Autobiografia erotica di Aristide Gambía
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Autobiografia erotica di Aristide Gambía

  1. 464 pagine
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Autobiografia erotica di Aristide Gambía

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Aristide Gambía ha 58 anni, un lavoro interessante, tre matrimoni falliti, quattro figli, una vita sessuale intensa. Un giorno riceve una lettera da parte di una donna con cui ha avuto una rapida avventura in gioventú: da quel ricordo sfuocato nasce in entrambi una voglia di raccontare e raccontarsi che è un gioco impudico e molto serio. A ogni appuntamento le loro memorie debordano, inseguendo i dettagli della trepidazione di allora, e il linguaggio si fa sempre piú esplicito, osceno, anche grazie al dialetto. Sono due persone mature, che non provano niente l'una per l'altra, che si appassionano al puro e semplice progetto di restituirsi con le parole l'esperienza erotica di un'intera vita, facendo entrare in corto circuito il tempo in cui quasi tutto doveva ancora accadere e quello in cui quasi tutto ormai è accaduto.
Ma si tratta davvero soltanto di un gioco?
Ogni esperienza erotica di Gambía è una balaustra affacciata sulle fantasie maschili e le pratiche sessuali di un'epoca. E se ci si sporge, quel concentrato di vita smuove i ricordi del lettore stesso, riannoda i fili tra scampoli distanti di vita che si urtano e si integrano, come nella letteratura. Ci accorgiamo leggendo che il sesso contiene ed esalta la nostra relazione con gli altri, con il tempo, con noi stessi. È un laboratorio di esperienza e d'immaginazione, un serbatoio di parole, un'inesauribile fonte di vitalità, un autentico enigma. Un angolo di noi che dice tutto.
Domenico Starnone scrive un libro audace, nel linguaggio ma soprattutto negli obiettivi. Raccontare la vita di un uomo tutta dal versante del piacere, ripercorrendo le tappe di un lento, forse mai terminato apprendistato che attraversa la seconda metà del Novecento. E raccontare così lo stupore, il senso dell'infrazione e dello sconfinamento di fronte al mistero del desiderio, maschile ma anche femminile. Desiderio riottoso, che non si lascia mai davvero disciplinare. *** « Autobiografia erotica di Aristide Gambía, appare un'autentica sorpresa: all'altezza del meglio (Svevo, Pirandello, Berto) dei nostri ultimi 100 anni di letteratura. Resterà. E non solo per il tono e il timbro originali del romanzo, per la capacità di narrare che ci conquista da subito, per l'ingegno di una costruzione a sorpresa, ma altresì per la scelta di un argomento, quello erotico, che nessun autore colto, in Italia, ha affrontato, nel Novecento e oltre, con tanta esplicitezza, costeggiando, senza mai oltrepassarlo, il limite dell'osceno. Reso arte dalla commistione di ironia, scavo nel profondo di sé, sfrontatezza e, per contro, pudore». Giovanni Pacchiano, «il Fatto Quotidiano»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410578
Parte seconda

La bella compagnia delle donne

Capitolo primo

1.

Pochi mesi prima di scoprire che era gravemente ammalato Aristide Gambia, prossimo ai settant’anni, in pensione, trascorse tre giorni di sereno abbandono in un albergo di Sorrento.
Era uno dei relatori a un convegno sull’editoria che riuniva esperti e operatori del settore provenienti da tutto il mondo, e l’importanza dell’evento lo indusse a lavorare per settimane alla stesura della sua relazione. Ma con sorpresa, con piacere, si accorse presto che, pur mettendoci la solita cura, l’intervento gli veniva senza la smania di mostrarsi intelligente che aveva avuto fin da ragazzino, senza l’ossessione di risultare il migliore che era stata il tormento della sua vita lavorativa. Questo lo mise di buonumore, tanto che fece il viaggio da Roma a Napoli, da Napoli a Sorrento, con lo stato d’animo di chi si prende finalmente una vacanza.
Arrivò in albergo nel primo pomeriggio, gli assegnarono una stanza che affacciava sul mare, trascinò subito una pesante poltrona sul terrazzino. Lí si perse fino a ora di cena negli odori, nelle voci lontane, nelle strida, nei mutamenti di luce e colore di un autunno tiepido. A un certo punto si assopí o, piú probabilmente, si dimenticò di sé come non gli succedeva quasi mai. Quando ormai il sole era tramontato e arrivava dal mare un’aria violacea, lo riscosse un rumore di ghiaia e di foglie accartocciate. Guardò nel giardino e vide una ragazza bruna in jeans e pullover blu che si aggirava per i vialetti. La vide muoversi in un residuo di luce e si accorse che parlava tra sé e sé con un salmodiare fitto senza tono. Ipotizzò che parlasse al cellulare servendosi di un auricolare e gli ci volle un poco per capire che invece stava ripassando qualcosa a mezza bocca, spiando ogni tanto sui pochi fogli che aveva nella destra come fanno gli studenti prima di essere interrogati. Ne osservò con simpatia certi gesti appena accennati come se si rivolgesse a un pubblico, immaginò che si stesse preparando per un esame o per qualche colloquio di lavoro. Poi si alzò e quasi in punta di piedi lasciò il terrazzino, si preparò per andare a cena.
Nella hall trovò la piccola folla dei partecipanti al convegno. Strinse mani di conoscenti, fu presentato a persone i cui cognomi gli erano noti per i libri buoni e meno buoni che avevano scritto, si avviò verso il ristorante chiacchierando con una signora che insegnava a Zurigo. Fu messo al tavolo delle personalità di maggiore spicco, tutti suoi coetanei se non piú vecchi, e parlò poco, ascoltò molto, mangiò quasi niente per timore di digerire male e passare la notte sveglio. Poiché la sua era una delle tre relazioni che il mattino dopo avrebbero dato il via ai lavori, si avvalse di quella scusa per non fare tardi e poco prima delle ventitre annunciò che era piuttosto stanco. Un quarto d’ora dopo fece per lasciare la sala, ma fu bloccato da quattro persone un po’ brille, tre uomini e una donna, tutti francesi, che anni prima aveva incontrato a un convegno a Nancy. Mentre parlava con loro di sciocchezze vide, seduta a un tavolo, di mezzo profilo, una donna che gli sembrò di conoscere e si attardò coi francesi solo per continuare a guardarla. Non era di forme piene, non aveva lineamenti regolari, non c’era in lei niente di studiato per catturare lo sguardo. Tuttavia ne fu molto preso. Muoveva le mani con eleganza. Aveva occhi nerissimi grandi e lunghi. I polsi erano fragili. Dal vestito scuro, corto, sgusciavano gambe snelle che, prima di sparire sotto il tavolo, si mostravano fino alle ginocchia. Gambia ebbe l’impressione, lí per lí, che gli piacesse cosí tanto perché aveva qualche tratto delle figure femminili della sua infanzia, una nerezza splendente dei capelli e degli occhi. Ma un minuto prima di uscire dalla sala riconobbe nella donna la ragazza che aveva visto dall’alto, nei vialetti del giardino. Era sicuramente lei e se ne stupí, se ne compiacque. Guardandola dal terrazzino all’imbrunire gli era sembrata una normale studentessa che deve affrontare una prova importante. Adesso, dalla soglia del ristorante, gli parve una trentenne maliosa che sa controllare sempre, in ogni circostanza, ogni gesto ogni pensiero ogni tono con naturalezza.
Una volta in camera si preparò per la notte. Trovò il letto comodo, il cuscino adeguato. Pensò alla donna con desiderio e sentí senza malinconie che non era lo stesso desiderio che fino a una decina d’anni prima lo avrebbe spinto a rivestirsi, tornare di sotto, trovare il modo di parlarle. Era un desiderio diverso che ormai aveva sostituito il primo, una sorta di consolazione dello sguardo, una commemorazione quieta della presenza delle donne nella sua vita.

2.

Spense la luce, la persona del giardino e del ristorante si scontornò con un debordare fievole, la perse, riapparve sformata da altre confuse figure. Pensò senza un nesso evidente a se stesso bambino, sdraiato sul pavimento davanti alla porta del cesso, a Napoli, nell’appartamento piccolo e povero che affacciava sulla campagna. Aspettavo, si ricordò abbandonandosi a immagini lente, che mia madre passasse. Il passaggio era stretto, e che lo volesse o no doveva scavalcarmi. Anni Quaranta di certo. Gonna a campana forse, parecchio sotto il ginocchio. Peli sulle caviglie forti e nude, ciabatte. Adesso risento nella schiena, alla nuca, il gelo delle mattonelle. Ho nel naso un odore domestico che arriva dalla porta aperta del cesso. Mia madre passando dice: Ari, che fai sempre per terra, il pavimento è freddo, ti viene il catarro bronchiale. Era una donna di buon carattere, me la ricordo spesso sofferente ma mai arrabbiata. Mentre mi scavalca sento l’aria smossa, il soffio del passaggio. Le vedo le cosce, mi piace il loro movimento agile, sono felice di spiare per un attimo il biancore delle mutande. Rido molto quando passa. Lei pure ride, chiude la porta, aspetto che tiri lo scarico e riapra e ripassi insieme all’onda degli odori. Quanti anni avevo, quattro, cinque. Lei ne aveva venti di piú, si chiamava Margherita. Allora non sapevo che era una donna giovane, forse non sapevo nemmeno che era una donna.
Una volta che lui aveva detto chissà quale frase sbagliata, una vecchia zia che faceva la merciaia in fondo a via Taddeo da Sessa lo aveva rimproverato ammonendolo: Aristide, la mamma non è femmina. Gambia riaccese la luce, voleva segnarsi quella frase. Si alzò, cercò in valigia il quaderno degli appunti. La mamma non è femmina. Aveva preso da anni l’abitudine di annotare senza alcun ordine frasi come quella, movimenti simili a quel passo largo di sua madre, vicende di sesso della sua vita. Si rimise a letto, inforcò gli occhiali, ne scrisse. Gli piaceva quel tipo di scrittura senza obiettivi lavorativi, anzi senza alcun obiettivo se non il dialogo con ombre di donna. Sonno non ne aveva, continuò. La mamma non è femmina. In una famiglia tutta di maschi l’altro sesso si vedeva poco o niente. In quegli stessi anni veniva a casa nostra una signora appena piú grande di mia madre, nota in famiglia come la signora Tiptop. Arrivava sudata e festosa, mi afferrava, gridava Ari, e mi tirava dentro una sua nuvola di profumi che le veniva dalle profondità del corpo. Mi baciava col rossetto e poi mi rimetteva giú, lí dove m’aveva trovato entrando, cioè sul pavimento a giocare proprio accanto al tavolo della cucina tutto ingombro di spilli, metro, ditale, gesso, stoffe tagliate seguendo i modelli di carta. La signora Tiptop parlava con mia madre in continuazione. Sfoghi di donne ancora un po’ ragazze, confidenze, molti dolori. Peccato che non mi ricordo né cosa diceva né il suono della sua voce: eppure non c’era altro che si intromettesse, nemmeno la radio, nemmeno lo squillo del telefono, al massimo il richiamo di un venditore ambulante – vruoccolefriarielli – e gli uccelli tra i meli o i ciliegi o non so che alberi della campagna di fronte. In testa m’è rimasto soprattutto il movimento energico del suo corpo nervoso. La donna, sempre parlando, volgeva la schiena al tavolo, poggiava le palme sull’orlo e con un elegante teso arco del busto, senza sforzo si tirava su e sedeva sul bordo. La gonna le andava un po’ sopra le ginocchia, ma lei seguitava a parlare senza abbassarsela e intanto mandava le caviglie avanti e indietro in un dondolio molle, di tutto riposo, che faceva cigolare – zee zee – un poco poco il tavolo. Di lei, del suo corpo intero, sono rimaste soltanto le caviglie, e i piedi nei sandali. Per di piú di piedi Gambia ne ricordava nitidamente uno soltanto, forse perché tratteneva senza sforzo la calzatura che s’era in parte sfilata. Era un piede piccolo ma pieno, con una bella linea che scivolava giú dalla caviglia, curvava intorno al calcagno e si levava a onda sotto la pianta. Oscillava insieme al sandalo che era appeso alle dita, dita piccole con unghie rosso sangue. Ari si abbandonava a quel movimento e andava con lo sguardo dalla punta delle dita su per la caviglia fino al ginocchio, al principio di coscia segnata dai tendini.
Il tempo passava cosí. Le pentole bollivano sui fornelli, si sentiva il rumore delle forbici, cric cric contro la stoffa. Gambia si abbandonò a quei suoni, alle immagini, con una specie di sospensione eccitata, con un piacere lieve ma diffuso fatto di calura, cibo e stoffa nuova. Scriveva in fretta. Cambiò posizione una o due volte ma senza nervosismi, gli piaceva il rotolio del tempo, il salto brusco degli anni e dei luoghi. Afferrava un pensiero, guardava le immagini che insorgevano, lasciava che esse, a volte piene di rumori e di voci, si impadronissero di lui fino al punto da fargli dimenticare il quaderno, la penna nella mano, se stesso. Ma poi, già mentre sua mamma lo scavalcava e tornava a scavalcarlo e lui andava smarrendosi in quel movimento continuo, uno scricchiolio lo tirava via dal cesso della casa dell’infanzia e lo riportava nella stanza di Sorrento; già mentre la signora Tiptop faceva oscillare ipnoticamente piede e sandalo togliendogli coscienza, la coscienza tornava vigile con uno strappo, si riattivava, riesumava altri momenti.
Bolle colorate che filavano via sul pelo dell’acqua, bisognava essere lesti. Era il giorno dei Morti, alla fine degli anni Quaranta, tutta la città andava a far visita ai defunti. La mia numerosissima famiglia – padre, madre, fratelli, il fratello di mia madre, mia nonna, le sue sorelle, i loro mariti, i loro figli miei coetanei ma anche piú grandi – saliva a piedi su per la Doganella fino al cimitero del Pianto. Lungo la strada mio padre ci comprava lo zucchero filato, i bomboloni rosa o azzurri o gialli, taralli coperti di bianco che erano le ossa dei morti. Il cimitero aveva un odore di muffa che si mescolava a quello dei fiori e dello zucchero. Mia madre guardava la foto di suo padre nell’ovale del loculo con curiosità: era un ragazzo coi baffetti neri, piú giovane di lei che allora aveva, se non sbaglio i calcoli, ventisette anni. Poi andava a prendere acqua alla fontanella e aiutava la madre, mia nonna, a cambiare i fiori nei vasi, ad accendere i lumini. Ma alla fine della mattinata ecco che il cielo si copre di nuvole, un po’ di vento smuove i fiori delle aiuole. Zio Tonino, il fratello di mia madre, giacché il cielo è diventato assai nero, spinge tutti i parenti per un sentiero che conosce lui solo e che dal cimitero – giura – porta piú velocemente a Napoli. La nostra grande famiglia lascia le tombe e imbocca una stradina ripida, gradini di pietra, polvere e frasche. Mio padre non è contento della strada, grida al cognato: Toní, strunz, guarda dove cazzo ci hai portato. Tutti temono il temporale, si discute se certi bagliori e scoppi lontani sono tuoni o bòtte della festa, ma salvo mio padre, che è ansioso e basta, si viene giú con una certa allegria respirando un odore intenso di terra, erba e pioggia in arrivo. A un certo punto io comincio a correre inseguito da mio fratello, dai cugini, dalle voci di padri, madri, zii che gridano nun curríte che cadete e vi fate male. Il vento soffia un po’ piú forte. C’è un profumo di mentuccia e di fieno secco e di vacche. Solo il cielo è autunnale, per il resto pare una scena di tarda estate. Vado cosí veloce da lasciarmi alle spalle tutti quanti. Sento le grida, lo scalpiccio degli adulti, ma alla prima curva già non li vedo piú, e alla seconda c’è silenzio, e alla terza rallento, mi fermo. In un angolo, contro un muro di tufo, ci sono un soldato con la divisa e una donna tutta vestita di bianco come l’inserviente di un ospedale o la cameriera di una casa di signori. Il soldato si gira di scatto. La sua faccia olivastra, l’intero corpo mi sembrano la copertina scura di un quaderno che il vento solleva all’improvviso mostrando le pagine bianche. È un attimo. Il movimento brusco del giovane mi rivela molte cose contemporaneamente. La donna, di guance paonazze come un tramonto estivo, ha la bocca aperta, gli occhi sbarrati, pare sofferenza, pare paura, pare sorpresa, pare contentezza, un turbinio di sentimenti che si graffiavano l’uno con l’altro. Il vestito, che è arrotolato sullo stomaco, comincia a ricadere giú come un sipario. Dalla pancia nuda, grassa, bianchissima ma con una macchia nera, il soldato le sfila di colpo un cazzo rosso, lucido di liquidi, oscillante sullo sfondo delle gambe di lei, che sono divaricate quel tanto permesso dalle mutande larghe, abbassate ma poco, sopra le ginocchia.
So tutto di ciò che stavano facendo. Conosco anche le parole per dirlo – stévano chiavànno, stévano futtènno – ma è un sapere senza sapere, una scienza sufficiente solo per sentire la malizia, la colpa di guardare una scena proibita, la paura di una punizione, l’allegria di poter raccontare ogni cosa ai cugini tra un momento o due. Ma raccontare cosa, poi. Che la donna aveva la faccia della gioia e del tormento? Che il soldato aveva le orecchie rosse ma anche gli occhi bianchi, come se gli fosse caduto il tarallo di zucchero un attimo prima di metterselo in bocca?

3.

Gambia ritorna da quelle immagini ancora piú sveglio di quando gli sono venute in mente. Nel corso della sua vita – ci ha pensato, ripensato – ha provato curiosità, nostalgia, interesse per quel sapere non sapendo di quando è stato bambino. A seconda dei momenti ha aggiunto dettagli, ne ha tolti. Gli pare – ancora questa notte – che il cazzo del militare fosse come una spina estratta dalla parte nera della pancia della donna. Ha l’impressione, a volte, di avere davanti agli occhi non quel coso infiammato, oscillante nell’aria grigia prima del temporale, ma la punta di un pastello rosso Giotto, levata bruscamente dal foglio per non sbagliare il disegno. Posso metterci, dice a se stesso, tutte le metafore che voglio, tanto, cosa accadde realmente chi lo sa piú. Arrivò mio fratello, arrivarono i cugini. Risi con loro mentre il soldato e la donna si allontanavano in fretta per la discesa. Arrivò mio padre che mi tirò via dicendo ad alta voce: matuguardaddoannaveníachiavàstustrúnzecchéstatroia. Arrivò zio Tonino, il fratello di mia madre, che disse ai due scusate e corse via ridendo, inseguito da noi bambini. O per molti lunghi secondi non comparve nessuno, e io restai fermo, incerto sul da farsi, a guardare la donna in grande imbarazzo mentre la veste biancabianchissima le cadeva sulla punta delle scarpe e lei già faceva mosse goffe per tirarsi su le mutande manovrando sopra l’abito, mentre il soldato tra varie bestemmie chiudeva in fretta i calzoni, bottone dietro bottone.
Un anno o due piú tardi zio Tonino si sposò con una bella ragazza di nome Luisella. Dubito che sapessi di preciso cosa significasse sposarsi. Di chiaro c’era solo che zio Tonino e zia Luisella, dopo il matrimonio, poiché si volevano assai bene, si sarebbero sistemati dentro un letto e si sarebbero toccati di continuo, reciprocamente, in mezzo alle cosce. La chiesa, la cerimonia, che pure ci furono, non lasciarono nessuna traccia. Non mi ricordo la festa, non mi ricordo la torta, non mi ricordo i confetti, non mi ricordo i suoni, vale a dire l’orchestrina per i balli. Ricordo solo che a zio Tonino e a zia Luisella attribuii, nei giorni e nei mesi e negli anni seguenti, quel lungo maneggiarsi, strofinarsi, che mi spingeva a toccarmi il cosetto nei pantaloncini. Me li immaginavo spesso che facevano quelle cose segretissime, e mi piaceva sia che gliele facesse lei, sia che gliele facesse lui. Del resto tutti in un modo o in un altro parevano molto interessati a quel loro lavorio di sposi. Tempo dopo infatti, non so in quale occasione, la nostra sterminata famiglia si riuní di nuovo per festeggiarli. Si mangiò, si bevve, si rise. Si rise veramente tanto, si rise a bocca piena, specialmente quando mio padre chiedeva a Tonino: Luisella ’a stut’a cannéla, Luisella ’o fuma ’o sicàrio, e ridevo anch’io, risatelle piú che altro, perché appunto capivo senza capire, un modo molto bello di capire.
Dopo pranzo i grandi, sfiancati, ci ficcarono tutti in una stanza con gli scuri socchiusi, per la controra, ordinandoci di dormire o comunque di starcene nel massimo silenzio. Eravamo cinque o sei, non so quanti maschi e quante femmine, di età diverse. Ci mettemmo in un letto grande e facemmo per un po’ la lotta coi cuscini. Poi ci ficcammo sotto il lenzuolo per stare come in una ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Autobiografia erotica di Aristide Gambía
  4. Parte prima. Una vecchia amica di Ferrara
  5. Parte seconda. La bella compagnia delle donne
  6. Parte terza. Mia madre
  7. Parte quarta. Le irrintracciabili
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright