FOCUS IL PROLOGO
Partiamo da due opere d’arte, prodotte in epoche diverse ma, a loro modo, rappresentative della complessità storica, geografica e umana del fenomeno delle indipendenze ispano-americane.
La prima è il grande murale intitolato Retablo de la Independencia, conservato nel Museo Nacional de Historia nel Castello di Chapultepec a Città del Messico: edificio commissionato nel 1775 dal viceré Bernardo de Gálvez e completato da Massimiliano d’Asburgo nel 1864, che domina il bosco che un tempo ospitava la sede dell’Inquisizione spagnola. Dipinto nel 1960-61 dal pittore e architetto messicano Juan O’Gorman, il murale è un’opera monumentale (4,40 metri di altezza per 15,69 di larghezza), ispirata all’arte post-rivoluzionaria di Rivera, Orozco e Siqueiros. O’Gorman sembrò riconoscere nella celebrazione dell’Indipendenza del Messico la catarsi di secoli di storia, colti nel passaggio drammatico dalla colonia alla contemporaneità. Il problema principale consisteva nel fissare l’attimo fotografico dell’Indipendenza, un processo che, dopo una lunga incubazione, si sarebbe protratto per oltre un decennio. Rispettando i dettami della storia nazionale messicana, l’attimo non è però colto alla sua consumazione (27 settembre 1821, con la vittoria dell’Esercito Trigarante), bensì alla sua sorgente simbolica: il Grito de Dolores (16 settembre 1810), l’appello con cui il sacerdote Manuel Hidalgo y Costilla chiamò il popolo all’insurrezione (in realtà, almeno in origine, legittimista, contro l’avanzata napoleonica in terra iberica).
In quel murale convergono le profonde contraddizioni ma anche gli attori coinvolti nel processo indipendentista.
I rappresentanti dell’esercito insurgente sono riuniti intorno al cura (parroco) Hidalgo che impugna la fiamma della libertà, sovrastato da uno stendardo della Vergine di Guadalupe. Dietro di lui, come in un diorama vivente, scorrono tutte le vicende dell’Indipendenza, dalla crisi del sistema coloniale alle diverse fasi della lotta armata, in cui tricolori giacobini si affiancarono a stendardi regionali. In questo trionfo dell’horror vacui, improvvisamente, tutti i rappresentanti della società piramidale novohispana si trovano sullo stesso piano: viceré spagnoli, vescovi e nobili hidalgo [titolo nobiliare, ereditario per linea maschile, che dava diritto a un certo numero di privilegi – ndr], creoli urbani, burocrati, miliziani, sacerdoti di villaggio, commercianti, braccianti e mulattieri meticci, indigeni di varia foggia e provenienza, mulatti liberi e schiavi. I personaggi rappresentati nel Retablo (291, di cui 35 donne e quattro bambini) sembrano accomunati dalle vicende di un’insurrezione iniziata come regalista ma che, tra scontri armati, guerriglie, epidemie, carestie, congressi, costituzioni, guerre civili, moti rivoluzionari e manovre diplomatiche, si sarebbe via via trasformata in una lotta ineluttabile verso l’indipendenza.
Il murale fu commissionato dal direttore del Museo Nacional de Historia de México durante la presidenza di Adolfo López Mateos, nel 1961, anno del lancio dell’Alleanza per il Progresso kennediana, all’indomani della rivoluzione castrista a Cuba e delle prime aperture americane del papato di Giovanni XXIII. Al nazionalismo esplicito della rilettura storica si associano alcuni messaggi subliminali che sembrerebbero far pensare al tema della violenza, delle rivoluzioni e delle guerre civili che stavano accompagnando l’irruzione della guerra fredda nella regione.
La seconda opera d’arte è invece del tutto diversa per forme e stile: è una statua bronzea, che richiama il monumento edificato nel 1938 nella Rotonda de la Independencia di Guayaquil (oggi in Ecuador) e fa parte della mostra permanente, a Lima, La Quinta de los Libertadores, dedicata all’incontro, a lungo mitizzato nell’immaginario latinoamericano e al centro di una complessa controversia storiografica, avvenuto il 26 luglio 1822 nella città di Guayaquil tra Simón Bolívar e José de San Martín nella casa coloniale di mattoni di fango chiamata da allora “Casa dei Liberatori”. I libertadores criollos (creoli), rispettivamente della parte settentrionale e meridionale del subcontinente sudamericano, repubblicano il primo, favorevole alla monarchia costituzionale il secondo, si incontrarono per la prima volta in un frangente particolarmente delicato della lotta contro le truppe realiste del vicereame del Perú.
A due secoli circa da quelle vicende, la storia delle indipendenze latinoamericane continua dunque a riverberare nella contemporaneità.
Come confermato dal recupero politico, in chiave socialista, del bolivarismo attuato dal Venezuela durante la presidenza di Hugo Chávez nel primo decennio del XXI secolo, così come dai richiami alla storia patria che continuano a caratterizzare le istituzioni politiche latinoamericane, di qualsiasi tendenza ideologica. Un discorso che, proprio in concomitanza del bicentenario del 2010, ha investito in pieno anche la comunità scientifica che ha rilanciato il dibattito storiografico intorno ai processi indipendentisti, al ruolo delle corti di Cadice, all’onda lunga delle rivoluzioni atlantiche, alla presenza di eserciti popolari di indigeni e schiavi nelle armate contrapposte.
Ha scritto al riguardo la docente di linguistica Maria Matilde Benzoni «la comunità internazionale degli storici si è impegnata in un’ampia riconsiderazione del processo che ha portato al tramonto delle “Indie” e alla formazione di un mosaico di nuovi Stati ispirati, sulla carta, ai principi delle “rivoluzioni atlantiche”, modulando i tempi, esaminando le forme e […] gli spazi di un fenomeno di rara complessità nel cui svolgimento interagiscono fattori di “lungo periodo” e motivi di “congiuntura”, aspetti locali e orizzonti globali».
LA CRISI DELLA MONARCHIA ISPANICA
Il periodo che va dai primi moti insurrezionali del 1809 che scossero i vicereami americani della monarchia spagnola, al raggiungimento delle indipendenze in una dozzina di Paesi latinoamericani, tra il 1821 e il 1825, rappresenta una tappa cruciale nella storia del continente, per il successo del repubblicanesimo e l’avvio dell’affermazione dello Stato-Nazione su modelli imperiali di Ancien régime. In un arco di tempo piuttosto limitato, pur colpito da scontri, violenze e rivolgimenti convulsi, si consumò infatti il crollo di un grande sistema monarchico che aveva segnato per oltre tre secoli i caratteri della storia atlantica e mediterranea.
Ma cosa furono le Guerre d’Indipendenza? Come nacquero e si svilupparono, come ridefinirono l’intreccio dei destini tra continente americano ed europeo? E che ruolo giocarono quei conflitti armati, sviluppatisi parallelamente alle grandi Guerre napoleoniche, sulla trasformazione della società, della politica e delle culture latinoamericane? La professoressa dell’Università di Torino Federica Morelli ha scritto: «La complessità del processo ci indica che non esiste un’indipendenza ispano-americana, ma diverse indipendenze ispano-americane, al plurale […]. Non esiste una specie di proto-nazionalismo e nemmeno un ideale di nazione che conduce alla creazione di stati nazionali, ma una ristrutturazione attorno a pueblos e municipi per la difesa di interessi essenzialmente locali».
La citazione mette in chiaro diversi punti: la complessità geografica, sociale e umana di quei processi, il loro estendersi nel tempo (la lunga preparazione e il faticoso assestamento verso la forma di Stati-nazione), i collegamenti con esperienze politiche «altre» (nordamericana ed europea), infine il rapporto territoriale tra centro e periferie.
La costruzione dell’America ispanica, iniziata come prolungamento della reconquista iberica, durante quasi due secoli di sovrani asburgici era passata attraverso un composito processo di traduzione in terra americana del sistema feudale europeo. I caratteri di quella monarchia organica, in espansione ma in uno spazio apparentemente chiuso (pirateria, corsa e contrabbando permettendo), si erano basati su uno stretto dualismo conquista-evangelizzazione e sulla costruzione di un sistema imperiale (minerario e terriero) in cui i corpi della nazione di matrice europea si riadattavano in modo asimmetrico a realtà sociali e culturali inedite e plurali. In quest’ottica si intende la scelta di instaurare, nei territori della conquista, due grandi vicereami: quello della Nueva España, con capitale Città del Messico, la Tenochtitlán azteca (1535), e quello del Perú (1543), con capitale Ciudad de los Reyes (la futura Lima), sul Pacifico, lontano dai fortilizi incaici delle Ande. Dalla Nuova Spagna dipendeva anche la Capitanía general de Guatemala (l’attuale regione centroamericana).
Due caratteristiche fondative dei vicereami americani della monarchia ispanica riguardavano da un lato l’apertura de facto al meticciato, elemento peculiare di una società plurale ma piramidale e suddivisa in castas, per utilizzare una dizione settecentesca; dall’altro il regime di cristianità, ovvero il rapporto strettissimo tra istituzioni politiche ed ecclesiastiche, incarnato dalla formula del Patronato.
La prima era il frutto di una realtà storica che costrinse l’ossessione spagnola per la “limpieza de sangre” (purezza di sangue) a mediare con i crescenti flussi migratori intra-ispanici, comprensivi di una taciuta radice giudaico-islamica, con la tratta di schiavi afro-americani, ma soprattutto con la presenza di società indigene solide e articolate che, nonostante il crollo demografico dei primi due secoli coloniali, manifestarono una silenziosa capacità di resistenza e adattamento al nuovo contesto. Le castas richiamavano una simbolica divisione della nazione in gruppi razziali, immortalati in una serie di dipinti coloniali che rimandano – solo per citare i più noti – a español (spagnolo), criollo (creolo, spagnolo americano), mestizo (meticcio, con sangue spagnolo e indigeno), castizo (spagnolo e mestizo), mulato (spagnolo e nero africano), zambo (indigeno e nero africano), morisco (mulatto e spagnolo).
Questa società asimmetrica ammetteva l’esistenza di pueblos de indios o riduzioni, come erano detti i piccoli centri fondati dai Gesuiti, che non erano però concepite alla stregua delle future “riserve” statunitensi, bensì come strumenti di tutela giuridica e spirituale delle comunità native. Proprio qui entrava in gioco il sistema del Patronato, fondato su una delega concessa dalla Santa Sede alle monarchie iberiche per «gestire cristianamente» la colonizzazione, in cambio di sostegno attivo all’evangelizzazione. Lo Stato poteva ingerire in materie quali la nomina dei vescovi, l’organizzazione delle diocesi e la concessione di benefici ecclesiastici (prerogative impensabili nel coevo panorama europeo), mentre alla Chiesa, sospesa tra il suo carattere universale e iberico, erano delegati, oltre all’Inquisizione, i criteri di evangelizzazione ed educazione dei nativi.
GLI EVENTI
L’armonizzazione del rapporto dominio/tutela sulle popolazioni latinoamericane da parte della Spagna iniziò a incrinarsi nella stagione borbonica, con l’ascesa al trono spagnolo del duca di Angiò, Filippo V (1700-1724). Le prime limitazioni al Patronato risalgono alla legge del 1717 – anno del trasferimento a Cadice della Casa de contratación de Sevilla – che proibiva la fondazione di nuovi conventi nelle colonie, affidando le parrocchie indigene al clero secolare. Un processo che si accompagnò a crociate linguistiche per l’alfabetizzazione degli indios per culminare nel decreto di espulsione dei gesuiti.
Il desiderio dei riformatori borbonici di portare l’America nel secolo dei Lumi produsse una serie di leggi modernizzatrici che incidevano direttamente sugli strati popolari, introducendo limitazioni alle celebrazioni pubbliche di feste religiose che rivestivano un ruolo centrale nell’impianto socio-assistenziale dei vicereami. In quella frattura tra spada e croce, si individua un passaggio fondamentale del tentativo dei sovrani borbonici, Ferdinando VI ma soprattutto Carlo III, di riprodurre nelle Americhe un ambizioso progetto di modernizzazione del regno e di consolidamento del centro sulle periferie, attraverso strumenti d’ispirazione francese, quali gli intendenti di finanza.
Nella stagione dell’assolutismo illuminato, al rinnovamento del sistema economico e commerciale, che andava a intaccare gli interessi dei potentati creoli e il loro ruolo nei vecchi impianti burocratici, coincise un incremento esponenziale delle pressioni sul mondo indigeno e sulle strutture ecclesiali. Le élite creole subirono un ulteriore colpo quando la corona stabilì la fine della compravendita delle cariche che permettevano loro di controllare le redini dell’amministrazione locale all’interno dei vicereami. L’idea era di sostituirli con funzionari fedeli al re, inviati direttamente dalla Spagna e di riavvicinare le colonie americane attraverso un rilancio dei flussi migratori (di baschi e asturiani).
Il consolidamento dello Stato passava poi anche per una razionalizzazione delle politiche terriere e un irrigidimento del controllo fiscale di prodotti minerari, cacao, tabacco, zucchero, indaco e alcolici.
La corona puntava così a ridurre il contrabbando e a modernizzare le piantagioni, ottimizzando l’utilizzo di manodopera servile indigena e schiavistica afro-americana. Tra il 1765 e il 1778 Madrid, nella speranza di rafforzare il debole mercato interno dei vicereami, ruppe inoltre il monopolio di Cadice, autorizzando altri porti iberici a commerciare con le Americhe.
La spinta riformista produsse anche una riorganizzazione amministrativa, mutando la mappa del continente. Già nel 1717 Filippo V aveva istituito un nuovo vicereame, la Nueva Granada, scorporato da quello del Perú, con capitale Santa Fé de Bogotá (gli attuali Panama, Colombia, Ecuador e Venezuela). Carlo III si spinse oltre, erigendo nel 1759 la Capitanía general de Cuba e nel 1773 quella del Venezuela, ma soprattutto dando vita, tre anni dopo, a un quarto Virreinato (vicereame), quello del Río de la Plata, con capitale Buenos Aires. Questo comprendeva gli attuali Paraguay, Uruguay e Argentina, più la Provincia di Charcas (Alto Perú, oggi Bolivia). La ristrutturazione imperiale venne completata da Carlo IV (1788-1808), con l’istituzione della Capitanía general de Chile. Il nuovo assetto, lungi dal favorire la razionalizzazione illuminata preconizzata dalla corona, evidenziò semmai una potenziale spinta centrifuga, insita nelle crescenti rivalità (economiche, commerciali e politiche, tra città e pueblos) del sistema ispano-americano.
Sulle frontiere del regno incisero naturalmente anche le trasformazioni geopolitiche che sconvolsero gli assetti globali delle grandi potenze. La Guerra dei Sette anni (1756-1763), che alcuni storici ritengono una sorta di Prima guerra mondiale in pectore, rimarcò la natura sempre più “globale” dello scontro tra britannici e francesi, estendendosi dalle terre indiane del Québec all’Impero moghul del Rajastan.
Quando la corona spagnola decise di intervenire a fianco di Parigi (1761), mostrò le falle del suo sistema imperiale. La flotta da guerra britannica si impose nel Golfo del Messico e nel Caribe, occupando il porto cubano di L’Avana e attaccando Manila. Dopo la pace di Parigi, Madrid riottenne Cuba e Filippine in cambio della cessione della Florida ai britannici ed ebbe la Louisiana dai francesi. Le tensioni ispano-britanniche si sarebbero però riaccese di lì a poco, dapprima con l’occupazione inglese delle isole Malvinas (Falkland), nel 1769; quindi con la partecipazione spagnola alla Guerra d’Indipendenza americana, che valse il ritorno della Florida orientale ma a fronte della comparsa nell’emisfero occidentale di un nuovo attore: gli Stati Uniti.
Le riforme borboniche nelle Americhe raggiunsero il loro culmine proprio mentre nelle tredici colonie si consumava la rivoluzione contro la madrepatria britannica.
Le crepe della monarchia ispano-americana si allarga...