Il mio granello di sabbia
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Il mio granello di sabbia

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Il mio granello di sabbia

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Nel febbraio del 1945 Luciano Bolis, militante del Partito d'Azione, fu arrestato dai fascisti. Rinchiuso nelle carceri genovesi di via Monticelli e orribilmente torturato, per non rivelare i nomi dei suoi compagni tentò il suicidio squarciandosi la gola con una lametta. Trasportato in fin di vita all'ospedale, fu poi liberato dai partigiani con un colpo di mano proprio alla vigilia del 25 aprile. La peculiarità di questo libro rispetto all'insieme della memorialistica resistenziale consiste, oltre che nella naturale forza narrativa di Bolis e nel carattere estremo della sua esperienza, nell'assenza di qualsiasi intento celebrativo. Qui non c'è alcun destino storico di popolo, alcun collettivo a cui attingere energie o in cui diluire la propria angoscia. C'è invece un uomo solo, chiuso nel carcere con i suoi pensieri e i suoi tormenti, unica risorsa il dialogo interiore. E unica fede: gli imperativi morali da cui far dipendere i comportamenti e le scelte politiche.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434215

Appendice

Quel giovanottone in camice bianco con la faccia da boxeur

Il mio granello di sabbia si conclude la mattina del 18 aprile 1945, quando entrano in scena i partigiani venuti a liberare Luciano Bolis. Uno di questi, Giovanni Sissa, era mio padre. Mi aveva raccontato di quell’azione in uno dei rari momenti in cui mi parlò della Resistenza. Ciò che mancava al suo racconto ho cercato di ricostruirlo attraverso una ricerca documentale.
L’azione – mi diceva – non poteva piú essere procrastinata: la ferocia di fascisti e nazisti, proprio perché prossimi alla capitolazione finale, era massima e certamente non avrebbero risparmiato un elemento importante della Resistenza quale Bolis. Le formazioni della Resistenza in città operavano in totale clandestinità, i rischi erano enormi poiché la custodia del prigioniero era serrata. Analoghi precedenti tentativi di liberare altri detenuti politici avevano mostrato come ogni piccolo errore poteva essere tragicamente fatale. Il colpo di mano andava pianificato in ogni dettaglio, secondo esigenze cospirative che imponevano ai diversi partecipanti di conoscere solo il minimo indispensabile: infiltrati, spie e delatori avevano duramente colpito la Resistenza genovese.
Il giorno precedente all’azione i partigiani rubarono un furgone di uno zuccherificio e lo nascosero in un garage (credo nel quartiere di San Fruttuoso, che mio padre conosceva bene perché abitava in zona), situato vicino all’Ospedale San Martino di Genova. Durante la notte lo dipinsero di bianco con una croce rossa, camuffandolo da ambulanza. E infatti nel telegramma del Capo della Provincia di Genova al ministero dell’Interno della Rsi sull’evasione del «detenuto Colombo» si parlerà di «individui sconosciuti penetrati Ospedale San Martino at bordo autoambulanza con stemma locale municipio». Una trovata geniale. A bordo, tra l’altro, vi erano uomini con la divisa delle brigate nere – particolare che rendeva ancora piú difficile riconoscere il trucco. Venne coinvolto anche un altro automezzo: il rapporto Comando Provinciale Gnr alla Prefettura Repubblicana di Genova citerà infatti «un’autovettura dell’igiene municipale con circa sei sconosciuti, due dei quali indossanti una cappa bianca da medico e gli altri in divisa delle brigate nere». Molti partecipanti dunque, oltre alle due basiste interne all’ospedale, la dottoressa Ida de Guidi e l’infermiera Ines Minuz.
Fu quindi un’azione audace, organizzata meticolosamente, con un impiego di mezzi e persone ingente, in rapporto alle esigue risorse delle forze resistenziali cittadine del periodo, che richiese una collaborazione perfetta fra Giustizia e Libertà e comunisti: proprio tale collaborazione ne rappresenta la caratteristica peculiare.
Con queste parole, nella relazione del 1946 al comando militare per i riconoscimenti ai partigiani, mio padre riassunse gli elementi essenziali dell’azione:
[…] partecipando alla organizzazione della Brigata, comandai la spedizione all’Ospedale di S. Martino, per la liberazione di Luciano Bolis («Fabio»), con esito favorevole. Azione avvenuta con altri cinque elementi delle Brigate G.L. e delle SAP comuniste.
Per comprendere meglio il contesto e il ruolo di mio padre, vale la pena fare un passo indietro. Giovanni Sissa (detto John) nacque a Genova nel 1909. Prima della guerra fu, oltre che un noto sportivo nel mondo del rugby e del pugilato universitario, un antifascista. Laureato in chimica, entrò alla Siac (Società italiana acciaierie Cornigliano) nel 1934, dopo il corso da ufficiale di complemento di artiglieria. Nell’ottobre del ’39 la sua vita professionale sembrò decollare: era stato ammesso alle carriere dirigenziali all’Iri. Tuttavia, in quei mesi di atmosfera prebellica, due squadristi che lavoravano nella sua azienda lo avevano ascoltato mentre diceva ad altri colleghi che l’Esercito italiano era armato male, che le forniture militari erano scadenti. Poco tempo prima che partisse per l’Iri a Roma le due spie lo denunciarono e l’accusa di «disfattismo» in un’azienda come la sua, soggetta alla disciplina di produzione bellica, avrebbe comportato il licenziamento e il confino. Destino volle, però, che in quei giorni la squadra di rugby del «Guf Genova», in cui mio padre giocava come capitano, avesse bisogno di lui. L’allenatore si adoperò cosí tanto per far sospendere il procedimento – ai fini del campionato – che mio padre non partí per il confino. Ma quella denuncia gli precluse per sempre la carriera a Roma all’Iri.
All’entrata in guerra dell’Italia venne inviato in Africa del Nord, dove rimase per due anni. In una mappa di El Alamein dell’Afrika Korps, ritrovata casualmente fra i suoi documenti molto dopo la sua morte, ho notato il nome di un punto di osservazione militare che durante la Resistenza scelse come suo primo nome di battaglia: Minareti.
Rientrato in Italia fortunosamente vivo su una nave ospedale militare per aver contratto la malattia amebica, l’8 settembre ’43 era in caserma a Trento. Riuscito a fuggire, rientrò a Genova dove, oltre al lavoro presso lo stabilimento Siac, riprese i contatti con gli elementi antifascisti di Giustizia e Libertà, piú anziani di lui e che considerava suoi riferimenti politici: Eros Lanfranco, Giuseppe Bottaro, Renato Negri. Sin dalla loro fondazione, nel giugno del 1944, è Capo di Stato Maggiore delle Sap genovesi. Quando nei primi mesi del ’44 vennero catturati i suoi riferimenti organizzativi in Giustizia e Libertà, proseguí l’azione resistenziale con alcuni operai comunisti della sua azienda, in squadre di punta, partecipando alla raccolta di armi presso lo stabilimento e a varie azioni armate. Fra queste vi fu il tentativo fallito di liberazione di un partigiano ricoverato proprio all’Ospedale San Martino, a seguito di cui mio padre venne identificato dall’ufficio politico della questura. Riuscí a sfuggire alla cattura grazie al messaggio, scritto su una cartina da sigaretta, che un detenuto politico gli aveva fatto pervenire dal carcere di Marassi: «Minareti, ti cercano vivo o morto».
Riparò nell’Oltrepò Pavese; a inizio ’45 poté tornare a Genova, cambiò nome di battaglia da «Minareti» in «Franzi» e riprese la sua attività nelle formazioni Giustizia e Libertà, nel comando delle Brigate di città, dove organizzò la sua azione piú clamorosa. Nelle successive giornate dell’insurrezione cittadina, che consegnerà agli alleati Genova liberata, mio padre sarà capo di Stato Maggiore del Comando Piazza.
Liberare Bolis richiedeva uomini, automezzi, divise, armi, informazioni, esperienza. Chi avrebbe condotto l’azione doveva riunire in sé molte caratteristiche e soprattutto doveva essere considerato affidabile sia da chi organizzava sia da chi eseguiva l’azione.
Le formazioni di Giustizia e Libertà a Genova erano state decimate dalla cattura dei membri principali e il colpo di mano sarebbe stato impossibile senza l’aiuto anche di altre formazioni. Minareti-Franzi aveva già collaborato con i comunisti durante la Resistenza e godeva (ricambiandola) della loro stima e fiducia, cosa per nulla scontata. Si offrí volontario e l’azione riuscí, senza spargimento di sangue.
I «due pezzi di giovanottoni in camice bianco, occhi truci e lineamenti da boxeur» sono dunque Giovanni Sissa e Stefano Zaino. Non erano proprio cosí giovani; mio padre aveva 35 anni, Stefano 40, chi era invece di dieci anni piú giovane era proprio Bolis.
In un promemoria di mio padre trovai, sempre molto dopo la sua morte, altri dettagli: «All’organizzazione del colpo presero parte Gigi, Negrini, Alberto e Silvio, con il contributo di altri membri delle formazioni comuniste e di Gl». Negrini è Giuseppe Ferrari, Alberto è Gino Dani, Gigi è Rocco Barbera. Fu mio padre a testimoniare alla Commissione militare per i riconoscimenti partigiani che a suo fianco nell’azione c’era Stefano Zaino.
Dopo la fine della guerra mio padre avrebbe dovuto ricoprire una carica importante, come anche Giuseppe Ferrari, ma il Partito d’Azione scelse – lo fece solo a Genova – di rinunciare alle cariche cittadine come segno di protesta contro la ripartizione di esse fra i partiti politici del Cln. Complice anche a livello nazionale la rapida caduta del governo Parri, il gruppo di eroi resistenziali di Giustizia e Libertà che avevano liberato Bolis scomparve cosí in un attimo dalla scena politica della città, senza che se ne tenesse traccia. Tornarono alle loro professioni e vite prebelliche, senza riconoscimenti o con riconoscimenti molto tardivi. A mio padre fu assegnata la medaglia d’argento al valor militare per la liberazione di Bolis nel 1978 dal presidente Sandro Pertini, a Stefano Zaino nel 1981. Alla De Guidi e alla Minuz mai.
Nei libri sulla Resistenza pubblicati subito dopo la fine della guerra l’azione viene sempre descritta con grande enfasi ma senza i nomi dei partecipanti. Era lo stile di Giustizia e Libertà: asciutto, riservato, perfettamente consono alle esigenze cospirative, scevro da retorica e autocelebrazione.
Quegli eroi silenziosi non si frequentarono abitualmente dopo la guerra; mantennero, però, un contatto discreto e costante. Sempre al corrente dello stato di salute dell’uno e dell’altro, pronti a sostenersi in caso di bisogno, erano piú che amici. Nel 1985, in occasione della morte di mio padre, conobbi alcuni di loro, tra cui la dottoressa De Guidi, mentre Luciano Bolis l’avevo incontrato a Genova poco tempo prima.
I racconti che mio padre mi fece, quando pensava (sopravvalutandomi) che fossi in grado di comprendere, mi hanno guidato, moltissimi anni dopo, in una ricerca negli Archivi di Stato che altrimenti non avrei mai intrapreso. Oggi, divenute accessibili le fonti primarie su quel periodo, mi è stato possibile ricomporre, almeno in parte, un mosaico complesso ricoperto dalla polvere del tempo. Quel giovanottone in camice bianco occhi truci e faccia da boxeur era un uomo buono, generoso, simpatico. Ho ritrovato a volte, nei documenti dell’epoca, una sottile traccia del filo che unisce i suoi ricordi. Il mio granello di sabbia è raccontarlo.
GIOVANNA SISSA
Gennaio 2020.

Ines Minuz, mia madre

Nella liberazione di mio padre, Luciano Bolis, due protagoniste femminili emergono dall’interno dell’ospedale in cui era ricoverato, dopo le torture subite: Ida De Guidi e Ines Minuz. Sono figure chiave in tutta la vicenda, senza le quali mio padre non sarebbe mai sopravvissuto. Svolgono ruoli diversi – una è medico e l’altra infermiera; una è legata da tempo alla Resistenza, mentre l’altra, pur antifascista, soltanto da poco.
Ines Minuz era mia madre. Di lei mio padre nel libro parla come di un angelo che si materializza nel momento piú buio della sua vita, che gli trasmette quel calore umano che pian piano scioglie il suo desiderio di morire per non soffrire piú e per non rischiare di tradire i compagni. Ines sarà la compagna di Luciano per la vita e questo è noto. Ma di lei in prima persona – non come compagna di Luciano Bolis – non si sa nulla. Anche perché la storia non l’ha premiata con riconoscimenti al valore per i rischi affrontati, il coraggio dimostrato in condizioni estreme – sorte analoga peraltro a quella della dottoressa De Guidi.
Mia madre era nata in un paesino della pianura veneta, nel 1910, da una famiglia umile ma dignitosa, e cattolica. Il Veneto era allora una regione poverissima e molti emigravano in città industriali, come Genova – fu il caso di Ines –, come anche in Sud America e in Nuova Zelanda. Mia madre non aveva titoli di studio elevati poiché aveva iniziato a lavorare da giovanissima. Era, ed è sempre stata, una donna generosa, attenta alle esigenze delle persone di cui amava prendersi cura. Era la primogenita di una famiglia dove regnavano l’amore e il senso del dovere; orfana di padre – morto di stenti, prigioniero in Boemia, durante la Prima guerra mondiale – aveva due fratelli piú piccoli e sentí subito il dovere di aiutare sua madre.
Aiutò la famiglia lavorando in filanda sin dall’età di undici anni. Era un lavoro faticoso, di cui non si lamentò mai (consisteva nel lavare i bozzoli di bachi da seta in tini di acqua bollente). Nonostante questo era una persona allegra, amava la musica e le piaceva cantare. Ha potuto però farlo solo raramente, in particolare nel breve periodo trascorso dalle suore, durante la sua adolescenza.
Successivamente, nel suo lavoro d’infermiera a Genova, avviene l’incontro con Luciano che determinerà il suo futuro. Come infermiera, in quei momenti cosí difficili, nonostante le ristrettezze economiche e le incertezze e tensioni del periodo bellico, fu sempre particolarmente dedita ai pazienti, molto provati, e di grande sostegno per i medici del suo reparto.
Il rapporto con mio padre – una figura importante, anche nel dopoguerra, del mondo intellettuale e politico europeo – è stato al centro della sua vita. Ne è stata felice, ma credo anche che le abbia richiesto molta fatica e molto impegno, in periodi storici in cui il salto di classe di una donna a seguito del matrimonio non era né scontato né semplice. E soprattutto in un ambito intellettuale tanto rigoroso e severo quale quello della mia famiglia paterna.
Ricordo, in tanti momenti della mia infanzia, la sua gentilezza e il modo lieve che aveva nel prendersi cura delle persone, di me, bambina vivace o adolescente critica, e di mio padre, esigente ed esuberante, a cui spesso il sostegno invisibile, dietro alle quinte, di mia madre, fu fondamentale. So che mio padre – che era stato u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Giovanni De Luna
  4. Il mio granello di sabbia
  5. Nota dell’autore
  6. Capitolo primo
  7. Capitolo secondo
  8. Capitolo terzo
  9. Capitolo quarto
  10. Capitolo quinto
  11. Capitolo sesto
  12. Capitolo settimo
  13. Capitolo ottavo
  14. Appendice
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Copyright