La canzone del tempo (Urania)
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La canzone del tempo (Urania)

  1. 272 pagine
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La canzone del tempo (Urania)

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LA CANZONE DEL TEMPO Su una spiaggia della Cornovaglia, un'anziana signora trova un uomo, un tempo famoso violinista, quasi annegato. Anche lei, in realtà, è ormai agli sgoccioli della sua vita. Oppure all'inizio di una nuova, che però fatica anche solo a immaginare. Perché, alla fine del nostro secolo, la morte potrebbe non esistere più. Nel frattempo deve capire chi è l'uomo della spiaggia: una reminiscenza del suo passato o un nuovo Messia? Vincitore del premio Arthur C. Clarke e finalista al John W. Campbell, Song of Time (2008) racconta la storia del nostro secolo fino al salto in un nuovo tipo di esistenza, o qualsiasi cosa si trovi oltre questa vita...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835716662
Argomento
Literatur

LA CANZONE DEL TEMPO

Quando supero l’ultima duna di ciottoli, vedo una forma biancastra distesa sulla battigia. Mi avvicino a fatica e i gabbiani volano via. Non mi fermerei, se fossi certa che si tratti soltanto di un tronco sbiancato, ma non riesco a distogliere lo sguardo. L’arenile è scivoloso e un’onda più grande si infrange sulle mie ginocchia. Una mano si agita, braccia e gambe si muovono, riverberi di bollicine, e un volto umano guarda verso l’alto dal mare che si ritrae, con una maschera di alghe sul viso.
Afferro una mano, un braccio. All’improvviso la risacca quasi ci trascina via, poi, dopo aver opposto resistenza, io e quel corpo siamo liberi. Mi guardo intorno. Le nubi sono screpolate da spiragli di luce dell’alba, ma non c’è nient’altro sul litorale tranne me, quest’uomo e il grigio Atlantico. Sotto le alghe che lo ricoprono vedo lividi, graffi, sfregi, ma per il resto è nudo, giovane, chiaramente un maschio, ed è ancora vivo, anche se a malapena. Con uno sforzo cerco di girarlo e di fargli espellere l’acqua dai polmoni, ma sono già esausta. Si divincola e sbatte le palpebre.
«Chi sei? Da dove vieni?»
Sbatte ancora le palpebre, le labbra bluastre si atteggiano come per dire qualcosa, poi vomita nell’acqua marina.
Lo sorreggo e barcolliamo fino alla scogliera. I numerosi gradini che dalla rimessa delle barche salgono verso la mia casa sono di cemento, consumato dal tempo. Dovrei stenderlo qui, fuori dalla portata del mare, andare di corsa a Morryn, la mia abitazione, e avvisare le autorità. Invece saliamo insieme, mi grava sulle spalle con tutto il suo peso e i gabbiani delusi piombano in picchiata. I suoi piedi nudi, che sbattono e si muovono goffamente, iniziano a sanguinare.
Finalmente arriviamo in vista dei comignoli di Morryn. Risaliamo a fatica il prato in pendenza, affondo le dita nei comandi della porta d’ingresso, poi ci accasciamo gocciolando nell’atrio. Dove adagiarlo? Al piano superiore ho una camera da letto per ospiti che non vengono mai, ma non ce la faccio ad affrontare un’altra salita, perciò opto per la sala da musica. Apro la porta con un calcio e con un ultimo sforzo mi trascino fino al divano rosso con lui che mi cade addosso.
Sfinita per le ondate di dolore, crollo sulla sedia accanto alla mia scrivania. Perdo i sensi, e quando mi riprendo la figura è ancora distesa sul divano. No, non è un fantasma, perché sui tappeti si vede che è sgocciolata acqua marina, e ha portato con sé l’odore salmastro della riva. È tutto reale. Ha gli occhi chiusi. Contrae le dita di una mano che gli è scivolata in basso, tempestata di frammenti di conchiglie, dalle unghie incrinate e scheggiate. Pur tenendo conto dei danni causati dalla salita, i suoi piedi sembrano già piagati e scorticati da prima. Solo su rocce e ciottoli? Mi alzo per esaminarlo più da vicino. Adesso ha la pelle quasi del tutto sgombra dalle alghe. È bluastra per i lividi, segnata da graffi, con chiazze grigiastre e rossastre dovute a molte piccole abrasioni, sebbene al di sotto appaia di un pallore morbido, uniforme e dorato. Ha un buon tono muscolare. Sia i capelli sia la peluria sull’inguine gli si stanno asciugando, ed entrambi acquisiscono una sfumatura biondo scuro. Potrebbe essere un dio greco annegato.
«David, ti chiami così?»
Nei suoi occhi brilla una luce acquosa.
«Mi senti?»
Muove una gamba strusciandola sul divano. Adesso mi guarda, ma stenta a mettermi a fuoco. I muscoli si tendono in uno spasmo, poi ricade all’indietro. Chiude di nuovo gli occhi e capisco che si sta isolando da me. Un attimo dopo il respiro rallenta. I bulbi oculari tremolano. Sembra che dorma…
Lo lascio stare, mi stringo nelle braccia e mi appoggio alla porta della sala da musica. Mi si annebbiano i sensi. Cosa sto facendo? Sono fradicia, sporca di sabbia e alghe cadute da lui lungo il tragitto. Anch’io vorrei dormire, fuggire… Invece vado all’armadio della lavanderia. Quando mi allungo per prendere asciugamani e coperte, l’apparato che mi asciuga e stira la biancheria stende le sue membra argentee, ma lo allontano, poi armeggio con le braccia ingombre per riaprire la porta della sala da musica. All’interno, il piano automatico fa risplendere la sua vela di legno, piena di luce mattutina che penetra dagli ampi bovindi. Perché, fra tutte le stanze, ho scelto di metterlo proprio in questa, dove tutto è così personale, fa tanto parte di me? Alle pareti sono appesi premi, dischi d’oro, rari frammenti di spartiti, programmi di vecchi concerti, fotografie di mio marito Claude che dirige le più grandi orchestre del mondo. Il pavimento è disseminato di foto di famiglia, vecchi CD, frammenti di immagini, disegni a matita dei miei figli. La mia scrivania è un santuario pieno di passato. Il mio violino Guarneri attende nella sua custodia. Qui c’è tutto quello che sono, tutto quello che potrei ritrovare. Eppure vi ho portato questo sconosciuto…
Con le mani tremanti, stendo delle coperte su quest’uomo che stava annegando. Di sicuro non stava morendo di fame e, nonostante tutte quelle piccole ferite, il suo corpo è di una perfezione che quasi spezza il cuore. Non è stato reso deforme o modificato come tanti oggi, e ha il pene turgido ed eretto nonostante il freddo. È semplicemente umano, giovane, vivo, maschio. Avevo dimenticato quanto possono essere belle le persone al puro stato animale. Ha smesso di contrarre le dita. Gli sollevo la testa per fargliela poggiare su un asciugamano e accenna un sorriso.
La mia mente si arrovella sull’evidenza dei fatti. Non è la prima volta che lungo questo tratto costiero della Cornovaglia vengono ritrovati dei corpi gettati a riva. Ci sono sempre stati naufragi e annegamenti, le navi dei rifugiati e i dirigibili di tutte le recenti diaspore spesso si schiantano o affondano quando sono intercettati dai sottomarini e dai droni di sorveglianza. E i rifugiati sono spesso maschi e giovani. Cosa succede loro se li catturano vivi? Immagino li rispediscano nell’Africa martoriata dalla siccità, nelle città che sprofondano dell’Europa meridionale…
Fuori dalle finestre della sala da musica, i segmenti del cielo e dell’orizzonte restano vuoti. Non si vedono navi, aerei o automi. Forse non è altro che un nuotatore mattutino, colto da crampi o sorpreso da una corrente inattesa? Ma in quel caso, lo starebbero già cercando i parenti disperati. E in quel caso, ci sarebbero anche droni e altri oggetti svolazzanti a perlustrare e setacciare la spiaggia. Adesso è facile ritrovare le persone, almeno quelle che hanno la fortuna di vivere da queste parti. Brilliamo come fari sui tracciatori che difendono i confini. Se fosse un velista salpato da Fowey o Mevagissey o Penzance, un perdigiorno, un escursionista della scogliera, oppure un nudista ghermito da queste acque insidiose, sarebbe stato salvato molto prima che lo trovassi.
Gli esamino il viso e cerco di definire i suoi lineamenti, di ricordare quale stereotipo razziale dovremmo temere in questo nuovo secolo. Americani derelitti? Maori? Ma si tratta di spauracchi che appartengono ad altre epoche. Adesso tutti possono assumere qualsiasi sembianza. Cambiare colore, ricombinare i propri geni. Sollevo le coperte per controllare se respira. Sì… e tutto il resto è ancora lì.
L’alba è passata da un pezzo. Oltre le finestre, nubi color ambra e striature di azzurro. Sarà una giornata di tempo variabile, con alternarsi di sole e pioggia. Ci saranno calma e tempesta. È il tipico tempo di fine estate in Cornovaglia, per i miei ultimi giorni qui. Sento un brontolio allo stomaco. Avrei già dovuto far emettere caffè e croissant dagli impianti all’interno dell’artiglio di vetro della nuova cucina, seguire le mie routine di monitoraggio e assumere i farmaci palliativi che dovrebbero tenere sotto controllo la mia sintomatologia, quindi iniziare gli esercizi quotidiani con il violino. Poi, visto che ero decisa a riordinare come si deve i miei ricordi, dovrei riesaminare gli oggetti che ricoprono la scrivania e traboccano dai cassetti semiaperti. Crollo sulla sedia con le vertigini. Non mi va di gettare via la roba, ma non è da me vivere nel disordine. Che scelta ho?
Questa casa, queste spesse mura di granito, da quasi quattrocento anni assorbono sospiri, urla di nascita e di morte e ricordi di ogni genere. Per Morryn, è solo l’inizio di un’altra giornata. Apro i cassetti. Conchiglie natalizie, vecchi CD, penne esaurite, un orecchino spaiato, il mio primo diapason, schede di memoria e souvenir. Una cartolina che mamma mi spedì da Delhi. La inclino ad angolo retto, la avvicino all’orecchio e funziona ancora: si sentono il fragore del traffico, l’odore di gelsomino e immondizia, si assapora la polvere di quella città perduta. La scarpa di plastica rossa di una Barbie. Un biglietto di Claude, scarabocchiato con quella grafia grande ed elegante, forse accluso a un regalo. Al di sopra della scrivania fluttua lo schermo di quello che considero ancora un computer, anche se non ha una cornice fisica. Se lo attivassi, potrei guardare ancora più a fondo nella memoria: accedere alle vecchie pagelle che papà una volta ha scannerizzato a mano nei suoi tentativi di fare ordine: “Roseanna” gli insegnanti spesso scrivevano male il mio nome “è una bambina molto vivace. Però quando si impegna…”. E-mail parzialmente danneggiate, video di feste di compleanno, registrazioni multisensoriali e una varietà pressoché infinita di concerti miei e di Claude. È tutto lì, in attesa. Ma da dove cominciare? Si tratta della mia vita, eppure mi sembra troppo gravosa da affrontare.
Presto morirò. Questo pensiero mi colpisce ancora a freddo. Mi sento ridicola, delusa e, sì, arrabbiata. Dopotutto, ho appena cento anni e non avevo certo previsto che i miei concerti più recenti sarebbero stati gli ultimi. Ho attribuito la mia inspiegabile stanchezza a impegni troppo faticosi: una tournée musicale comporta sempre un grosso carico di lavoro. In soli due mesi ho tenuto ventuno recital di musica da camera e quindici concerti in tutto il mondo. Ho visto svanire la Terra e apparire le stelle dai finestrini di una dozzina di shuttle. Con grande piacere, ho scoperto che la gente voleva ancora ascoltare il favoloso stile armonico di Roushana Maitland, una volta paragonato allo splendore del sole di mezzogiorno riflesso su un iceberg. Suonavo il violino e la musica restava immortale, e così io, pensavo. I tremori, le vertigini, l’appannamento della vista, gli inspiegabili attacchi di singhiozzi li relegavo nelle stanze d’albergo. Indossavo gli abiti più eleganti e andavo a cena nei migliori ristoranti del mondo con conoscenze nuove e ritrovate, virtuali e reali. Una volta mi è caduto un calice di vino. Altre ho dimenticato i nomi. A Praga non sono riuscita a ritrovare la via del mio camerino dal palco, ma tutte queste cose non sono prerogativa esclusivamente degli anziani.
Poi ci sono state New Jakarta, Bangalore, un pernottamento forzato trascorso ad ascoltare il ronzio di qualche dispositivo ecologico e la pioggia tossica che batteva sulla finestra del mio albergo. Quindi è stata la volta di Sydney, e di quell’ultimo bis trionfale, seguito da una cena tardiva e una festa che lo era ancora di più. Quando finalmente la porta della mia suite d’albergo si è richiusa, non ero più sicura se mi sentivo felice o triste per il fatto che la tournée fosse finita. In sostanza, avevo la sbronza nostalgica e le mie abluzioni, prima mettermi a letto e desiderare che il mondo smettesse di girare, sono state del tutto frettolose.
Non c’è da sorprendersi che mi sia svegliata quasi a mezzogiorno, né che avessi una sete da morire. Ma il mio letto era bagnato. All’inizio, non era stata una sensazione sgradevole. Tanto che, nonostante l’emicrania, ho sorriso al ricordo dei bei tempi, quando mia figlia Maria si era arrampicata furtivamente nel mio letto ed ero stata svegliata da un’umidità e un odore simili. Solo allora ho capito.
Tornata qui a Fowey, ho preso con discrezione un appuntamento. Non l’ho detto a nessuno, men che meno ai miei figli Edward e Maria. I servomeccanismi della clinica mi annusavano con ronzii che parevano di rimprovero per essere deliberatamente un anacronismo vivo e vegeto. E se un particolare impianto o intervento migliorativo avesse davvero risolto i miei problemi di vista e il disturbo alla vescica, mi ci sarei sottoposta, benché a malincuore… Ma ho capito subito che doveva esserci qualcosa di grave quando nella stanza luminosa è entrato un dottore in carne e ossa. Mi ha chiesto di sedermi con il viso improntato alla massima serietà professionale.
Ci sono altre cliniche. Non quelle che si occupano dei vivi, ma dei moribondi. Con le mie frettolose ricerche, ho scoperto che spesso sono situate in vecchi edifici che nel nuovo secolo non hanno più la loro destinazione originaria. Banche. Chiese, quelle non incendiate. Uffici governativi un tempo moderni, sfuggiti al virus del cemento. Anche musei. Ma ora sembrano tutti così solidi. È come se affermassero la loro natura prima ancora di entrarvi, e quell’affermazione riecheggia nel ticchettio dei propri passi quando si percorrono corridoi ristrutturati. Rifulge nelle targhe di ottone che catturano lo sguardo e riempiono dello stupore di trovarsi là.
La società che ho scelto per barare con la morte, anche se la direzione non avrebbe mai usato quel termine, ha sedi nelle principali capitali del mondo, oltre a un accogliente ufficio a Bodmin. La musica dà solo una fama selettiva, quindi godevo di un certo anonimato, così mi sono sottoposta a colloqui vecchio stile con persone reali, a rigorose valutazioni mentali e mediche, e a sessioni di gruppo con altri morituri. Sedevamo imbarazzati in circolo su sedie dallo schienale morbido sotto teste di marmo e albi d’oro di dignitari scomparsi da tempo. Ci hanno assicurato che la morte non è più il traguardo finale. La vita può continuare. Noi possiamo continuare. Non serve la fede, e tanto meno Dio. Basta solo impegno, un po’ di autodisciplina, e denaro. Ma per cosa non c’è bisogno di tutto questo? Alcuni penitenti erano molto più vecchi di me, e si trascinavano come granchi con i loro cavetti e carapaci protettivi. Altri erano più giovani. Altri ancora si capiva benissimo che erano gravemente ammalati. C’era anche un bambino.
Mi sono prenotata per la procedura necessaria a metà agosto, quasi tre settimane dopo il mio ultimo concerto a Sydney. Avrei voluto farlo prima: temevo di aver ritardato troppo. Il mattino stabilito, mi sono precipitata quasi correndo verso i pilastri di granito del vecchio municipio di Bodmin, e mi sono sentita così sollevata quando i braccioli del divano finalmente si sono chiusi intorno a me che quasi non ho avuto paura. Poi ho respirato l’odore di osso bruciato quando il seme cristallino dell’immortalità mi è penetrato nel cranio.
Continuavo a ripetermi come un mantra che non c’era niente di particolarmente strano in tutto quello. Dopotutto, i morti sono con noi da tempo. Per secoli, i loro volti ci hanno fissati dai dipinti, poi divenuti fotografie, a loro volta replicate in sequenze di immagini che in seguito hanno preso vita. Ben presto i morti iniziarono a parlarci dalle trombe dei grammofoni, si librarono nel buio dei cinema finché non migrarono negli schermi di vetro che tenevamo nelle nostre case, e quegli schermi divennero più intelligenti e più interattivi finché la lastra che ci separava dal loro lato opposto incominciò a dissolversi. I campi di cristallo si dilatarono e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA CANZONEDEL TEMPO
  4. LA STORIA DEL PREMIO URANIA. I VINCITORI 1997-1999. di Mauro Gaffo
  5. Copyright