Lacci
eBook - ePub

Lacci

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Che cosa lasciamo, quando lasciamo qualcuno? Una casa, una famiglia, il passato, un'idea di futuro, la nostra peggiore fotografia impressa a fuoco negli occhi di chi abbiamo amato. Passiamo la vita a spaccare vasi e incollare cocci illudendoci di essere nuovi di zecca. E cerchiamo di non guardare troppo indietro, perché il tempo dei bilanci è un tempo vano, ridicolo e struggente. Domenico Starnone ha scritto un libro intensissimo e vero. Il racconto a tre voci delle forze sotterranee che tengono in vita i matrimoni anche dopo l'amore. «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie». Si apre cosí la lettera che Vanda scrive al marito che se n'è andato di casa, lasciandola in preda a una tempesta di rabbia impotente e domande che non trovano risposta. Si sono sposati giovani all'inizio degli anni Sessanta, per desiderio di indipendenza, ma poi attorno a loro il mondo è cambiato, e ritrovarsi a trent'anni con una famiglia a carico è diventato un segno di arretratezza piú che di autonomia. Perciò adesso lui se ne sta a Roma, innamorato della grazia lieve di una sconosciuta con cui i giorni sono sempre gioiosi, e lei a Napoli con i figli, a misurare l'estensione del silenzio e il crescere dell'estraneità. Che cosa siamo disposti a sacrificare, pur di non sentirci in trappola? E che cosa perdiamo, quando scegliamo di tornare sui nostri passi? Perché niente è piú radicale dell'abbandono, ma niente è piú tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte. Domenico Starnone ci regala una storia emozionante e fortissima, il racconto magistrale di una fuga, di un ritorno, di tutti i fallimenti, quelli che ci sembrano insuperabili e quelli che ci fanno compagnia per una vita intera.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Lacci di Domenico Starnone in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literature e Literature General. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416501

Libro secondo

Capitolo primo

1.

Andiamo con ordine. Poco prima della partenza per le vacanze Vanda, a causa di una frattura al polso che non vuole guarire, ha preso in affitto per due settimane, su consiglio dell’ortopedico, uno stimolatore elettrico. Il prezzo concordato con la ditta era duecentocinque euro, la consegna doveva avvenire il giorno dopo. All’indomani, intorno a mezzogiorno, hanno suonato alla porta e poiché mia moglie era impegnata in cucina sono andato ad aprire io, preceduto al solito dal gatto. Una giovane donna sottile, capelli corti neri forse un po’ radi, un viso delicato di grande pallore su cui spiccavano occhi vivaci senza trucco, mi ha teso una scatola grigia. Ho preso il pacco, avevo il portafoglio sulla scrivania nel mio studio, ho detto: scusi un attimo. Lei mi ha seguito in casa senza che la invitassi a entrare.
– Bello, – ha esclamato rivolgendosi al gatto, – come ti chiami?
– Labes, – ho risposto io.
– Che nome è?
– Sta per la bestia.
La ragazza ha riso, s’è chinata, ha accarezzato Labes.
– Sono duecentodieci euro, – ha detto.
– Non duecentocinque?
Lei ha scosso la testa tutta presa dal gatto, gli stava facendo il solletico sotto la gola sussurrando paroline insensate. Poi, cosí accovacciata, mi ha parlato col tono calmo di chi, muovendosi da una casa all’altra per lavoro, sa come calmare le ansie degli anziani quando bussa alla porta un estraneo. Apra la scatola, ha detto, c’è la bolla, vedrà che sono duecentodieci. E sempre solleticando il gatto ha fatto correre lo sguardo oltre la porta del mio studio con curiosità.
– Quanti libri.
– Mi servono per lavorare.
– Un bel lavoro. E quante statuine. Quel cubo là in alto ha un blu meraviglioso, è di legno?
– Metallo. L’ho comprato a Praga tanti anni fa.
– Proprio una bella casa, – ha esclamato tirandosi su. Poi ha accennato di nuovo alla scatola: – Dia una controllatina.
Gli occhi lucenti mi sono piaciuti.
– Va bene cosí, – ho detto e le ho dato i duecentodieci euro.
Lei li ha presi e mi ha ammonito facendo ciao al gatto:
– Non si stanchi troppo a leggere. Arrivederci, Labes.
– Arrivederci, grazie, – ho risposto io.
Tutto qui, niente di piú, niente di meno. Sono passati pochi minuti e Vanda è venuta fuori dalla cucina con un grembiule verde che le arriva quasi ai piedi. Ha aperto la scatola, ha attaccato alla presa l’alimentatore, ha controllato che il generatore funzionasse e ha esaminato il solenoide per capire come doveva usarlo. Io intanto, per curiosità, ho dato uno sguardo alla bolla d’accompagnamento. La ragazza mi aveva imbrogliato.
– Qualcosa non va? – ha chiesto mia moglie che se cambio umore se ne accorge anche se è distratta.
– Ha voluto duecentodieci euro.
– E glieli hai dati?
– Sí.
– T’avevo detto che erano duecentocinque.
– Sembrava una persona perbene.
– Era una donna?
– Una ragazza.
– Graziosa?
– Mah.
– È un miracolo che t’abbia sfilato solo cinque euro.
– Cinque euro non è una gran cifra.
– Cinque euro sono diecimila lire di una volta.
A labbra strette come quando è contrariata, è passata a studiarsi le istruzioni. Tiene molto ai soldi. Per tutta la vita ha avuto l’ossessione del risparmio e ancora oggi, malgrado gli acciacchi, non esita a chinarsi per raccogliere dal laidume delle strade una monetina da un centesimo. È di quelle persone che non trascurano mai di sottolineare, a mo’ di promemoria indirizzato innanzitutto a se stesse, che un euro è l’equivalente di duemila lire e che se quindici anni fa due persone per andare al cinema spendevano dodicimila lire, oggi, che il cinema costa otto euro a biglietto, ne spendono trentaduemila. Il nostro benessere attuale, e in una certa misura anche quello dei nostri figli che chiedono spesso soldi, lo si deve non tanto al mio lavoro quanto al suo rigore. Di conseguenza, che un’estranea pochi minuti prima si fosse appropriata di cinque euro nostri, doveva averla indispettita tanto quanto l’avrebbe rallegrata trovare la stessa cifra accanto a un’auto in sosta.
Il suo disappunto, come capita di solito, ha accentuato il mio. Vado a scrivere una mail alla ditta, ho detto, e mi sono ritirato nello studio con l’intenzione di denunciare la piccola truffa. Volevo acquietare mia moglie, mi ha sempre messo ansia la sua disapprovazione, senza contare il sarcasmo su come, alla mia età, sono ancora stupidamente sensibile alle smorfie delle donne. Cosí, acceso il computer, per un po’ mi sono rigirato nella testa i gesti della fattorina, la voce, le parole. Ho ripensato al tono accattivante con cui aveva detto che bel gatto, oh quanti libri, e mi è tornato in mente il modo sollecito, quasi affettuoso, con cui mi aveva esortato ad aprire il pacco e a controllare. Evidentemente le era bastata un’occhiata per decidere che sarebbe stato facile imbrogliarmi.
Prenderne atto mi ha infastidito. Ho tracciato mentalmente una linea tra come avrei reagito qualche anno prima (non mi faccia perdere tempo, questo è il denaro pattuito, arrivederci) e come avevo reagito adesso (il gatto si chiama Labes, coi libri ci lavoro, il cubo l’ho comprato a Praga, va bene cosí, grazie). Quindi mi sono deciso a battere sui tasti qualche frase aspra. Ma presto mi sono sentito addosso una svogliatezza perplessa, ho pensato: chissà come vive questa tizia, lavori precari e mal pagati, genitori a carico, un affitto esoso, la necessità di comprarsi trucchi e un paio di calze, un marito o fidanzato disoccupato, problemi di droga. Se scrivo alla ditta, mi sono detto, certamente perderà anche questo piccolo impiego. Alla fin fine cosa sono cinque euro, una mancia che io stesso, fuori dallo sguardo di mia moglie, le avrei dato volentieri. E comunque, se in questi tempi di miseria la ragazza seguiterà ad andare in giro gonfiando le cifre a suo vantaggio, troverà presto qualcuno meno accomodante di me che gliela farà pagare.
Ho lasciato perdere la lettera. A Vanda ho detto che l’avevo inviata e ho dimenticato l’episodio.

2.

Pochi giorni dopo siamo partiti per il mare. Mia moglie ha preparato i bagagli, io li ho trascinati di sotto, fino all’automobile. Faceva molto caldo. La strada, di solito trafficata, era vuota, i palazzi intorno tacevano, le finestre e i balconi erano in gran parte protetti da sbarre e persiane abbassate.
Mi sono coperto di sudore per la fatica. Vanda voleva aiutarmi e poiché gliel’ho impedito – ero preoccupato per la fragilità delle sue ossa – mi ha dato ordini su come sistemare le valigie. Era nervosa, lasciare l’appartamento le causava ansia. Anche se si trattava di passare solo sette giorni al mare in un albergo vicino Gallipoli – pensione completa a un prezzo accettabile, niente da fare se non dormire, passeggiate lungo la riva, il piacere dei bagni –, lei continuava col ritornello che sarebbe rimasta volentieri a leggere sul balcone tra il limone e il nespolo.
Abitiamo in questa casa da trent’anni e tutte le volte che capita di doverci stabilire in altri spazi, lei finisce per comportarsi come se non dovessimo tornare mai piú. Con gli anni convincerla a concederci qualche agio è diventato sempre piú complicato. Innanzitutto ha sempre l’impressione di far torto ai figli e ai nipoti. E poi, piú di ogni altra cosa, le dispiace lasciare Labes, lo ama e lui la ricambia. Anche io naturalmente voglio bene alla bestia di casa, ma non fino al punto di rovinarmi la vacanza. Cosí devo cautamente persuaderla che il gatto danneggerà il mobilio dell’albergo, appesterà la nostra camera, infastidirà gli altri ospiti coi suoi miagolii notturni. E quando lei finalmente si rassegna a separarsene, devo assicurarmi che i nostri figli passino a riempirgli le scodelle e a ripulirgli la cassetta. Questo di solito la agita parecchio. I ragazzi non sono in buoni rapporti e bisogna evitare che fratello e sorella per qualche motivo siano costretti a incontrarsi. Tensioni tra loro ce ne sono sempre state, fin dalla prima adolescenza, ma le cose si sono complicate una dozzina d’anni fa, alla morte della zia Gianna. La sorella maggiore di Vanda, nel corso della sua travagliata esistenza, non ha avuto figli, si è particolarmente affezionata a Sandro, e alla fine ha lasciato un gruzzolo cospicuo a lui e cianfrusaglie di poco valore a Anna. Ne è nata una lite. Anna ha preteso che si ignorassero le ultime volontà della zia e che l’eredità fosse divisa in parti uguali; Sandro si è rifiutato. La conseguenza è che non si vedono piú, cosa che, insieme ai mille altri problemi delle loro vite disordinate, fa soffrire moltissimo la madre. Per evitare quindi che anche solo si incrocino quando devono accudire Labes, io studio turni e orari, Vanda, che non ha nessuna fiducia nelle mie capacità organizzative, li supervisiona e si accerta che entrambi i figli abbiano le chiavi del nostro appartamento. Questo per dire com’è laborioso tutto. Ma adesso eccoci qui, lei e io, tra i nostri bagagli. Viviamo insieme da cinquantadue anni, un filo lungo di tempo raggomitolato. Vanda è una signora fintamente energica di settantasei anni, io un signore fintamente svagato di settantaquattro. Lei mi organizza la vita da sempre senza nasconderlo, io da sempre seguo le sue istruzioni senza protestare. Lei è attivissima malgrado gli acciacchi, io sono pigro malgrado la buona salute. Ho già messo nel bagagliaio la valigia rossa, ma mia moglie fa resistenza, non è d’accordo, meglio la nera sotto e la rossa sopra. Mi sono scollato con le dita la camicia dalla schiena, ho tirato fuori la valigia rossa, l’ho deposta sull’asfalto gemendo in modo esagerato, ho fatto per prendere quella nera. In quel momento è sopraggiunta un’auto.
È stato impossibile non notarla, visto che non solo la strada ma l’intera città sembrava vuota, i semafori cambiavano colore inutilmente, si sentiva persino il cinguettio degli uccelli dentro le chiome degli alberi. La vettura ci è passata accanto, ha fatto pochi metri, ha inchiodato. Un secondo, due, ho udito distintamente il rumore degli ingranaggi nella scatola del cambio. L’auto si è bloccata alla nostra altezza dopo il gemito veloce della retromarcia.
– Non è possibile, – ha esclamato l’uomo che sedeva al volante, occhi dentro un’ombra scura, denti un po’ invecchiati. – Uno passa e guarda un po’: lei, proprio lei, qua per strada, cosí. Quando lo dirò a mio padre, resterà a bocca aperta.
Era entusiasta, rideva di contentezza. Ho lasciato perdere la valigia nera e ho cercato di ripescare nella memoria qualche suo tratto – il naso, la bocca, la fronte – che mi aiutasse a capire chi fosse. Ma non mi è riuscito, aveva un viso cangiante reso ancora piú cangiante dall’emozione, non ce la faceva a calmarsi. E parlava senza prendere fiato, mi ha rovesciato addosso una folla di parole su suo padre che si ricordava di me con stima e affetto, su certe difficoltà che io l’avevo aiutato ad affrontare quand’era ragazzo, su come finalmente le cose s’erano messe bene e anzi promettevano di andare sempre meglio. Ripeteva di continuo: che piacere, e sebbene non capissi se avessi fatto del bene a lui, a suo padre o a entrambi, mi sono convinto quasi subito che doveva essere stato un mio allievo, forse nella fase breve della mia giovinezza in cui avevo insegnato in un liceo a Napoli, forse nella fase piú lunga in cui avevo lavorato all’università di Roma. Succedeva di frequente che incontrassi sconosciuti festosi nei cui visi adulti, spesso molto segnati, riconoscevo a volte – ma piú spesso fingevo di riconoscere – ex studenti. Sí, ho concluso, è l’ipotesi piú probabile, si tratta sicuramente di un mio alunno, e non ho voluto dare all’uomo il dolore di non essere stato riconosciuto. Mi sono imposto un’espressione cordiale, ho finito per chiedergli:
– Come sta papà?
– Bene. Ha qualche problema al cuore ma niente di grave.
– Salutamelo.
– Certamente.
– E tu, tutto bene?
– Benissimo. Si ricorda, no, che volevo andare in Germania? Ci sono andato e lí finalmente sto avendo un po’ di fortuna. In Italia che possibilità ci sono? Zero. In Germania invece ho messo su una piccola industria, lavoro coi pellami, faccio borse, giacche, roba di qualità che si vende bene.
– Sono contento per te. E sei sposato?
– Non ancora, mi sposo in autunno.
– Auguri, e di nuovo tanti tanti saluti a papà.
– Grazie, lei non può sapere come gli farà piacere.
Ho aspettato che ripartisse ma non l’ha fatto. Siamo rimasti per qualche secondo col sorriso stampato in faccia, senza dire niente. Poi lui ha scosso energicamente la testa:
– No, no, chissà quando capiterà un’altra occasione. Le voglio lasciare almeno un omaggio, a lei e alla sua signora.
– Un’altra volta, ora dobbiamo andare.
– Faccio subito, è un momento.
L’uomo è uscito dall’auto, era scattante, deciso, ha aperto il portabagagli. Ecco, ha esclamato rivolto a Vanda, e le ha allungato una borsetta lucida che lei ha accettato quasi con fastidio, come se temesse di sporcarsi. Per me invece lo sconosciuto ha scelto una giacca di pelle nera, me l’ha appoggiata addosso mormorando: è perfetta. Mi sono schermito: è troppo, non posso accettare. Ma lui niente, è tornato a rivolgersi a Vanda, voleva darle anche un giubbetto con fibbie scintillanti. Questa è esattamente la sua misura, le ha detto tutto contento. A quel punto ho cercato di fermarlo: sei stato molto gentile, grazie ancora, ma basta con gli omaggi, si sta facendo tardi, troviamo traffico. E lui è cambiato, il viso da sdruccioloso che era si è irrigidito: prego, non c’è di che, quando si può si può, le chiedo solo un piccolo piacere, qualche euro per la benzina, devo arrivare in Germania, non è obbligatorio però, se le sembra troppo non fa niente, omaggi sono e omaggi restano.
Mi sono disorientato: il padre, la gratitudine, la piccola industria tedesca, gli affari a gonfie vele, e ora voleva qualche euro per la benzina? Ho messo mano meccanicamente al portafoglio, ho cercato cinque euro, dieci, ho scoperto che avevo solo una carta da cento. Mi dispiace, ho mormorato, ma intanto già mi pulsavano le tempie, stavo per dirgli: anzi non mi dispiace affatto, riprenditi la tua roba e fila via. È stato un attimo. Con un gesto preciso, rapido e insieme lieve, l’uomo è calato con pollice e indice a pinza sul mio portafoglio, ha chiuso le dita intorno ai cento euro, me li ha sfilati con occhi cordialmente grati e un attimo dopo era già al volante, è ripartito esclamando: grazie, come sarà contento papà.
Se il gioco truffaldino della ragazza del solenoide mi aveva solo amareggiato, questo episodio mi ha fatto male. L’auto non era ancora scomparsa in fondo alla strada che mia moglie ha esclamato incredula:
– Gli hai dato cento euro?
– Non gli ho dato niente, se li è presi.
– Questa roba non vale un centesimo. Senti che puzza, non è pelle, sa di merluzzo.
– Butta tutto nel cassonetto.
– Niente affatto, caso mai li do alla Croce rossa.
– Va bene.
– No, non va bene. Siamo cresciuti a Napoli, santodio, e tu ti fai prendere in giro cosí?

3.

Ho guidato per ore, fino al mare, nauseato dal malodore delle giacche e della borsetta. Vanda non si capacitava. Cento euro, ripeteva, duecentomila lire, non è possibile. Poi però il suo scontento è diventato fiacco, ha tirato un sospiro di rassegnazione e ha detto: va bene, pazienza, non ci pensiamo piú. Ho fatto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lacci
  4. Libro primo
  5. Libro secondo
  6. Libro terzo
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright