiana, Alabama, Mississippi, Texas seguirono la South Carolina e il 4 febbraio 1861 fondarono i Confederate States of America e ne approvarono la Costituzione, esemplata su quella del 1787, ma che conteneva il diritto di secessione e ammetteva il possesso di schiavi. Presidente venne eletto Jefferson Davis, senatore del Mississippi a Washington, piantatore e militare di carriera, che era già stato ministro della Guerra dell’Unione.
La maggioranza degli Stati schiavisti, otto, rimase, però, nell’Unione dove era ancora in carica il presidente James Buchanan, in quanto Lincoln gli sarebbe subentrato solo il 4 marzo 1861. Buchanan, un democratico favorevole al Sud, dichiarò ingiustificata la Secessione; ma si ritenne costituzionalmente privo di poteri per fermarla e non fece nulla per evitare che i forti e gli arsenali federali nel territorio della Confederazione fossero abbandonati o passassero a quest’ultima. Quando Lincoln entrò alla Casa Bianca solo due di essi erano ancora in mani unioniste, uno al largo della costa della Florida e uno,...

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  1. Collana
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