Guerre d'Indipendenza in Italia
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I tre conflitti, tra il 1848 e il 1866, detti Guerre d'Indipendenza d'Italia, furono l'asse portante, ma non conclusivo, di un contrastato processo che portò all'unificazione della penisola, prima ritenuta solo «un'espressione geografica» secondo la definizione di Metternich. A essi s'intrecciarono, con i moti rivoluzionari del 1821 e soprattutto del '48, gli ideali più ampi di patriottismo e nazionalismo, da un lato, e spinte assai eterogenee e contraddittorie a carattere locale, dall'altro. Dopo l'unità, altri scontri armati seguirono per la conquista dello Stato pontificio. I risultati non erano così scontati né gli obiettivi univoci. Rivoluzionari, mazziniani, repubblicani, papalini, garibaldini e monarchici, ognuno proponeva di "fare l'Italia" a suo modo; si impose il Regno savoiardo sotto la guida di Cavour che si servì spregiudicatamente di tutti. Con l'estromissione di molti dei protagonisti, con divisioni e fratture, alcune delle quali ancora non del tutto rimarginate.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2022
ISBN
9791255010159
Argomento
Storia
FOCUS

IL PROLOGO

LE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
Il Risorgimento italiano è il momento fondante della nazione italiana ed è stato, per oltre un secolo, raccontato e insegnato come un processo lineare e senza alternative che condusse dalla congerie di staterelli della penisola italiana (l’«espressione geografica» di Metternich) alla nazione unica del 1861.
Nella sostanza questo è vero, ma non si può ignorare che fu anche, in realtà, un periodo estremamente complesso, ricchissimo di idee e fermenti molto differenti fra loro e a volte addirittura antitetici, inseriti in un filone più ampio la cui eco risuonava in molte parti d’Europa. Lo stesso Paese che ne uscì non fu quello che tanti avrebbero voluto e per cui avevano combattuto: nell’arco di tempo che va dalla caduta di Napoleone al 1861 vennero ipotizzate molte Italie, monarchiche o repubblicane, unitarie o federali, con guida papale o napoletana o torinese. Per realizzare questi progetti si mossero eserciti regolari, ma anche armate insurrezionali; diplomazie di Stati e movimenti clandestini rivoluzionari.
Sicuramente il Risorgimento fu un movimento unitario e nazionale e al contempo una lotta per cacciare le influenze straniere dalla penisola: le due cose, si faccia attenzione, non sono necessariamente coincidenti.
Ebbe pure un aspetto importante di riforma sociale e politica, di modernizzazione di una società che, dopo il Congresso di Vienna, si presentava con la forma ultraconservatrice della Restaurazione e con la volontà di cancellare ogni traccia e conquista seguite alla Rivoluzione francese. Però il Risorgimento portò con sé anche la repressione dei movimenti insurrezionali o il loro incanalamento entro gli argini di una politica moderata e monarchica.
Ne conseguì il paradosso che fu allo stesso tempo un periodo rivoluzionario e controrivoluzionario, che provocò sollevazioni di popoli e le represse per riportare le situazioni all’origine.
Per convincersene basta pensare a quanto siano differenti le figure dei quattro padri spirituali della unificazione nazionale: un sovrano «per volontà di Dio e della Nazione», Vittorio Emanuele II; un politico in redingote intelligente e cinico, Camillo Cavour; un grande quanto atipico condottiero con un passato di corsaro e guerrigliero, Giuseppe Garibaldi; e un rivoluzionario di professione che al momento dell’Unità era ancora inseguito da una condanna a morte, Giuseppe Mazzini.
Miglior prova dell’eterogeneità e della complessità di quel periodo non sembra potersi trovare.
IL RITORNO AGLI ESERCITI DEL SETTECENTO
Il Risorgimento fu quindi un periodo multiforme e sfaccettato.
Dal punto di vista più strettamente militare e da quello sociale più direttamente collegato alle vicende belliche, si possono considerare tre elementi che rappresentano i presupposti ineludibili per comprendere i conflitti risorgimentali.
Il primo fu il rinnegamento generalizzato in tutto il continente, salvo la Francia, delle armate di tipo rivoluzionario e napoleonico a favore di un ritorno alle forme di esercito settecentesco privo di ogni motivazione ideale che non fosse l’obbedienza e la fedeltà al sovrano, comandato da aristocratici e impostato sulle manovre in ordine chiuso e di fuoco per linee. Eserciti così strutturati soddisfacevano l’ideologia della Restaurazione, ma risultavano totalmente inadatti ad affrontare possibili conflitti, sia interni sia esterni. I fatti lo dimostrarono inequivocabilmente.
In armate simili – e questo è il secondo elemento – non trovarono posto, se non a condizioni umilianti, gli ufficiali capaci e valorosi che si erano formati nell’Armée francese; alcuni di essi andarono a cercare fortuna lontano dall’Europa, ma molti restarono disponibili e rappresentarono, nel bene e nel male, il personale militare delle insurrezioni fino al 1848.
Il terzo elemento da considerare era l’esperienza spagnola della guerrilla, ovvero la guerra popolare e religiosa contro l’occupazione francese che aveva insanguinato la penisola iberica per anni. Vista da lontano e senza tener conto delle atrocità, dei massacri e delle devastazioni che essa costò (o imputandoli non a questo tipo di conflitto, ma all’indole delle popolazioni spagnole), appariva che un popolo in armi, senza ufficiali né addestramento, aveva tenuto in scacco la miglior armata dell’Europa di allora, resistendo fino al suo ritiro. Molti, tra i quali Mazzini e i suoi seguaci, ne dedussero che ovunque si sarebbe potuta ripetere una simile esperienza e che bastasse accendere una scintilla di rivolta per far divampare un conflitto non arginabile dagli eserciti tradizionali.
Da questi tre elementi (debolezza degli eserciti della Restaurazione, disponibilità di un personale militare disoccupato, fiducia nelle capacità di rivolta del popolo) variamente combinati derivò il tipo di iniziativa militare dei movimenti insurrezionali negli anni a venire.
Mentre a Vienna le nazioni vincitrici contro Napoleone erano riunite per concordare quella Restaurazione cui abbiamo fatto cenno, in Italia il maresciallo napoleonico e re di Napoli, Gioacchino Murat, mosse verso la pianura Padana per cercare di aggregarsi alle truppe dell’Armée francese che ancora vi si trovavano e costituire un regno italiano unito.
Si può individuare un momento idealmente iniziale del Risorgimento unitario nel suo proclama di Rimini del 30 marzo 1815 in cui diceva:
“ITALIANI: L’ORA È VENUTA CHE DEBBANO COMPIERSI GLI ALTI DESTINI D’ITALIA. LA PROVVIDENZA VI CHIAMA IN FINE AD ESSERE UNA NAZIONE INDIPENDENTE. DALL’ALPI ALLO STRETTO DI SICILIA ODASI UN GRIDO SOLO: L’INDIPENDENZA D’ITALIA.”
La sua avventura finì male: sconfitto a Tolentino, abbandonò il trono. Tornò con piccolo seguito poco dopo in Calabria sperando di sollevare le popolazioni contro i reinsediati Borbone, ma fu catturato e fucilato.
Il regime murattiano lasciò in eredità al Regno delle Due Sicilie, sotto il profilo militare, un’eccellente classe di ufficiali che vedremo sovente in contrasto con quella di qualità decisamente inferiore proveniente dalla nobiltà lealista, ma che per ceto pretendeva onori e comandi.
Questa contrapposizione fu uno degli elementi che portarono nel 1820 Napoli ad essere il centro di un primo moto insurrezionale. Era successo che in Spagna una rivolta democratica aveva avuto facile successo e in Campania alcuni ufficiali scontenti della situazione e aderenti alla società segreta della Carboneria pensarono di imitarla. Alzarono la bandiera della rivolta e con facilità irrisoria imposero al re Ferdinando I la concessione di una Costituzione. Militarmente il successo fu dovuto più al disfacimento delle truppe lealiste che alle capacità degli insorti.
Il difficile, infatti, venne nel periodo successivo: le discordie fra i nuovi governanti e soprattutto la frattura fra siciliani, che volevano l’indipendenza da Napoli, e napoletani, che non volevano concederla, impedirono che venissero costruite istituzioni efficienti e durature. Quando intervennero gli austriaci in nome della Santa Alleanza, non incontrarono nessuna seria resistenza.
Sull’esempio napoletano anche in Piemonte scoppiò un rivolta carbonara di limitate dimensioni, ma sufficiente per rovesciare il regime assolutista. Anche qui la debolezza del movimento e i disaccordi fra i capi impedirono che si creasse qualcosa di solido: a Novara, nell’aprile 1821, il piccolo esercito degli insorti venne spazzato via dalle truppe lealiste appoggiate dagli austriaci.
Il fallimento dei moti rappresentò anche il tramonto della Carboneria, sostituita da un nuovo tipo di società clandestina con un programma politico più chiaro e articolato e una struttura più efficiente: la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Migliore sotto il profilo politico, ma non sotto quello militare: quando nel 1830 una nuova ventata insurrezionale scosse l’Europa, anche in Italia vennero organizzati dei moti che però si rivelarono ancora più inconcludenti di quelli di dieci anni prima.

GLI EVENTI

IL 1848
All’inizio del 1848 scoppiò una rivolta a Palermo motivata, oltre che da ragioni patriottiche, anche (e forse soprattutto) dall’insofferenza degli isolani per la sottomissione a Napoli. Le forze borboniche presenti in città furono incapaci di arginare l’insurrezione che fu ben presto seguita dalla sollevazione dell’intera popolazione siciliana.
Le truppe napoletane dovettero perciò abbandonare l’isola e riuscirono a mantenere solo il possesso della munitissima cittadella di Messina, una delle fortezze più imponenti del Mediterraneo. Anche a Napoli scoppiò una rivolta, che il sovrano Ferdinando II non tentò nemmeno di fermare, concedendo nuovamente la Costituzione. Dal Regno delle Due Sicilie derivarono quindi due organismi statali che, pur originati dal medesimo empito rivoluzionario, avevano pochissimi punti di contatto e infatti non seppero trovare nessuna forma di accordo efficace. La rivolta siciliana inoltre rappresentò la scintilla che fece deflagrare l’intero edificio della Restaurazione in tutta Europa: a febbraio insorse Parigi, all’inizio di marzo Vienna, poi Berlino dove avvenne l’unico serio tentativo di soffocare la rivolta nel sangue. Questo fallì e il re di Prussia dovette sottomettersi e rendere omaggio ai caduti della rivoluzione.
In Italia, a febbraio, il sovrano piemontese Carlo Alberto concesse lo Statuto, seguito dall’arciduca di Toscana e dal papa Pio IX. Questi, avendo assunto posizioni di maggior apertura rispetto ai suoi predecessori, era considerato un pontefice liberale e aveva rappresentato una spinta decisiva per i movimenti insurrezionali.
Milano era in agitazione sin dall’inizio del 1848, ma la rivolta vera e propria scoppiò il 18 marzo seguita ben presto da insurrezioni in tutte le principali città lombarde. La guarnigione austriaca della città, comandata dal maresciallo Radetzky, contava 8000 uomini con diversi cannoni, numero destinato a salire fino a oltre 20.000 quando si unirono le truppe cacciate dalle altre città; dall’altra parte il popolo milanese partecipò in massa ai combattimenti e il centro di Milano divenne un fortilizio protetto da oltre 1700 barricate costruite con tutti i materiali possibili, dalle lastre di granito alle scenografie della Scala.
Man mano che i giorni passavano la situazione però si faceva sempre più pesante per gli imperiali, chiusi nei capisaldi cittadini: inoltre, da tutta la Lombardia, da Venezia e dal Veneto giungevano notizie di rivolte.
Quando il 22 marzo i milanesi, guidati da Luciano Manara, diedero l’assalto vittorioso a Porta Tosa, da allora ribattezzata Porta Vittoria, e ruppero l’anello austriaco che isolava la città dal resto della regione, il maresciallo decise di abbandonare il campo e ritirarsi nelle fortezze del Quadrilatero: Verona, Peschiera, Mantova e Legnago.
Queste erano state apprestate anni prima per difendere la frontiera meridionale dell’Impero contro le avanzate francesi come ai tempi di Napoleone, ma in quest’occasione vennero buone quale estremo baluardo dove organizzare una difesa in un momento tanto difficile.
La ritirata, nonostante le azioni di disturbo degli insorti, fu un successo, considerate le premesse: nelle fortezze trovarono salvezza 50.000 uomini dei 70.000 presenti a sud delle Alpi. Malconci, demoralizzati e male armati, ma passabilmente al sicuro.
Nei giorni immediatamente precedenti alla rivolta milanese, anche a Venezia erano avvenute agitazioni che erano culminate con l’arresto delle due figure più rappresentative del movimento antiaustriaco: l’avvocato Daniele Manin e il letterato Niccolò Tommaseo.
Il 18 marzo un’adunata di popolo in piazza San Marco per chiedere la liberazione dei due capi carismatici finì in scontri a cui seguì una fase di pace armata. Il 21 scoppiarono nuovi tumulti all’Arsenale, ex cuore della potenza navale della Serenissima e luogo fortificato più importante della città: Manin, che era stato nel frattempo liberato, riuscì a trasformare quella sommossa in una rivolta generale. Anche qui gli austriaci non riuscirono ad arginare l’insurrezione e abbandonarono la città: il giovane legale venne proclamato plebiscitariamente presidente della rinata Repubblica veneziana.
Nei momenti convulsi e trionfali seguiti alla vittoria, nessuno si accorse di un dettaglio: il messo che doveva andare a Pola a ordinare agli equipaggi della flotta imperiale, in grandissima maggioranza italiani, di lasciare il porto e mettersi agli ordini della neonata repubblica, salì sulla stessa nave con cui il governatore austriaco e dei suoi uomini lasciavano la città. Fu arrestato, l’ordine non arrivò mai a destinazione e la flotta rimase leale agli Asburgo.
LA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA
Alla fine del marzo 1848 sembrava che la rivoluzione avesse trionfato in Italia e in Europa: ovunque erano state strappate o concesse carte costituzionali e le forze austriache, pilastro della Santa Alleanza e della Restaurazione nella penisola, erano confinate nell’angusto Quadrilatero, senza nemmeno la prospettiva di aiuti da parte di Vienna, anch’essa in mano agli insorti e con la famiglia imperiale in fuga. Questo a una prima occhiata.
Però, se si prende come momento cruciale il 23 marzo 1848, giorno in cui i piemontesi guidati dal re Carlo Alberto entrarono in Lombardia facendo cominciare ufficialmente quella che verrà definita la Prima Guerra d’Indipendenza e si prova a scavare appena sotto le apparenze, si scopre che la situazione reale era ben diversa.
Le rivoluzioni avevano vinto ovunque, ma in nome di aspirazioni assai differenti, al punto che sovente i diversi governi democratici si intralciarono invece di cooperare.
In Sicilia aveva trionfato essenzialmente il programma dell’indipendenza da Napoli; a Napoli si era invece affermato un movimento che cercava di modernizzare istituzioni statali antiquate e dominate da una aristocrazia inetta e parassitaria. Il conflitto tra isola e continente rappresenterà un elemento di debolezza sostanziale per i democratici meridionali.
Entrambi, inoltre, non avevano particolare interesse a combattere l’Austria, lontana e ben poco influente in questo momento storico, e neppure un’ipotetica unità nazionale rientrava tra le esigenze prioritarie.
A Roma il tema centrale era l’ammodernamento di un apparato statale da secoli in mano al clero e del tutto inefficiente: qui la piazza aveva preso la mano a un pontefice sicuramente più “moderno” dei suoi predecessori, ma di certo non così liberale come il movimento rivoluzionario si illudeva che fosse. Quando Pio IX cercò di sciogliere l’equivoco ritornando sui propri passi e alle proprie prerogative di potere, si arrivò a quello scontro con i democratici di cui tratteremo più avanti. Differente era la situazione delle città pontificie della Romagna, la cui priorità era uscire dall’orbita romana di potere per inserirsi invece nell’ambiente che consideravano naturalmente come proprio: la pianura Padana.
A Venezia aveva invece vinto un movimento che voleva innanzitutto recuperare l’indipendenza della Serenissima, persa da mezzo secolo, e perciò in disaccordo con il programma di uno Stato veneto paritario cui miravano le altre città della regione. La popolazione, quindi, pur o...

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  7. FOCUS a cura di Marco Scardigli
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