L'Italia delle Signorie
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L'Italia delle Signorie

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Il Tre-Quattrocento in Italia fu un periodo cruciale sotto tutti gli aspetti: i Comuni si trasformarono in Signorie, creando forme di governo "nazionali" ma non nazionalistiche, che al di là di alcuni meriti avrebbero reso in futuro la Penisola una preda ambita dalle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa; fu l'epoca dell'umanesimo, con la riscoperta dei classici, la collocazione dell'uomo al centro del mondo quale artefice dei suoi destini, la vita activa, l'impegno civile. Un rinnovato patrimonio intellettuale che più tardi sarebbe migrato nel resto d'Europa, diventando principio comune e unificatore della cultura. Signorie e umanesimo furono strettamente interconnessi e rappresentarono un cambio di prospettiva che non nacque all'improvviso, ma aveva le sue radici nei secoli precedenti, in quel Medioevo dell'Italia che non appare poi così lontano dalla nuova stagione politico-culturale.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2022
ISBN
9791255010036
FOCUS

GLI EVENTI

“CHÉ LE CITTÀ D’ITALIA TUTTE PIENE SON DI TIRANNI, E UN MARCEL DIVENTA OGNE VILLAN CHE PARTEGGIANDO VIENE.”
È con queste parole che, nel canto VI del Purgatorio, poco dopo aver lamentato l’infelice destino della «serva Italia, di dolore ostello», Dante sintetizza efficacemente il progressivo affermarsi, a partire dalla fine del Trecento, di governi cittadini dominati dalla figura di signori che, salvo casi di violenti colpi di mano, erano d’altro canto riusciti ad affermarsi facendo leva sugli stessi meccanismi, nonché sulle debolezze, delle istituzioni comunali.
Questa trasformazione dell’assetto politico interno, che interessò molte città centro-settentrionali, si intrecciò, e spesso condusse, a una progressiva semplificazione della disposizione territoriale della Penisola, che vide molte autonomie cittadine perdere la propria sovranità a favore di alcuni centri che, spesso sulla spinta dell’ambizione e dell’intraprendenza delle personalità che vi avevano preso il sopravvento, estesero la propria sfera di controllo sulle città vicine.
Il tutt’altro che repentino trapasso dai Comuni alle Signorie fu perciò accompagnato dall’emergere di Stati regionali.
I complessi e spesso conflittuali rapporti tra questi Stati si consolideranno, a partire dalla stipula della Pace di Lodi nel 1454, in un equilibrio la cui rottura, alla fine del secolo, comporterà l’inizio di una fase di dominazione straniera destinata a protrarsi per ben quattro secoli, ponendo fine alla precaria, ma sempre gelosamente rivendicata, libertà italiana.
I meccanismi di aggregazione tra le città furono però indubbiamente favoriti dall’indebolimento dei «due Soli» che, nel loro incontro-scontro, avevano dominato la vita politica italiana in età medievale, vale a dire il Papato e l’Impero – un indebolimento compendiato, da un lato, nella fine del dominio svevo in Italia, dall’altro, nella morte di Bonifacio VIII e l’inizio della cattività avignonese – i due poteri universali di cui, pure, i signori continuarono a cercare costantemente la legittimazione nelle loro pretese dinastiche. Ed è proprio dalle vicende che travagliarono la Chiesa di Roma e i suoi territori che vale la pena prendere le mosse per ripercorrere quella che una lunga tradizione storiografica ha definito «età delle Signorie cittadine».

AVIGNONE E LO SCISMA D’OCCIDENTE

Acquisita un’estensione significativa fin dall’VIII secolo – quando il re longobardo Astolfo, sconfitto dopo la calata di Pipino il Breve su esortazione di Papa Stefano II, fu costretto a riconoscere la sovranità pontificia su alcuni domini, in primis l’Esarcato di Ravenna e la Pentapoli, già appartenuti all’Impero bizantino – lo Stato della Chiesa rappresentava la principale entità territoriale nell’Italia centrale, arricchita, nel corso dei secoli, da numerose donazioni e restituzioni.
Nonostante l’opera di espansione e consolidamento del controllo amministrativo condotta da Innocenzo III all’inizio del XIII secolo, lo Stato della Chiesa si presentava, nei primi anni del secolo successivo, tutt’altro che compatto. E la sovranità papale, che in una prima fase si era potuta affermare proprio facendo leva sulle lotte intestine che dividevano i vari potentati locali, spesso era oggetto di un riconoscimento soltanto formale, soprattutto da parte di quei signori, come i Montefeltro a Urbino e i Baglioni a Perugia, che aspiravano a una maggiore autonomia, aspirazioni prontamente sfruttate da potenze come Milano e Venezia per accrescere la propria sfera d’influenza a spese del Papato.
Questa situazione di caos e divisione si acuì alla morte di Bonifacio VIII, nel 1303, finendo col coinvolgere Roma stessa, dilaniata dalle lotte tra le famiglie baronali, ed in special modo tra gli Orsini, sostenitori di una linea di fiera affermazione del potere papale sia sul fronte interno sia nei confronti dei sovrani europei (a cominciare dal re di Francia), ed i Colonna, duramente colpiti dalle politiche di Bonifacio VIII, in un contrasto culminato nell’aggressione al Pontefice perpetrata ad Anagni da Sciarra Colonna, ed ora appoggiati dai francesi.
L’elezione di Benedetto XI, che cercò di restaurare una dimensione di collegialità nella gestione degli affari ecclesiastici coinvolgendo i cardinali nella gestione del potere, non aveva risolto la situazione. Il Pontefice si era anzi visto costretto a lasciare Roma alla volta di Perugia, e la sua morte, dopo appena otto mesi di pontificato, aveva rinfocolato le divisioni tra quanti difendevano l’operato di Bonifacio VIII ed un partito che, temendo uno scisma da parte del clero gallicano, era apertamente filofrancese (schieramenti stavolta ambedue guidati da membri della famiglia Orsini), divisioni destinate a riflettersi sul conclave, che avrebbe avuto inizio nel capoluogo perugino, e cariche di conseguenze decisive per la storia successiva della Chiesa. Dopo undici mesi di conclave, grazie all’abilità di Napoleone Orsini, i voti di due terzi dei cardinali si concentrarono su Bertrand de Got, divenuto Papa Clemente V.
Francese d’origine, il nuovo Papa smentì subito l’iniziale impressione di indipendenza dalla madrepatria; incapace di resistere alle pressioni di Filippo il Bello, infatti, Clemente V, pur essendo stato in precedenza un sostenitore di Bonifacio VIII, accettò di intraprendere un processo che ne ponesse in discussione la memoria e, soprattutto, ne revocasse i provvedimenti antifrancesi. Il segno più evidente della completa sottomissione del nuovo Pontefice al Sovrano francese fu però il trasferimento, nel 1309, della curia ad Avignone, che diede inizio a quella “cattività” che si sarebbe protratta, con vari intervalli legati a tentativi diretti o indiretti di rientro a Roma, per quasi settant’anni.
Si trattò, a dire il vero, di un esito tutt’altro che scontato, dettato essenzialmente dalle circostanze e dalla debolezza caratteriale del Pontefice.
Ciò era confermato, del resto, dalla possibilità di un ritorno a Roma ventilato già dai suoi immediati successori, Giovanni XXII e Benedetto XII, spesso scoraggiati, tra le altre cose, dai disordini che agitavano i territori pontifici e l’Urbe stessa (disordini che, acuitisi fin dal pontificato di Clemente V, erano del resto alimentati proprio dall’assenza di un controllo diretto da parte del Papato). Anche dall’Italia, del resto, si invocava a gran voce il ritorno della curia, come confermato dall’invio ad Avignone, alla fine del 1342, di una delegazione romana incaricata di pregare il nuovo pontefice, Clemente VI, affinché accorciasse a cinquant’anni la ricorrenza del Giubileo, mossa con la quale si sperava di favorire un primo riavvicinamento della curia a Roma.
Di quell’ambasceria faceva parte Cola di Rienzo che, guadagnatosi l’ammirazione di Petrarca e dello stesso Pontefice, tornò a Roma con la carica di notaio della Camera Capitolina e, facendo leva su una crescente popolarità, unita all’appoggio del vicario papale, nel 1347 prese il potere nella città, instaurando un governo dichiaratamente ostile alle grandi famiglie baronali. La politica di Cola, inizialmente appoggiato dal Papa per la sua capacità di ristrutturare l’amministrazione romana e ristabilire l’ordine cittadino, verrà col tempo guardata con sempre maggior sospetto dalla curia, che finirà anzi con il favorire la caduta e il successivo esilio del tribuno tra i monti della Maiella. Nonostante la regolare celebrazione del Giubileo nel 1350, la costruzione del Palazzo dei Papi (avviata da Benedetto XII) e l’acquisto definitivo della città di Avignone avevano nel frattempo spento le speranze di un ritorno del papa a Roma, che dovrà attendere l’elezione di Innocenzo VI per diventare una possibilità concreta.
È in quest’ottica che va letto l’invio in Italia, nell’agosto del 1353, del cardinale, già arcivescovo di Toledo, Egidio Albornoz, incaricato di riportare l’ordine e riguadagnare alla sovranità papale quello Stato che, tra le prepotenze dei signori locali e l’incontrollata violenza di bande itineranti, di pontificio aveva ormai ben poco. Nei tredici anni trascorsi in Italia da legato e vicario generale, il cardinale impiegò i suoi ampi poteri, prima, per sottrarre al prefetto Giovanni di Vico il controllo sul Patrimonio di San Pietro, poi, dalla fine dell’anno successivo, per riaffermare il potere papale nel ducato di Spoleto, nelle Marche e in Romagna, domini da un lato frazionati in numerosi centri di potere divenuti sempre più autonomi, dall’altro oggetto delle mire espansionistiche di Milano, Firenze e Venezia.
La zelante attività di riconquista militare e riorganizzazione amministrativa dei territori papali condotta da Albornoz trovò manifestazione tangibile nelle fortificazioni fatte erigere in varie città, come Orvieto, Viterbo, Spoleto ed Urbino.
E, soprattutto, nelle Constitutiones Aegidianae, pubblicate nel 1357 allo scopo di fornire basi giuridiche al riassetto dello Stato pontificio, del quale il Cardinale, in quanto prosecutore dell’opera di Innocenzo III, rappresentò per molti aspetti il secondo fondatore.
Fu però Urbano V a cogliere i frutti degli sforzi del Cardinale, confermato nella sua carica dal nuovo pontefice ma meno sostenuto nella sua azione a causa di una linea politica più orientata alla diplomazia nella gestione degli affari italiani. Nonostante decise resistenze non solo in Francia, ma anche da parte delle potenze italiane che temevano il consolidamento del dominio pontificio nel cuore della Penisola, il Papa entrò a Roma il 16 ottobre 1365, impegnandosi subito in numerose opere di miglioramento delle principali chiese dell’Urbe, di lì a qualche anno sconvolta da disordini che, uniti alle pressioni dei cardinali francesi e alla frustrazione per il fallimento delle trattative con l’Imperatore per una risistemazione territoriale dell’Italia centro-settentrionale, spinsero il Papa a rivedere la propria decisione e a fare ritorno ad Avignone.
Ancor più convinto nell’intraprendere la via del ritorno in Italia, anzitutto per condurre da vicino la lotta contro l’espansionismo visconteo, fu Gregorio XI. Il Pontefice, come riportato dal procuratore mantovano Cristoforo da Piacenza nei suoi dispacci, voleva
“ESSERE IN ITALIA PER LA PRIMAVERA, ANCHE SE DI TUTTO IL SUO STATO GLI FOSSE RIMASTO SOLO IL SUFFICIENTE PER POSARCI I PIEDI”
alludendo alle ribellioni che gli avevano sottratto il controllo di città come Viterbo, Perugia e Città di Castello. Persuaso anche da Santa Caterina, il Pontefice lasciò Avignone e, il 17 gennaio 1377, entrò a Roma. Un ritorno che avvenne nell’insoddisfazione generale, la cui portata sarebbe emersa un anno dopo, quando la contestatissima elezione dell’italiano Urbano VI, dichiarata nulla dai cardinali francesi, innescò il processo che avrebbe condotto prima all’elezione dell’antipapa Clemente VII, e poi, specialmente con il ritorno di quest’ultimo ad Avignone nel maggio 1381, alla maturazione di quello Scisma d’Occidente che, non risolto (ma anzi aggravato con l’entrata in scena di un terzo papa) dal Concilio di Pisa nel 1409, travaglierà la Chiesa per quarant’anni.
Alla frattura tra Roma e Avignone corrispose una più generale divisione del mondo cristiano tra due obbedienze.
Queste vedevano, da un lato, gli Stati italiani, l’Impero, la Boemia, l’Ungheria, la Polonia, la Lituania, l’Inghilterra e il Portogallo, dall’altro, la Francia, la Castiglia, la Scozia, l’Aragona (dopo l’iniziale favore accordato a Urbano) e la Navarra; i vari tentativi di ricomporre l’unità della Chiesa verranno coronati da successo solo con il Concilio di Costanza, che depose i pontefici in carica e procedette, nel novembre del 1417, all’elezione di Martino V.
La risoluzione dello scisma era però propedeutica all’altro, grande obiettivo del concilio, ossia quella riforma della Chiesa intesa non come un semplice processo di moralizzazione – tanto più necessario dopo la dissolutezza, il nepotismo e la mondanità, che a detta di molti avevano contraddistinto la lunga cattività in quella che Petrarca aveva definito «l’empia Babilonia, ond’è fuggita / ogni vergogna» – bensì come una globale riorganizzazione ecclesiastica. Punto essenziale doveva essere il ridimensionamento dell’assolutezza del potere papale a favore del concilio, riconosciuto nel decreto Haec Sancta quale vero rappresentante della Chiesa, la cui convocazione doveva avere, secondo quanto stabilito dal decreto Frequens, cadenza quinquennale.
La supremazia del concilio sul papa venne però messa in discussione già da Eugenio IV, divenuto papa nel 1431 durante l’inizio del Concilio di Basilea, che, prima sciolse il concilio, poi (suscitando malumori culminati nella deposizione del 1439 e con la conseguente elezione, riconosciuta da pochissimi Stati, dell’antipapa Felice V) ne impose il trasferimento a Ferrara e quindi a Firenze dove, il 5 luglio 1439, fu firmato l’atto che sanciva l’unione, per quanto precaria e provvisoria, con la Chiesa greca.
L’importante risultato raggiunto a Firenze rafforzò in modo significativo l’autorità del pontefice, specialmente nello scacchiere politico italiano.
Nonostante i disordini scoppiati a Roma nel 1434, che lo costringeranno a lasciare la città (riparando prima a Firenze, dov’era stato costretto a rifugiarsi, e per motivi analoghi, già il suo predecessore) per farvi ritorno solo un decennio più tardi, Eugenio IV riuscì a riportare l’ordine nell’Urbe e, destreggiandosi con abilità tra le mire espansionistiche dei vari Stati, a evitare il completo dissolvimento dello Stato pontificio (cui, d’altro canto, soltanto Cesare Borgia e Giulio II, al volgere del secolo, riusciranno davvero a porre un freno, invertendo addirittura il segno a favore di un’espansione territoriale), giocando un ruolo decisivo, per esempio, nella lotta di successione al trono di Napoli apertasi alla morte di Giovanna II d’Angiò, con il riconoscimento, dopo l’iniziale ostilità, di Alfonso V d’Aragona come nuovo titolare del Regno partenopeo.

NAPOLI E SICILIA TRA ANGIOINI E ARAGONESI

L’investitura, stabilita dalla bolla del 15 luglio 1443, del successore di Alfonso quale re di Napoli, poneva fine alla divisione tra la corona napoletana e quella siciliana consumatasi in conseguenza dei Vespri Siciliani. Scoppiata a Palermo nel 1282 – il pretesto fu l’offesa arrecata da un ufficiale francese verso una nobildonna siciliana – ed in breve dilagata nelle altre città siciliane, la rivolta, sotto le sembianze del malcontento popolare per i soprusi perpetrati dai nuovi signori angioini, dava corpo, da un lato, alle mire espansionistiche degli Aragonesi sul Regno di Sicilia, dall’altro, al malumore dei nobili fuggiti dal Regno meridionale in seguito alla sconfitta di Manfredi nella Battaglia di Benevento, nel 1266, che aveva posto fine al dominio svevo nell’Italia meridionale.
Artefice di quella sconfitta era stato Carlo I d’Angiò, l’ultimo figlio di Luigi VIII di Francia, chiamato da Papa Urbano IV, con la promessa del trono, proprio per contrastare l’erede di Federico II di Svevia. Dopo lunghe trattative, concluso ufficialmente l’accordo con il nuovo pontefice Clemente IV, Carlo era partito dalla Francia e, discesa la Penisola nel giro di pochi mesi, era stato incoronato re di Sicilia in Laterano il 6 gennaio 1266. Con quella vittoria, possibile grazie all’organizzazione di una grande coalizione guelfa, Carlo I d’Angiò aveva inflitto un primo colpo ai ghibellini italiani; il secondo sarà la sconfitta di Corradino di Svevia, ultimo erede degli Hohenstaufen, che discese lungo la Penisola e si scontrò con l’esercito angioino nella Battaglia di Tagliacozzo, il 23 agosto 1268, cui fecero seguito la sua cattura e la sua condanna a morte.
L’annientamento della dinastia sveva diede a Carlo mano libera nella gestione del Regno, consentendogli di ereditare l’efficiente apparato amministrativo creato da Federico II, affidandone però il controllo a uomini di propria fiducia, per lo più di origini francesi.
La dura politica fiscale del Sovrano, unita al malumore per il trasferimento della capitale del Regno da Palermo a Napoli, agevolarono le ambizioni di Pietro III d’Aragona, che aspirava al trono siciliano per tramite della moglie, Costanza, che con la morte di Corradino appariva come l’unica erede legittima del padre Manfredi.
Approfittando del caos seguito all’insurrezione, e facendo leva sulla collaborazione dei fuoriusciti siciliani rifugiatisi in Catalogna (primi tra tutti Giovanni da Procida e Corrado Lancia), Pietro III d...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I sacerdoti laici della cultura
  6. PANORAMA
  7. FOCUS a cura di Salvatore Carannante
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell’opera