Vita mortale e immortale della bambina di Milano
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Vita mortale e immortale della bambina di Milano

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Vita mortale e immortale della bambina di Milano

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«Lei giocava a fare - mi sembrò - la ballerina di carigliòn, saltellando a braccia tese e dandosi ogni tanto a una piroetta. Quant'era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, audace nei saltelli, cosí esposta alla morte».Una bambina suadente, un duello, una nonna che possiede la chiave degli Inferi, l'esame di glottologia. Un racconto che incanta, la voce unica di uno dei piú grandi scrittori contemporanei. Immaginate un bambino sognatore, sempre affacciato alla finestra. La nonna sfaccenda in cucina, e ogni tanto butta un occhio a guardarlo. Lui invece fissa sedotto il balcone del palazzo di fronte, dove la bambina dai capelli neri danza la sua danza temeraria. Per un amore cosí, un ragazzino ardimentoso può spingersi a prodezze estreme, duelli all'ultimo sangue, addirittura a parlare l'italiano. Sarà la nonna - che per lui ha un'adorazione smisurata - a vegliare sulle sue millanterie, seduta nel cantuccio della cucina. Lei non ha dimestichezza con le parole, ma non difetta di fantasia. Quando, forte della sua lunga vedovanza, gli racconta della fossa dei morti, scolpisce immagini indelebili nella mente del nipote. Da bambini si può essere tutto. L'esploratore o il mozzo, il naufrago o «il caubboi», Ettore o Ulisse. Da bambini ci si può innamorare guardando il balcone tutto celeste del palazzo davanti, o credere di aver trovato la fossa dei morti proprio dietro l'aiuola del cortile, da dove si sentono salire inequivocabili tonfi sinistri. Un libro irresistibile, tagliente come le spade della fantasia nascoste sotto il letto, prezioso come un gioiello di famiglia, in cui la scoperta dell'amore e la scoperta della morte si inseguono segnando la fine dell'infanzia. O, chissà, prolungandola al punto che ci si attarda nei giochi e, come teme la nonna, non si cresce piú.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437582

1.

Tra gli otto e i nove anni mi proposi di trovare la fossa dei morti. Avevo appena imparato, nell’italiano della scuola, la favola di Orfeo che era andato a riprendersi la fidanzata Euridice, finita sottoterra a causa del morso di una serpe. Progettavo di fare lo stesso con una bambina che disgraziatamente mia fidanzata non era, ma che avrebbe potuto diventarlo se fossi riuscito a riportarla da sotto a sopra la terra, incantando scarafaggi, moffette, topi e toporagni. Il trucco era non girarsi mai a guardarla, cosa per me difficile ancor piú che per Orfeo, col quale sentivo di avere parecchie affinità. Ero poeta anch’io, ma in segreto, e componevo versi di grande sofferenza se mi capitava di non vedere, almeno una volta al giorno, la bambina; che però era facile da vedere, considerato che abitava nel palazzo proprio di fronte al mio, un edificio nuovissimo di un bel celeste.
La cosa era cominciata in marzo, una domenica. Le mie finestre si trovavano al terzo piano, la bambina aveva un grande balcone con parapetto di pietra al secondo. Io ero infelice per costituzione, la bambina sicuramente no. Da me non batteva mai il sole, dalla bambina, mi pareva, sempre. Sul suo balcone c’erano molti fiori colorati, sul mio davanzale niente, al massimo lo straccio grigio che mia nonna appendeva al ferro filato dopo aver lavato il pavimento. Quella domenica cominciai a guardare il balcone, i fiori e la felicità della bambina, che aveva capelli nerissimi come Lilít, la moglie indiana di Tex Willer, un caubboi dei fumetti che piaceva a mio zio e anche a me.
Lei giocava a fare – mi sembrò – la ballerina di carigliòn, saltellando a braccia tese e dandosi ogni tanto a una piroetta. Dall’interno di casa sua la mamma le gridava raccomandazioni garbate, tipo non sudare o, che so, vacci piano con le piroette, se no finisci contro i vetri della portafinestra e ti fai male. Lei rispondeva gentile: no mammina, sono brava, non ti preoccupare. Madre e figlia si parlavano come nei libri o alla radio, causandomi una specie di languore non per il senso delle parole, che da tempo ho dimenticato, ma per il loro suono incantatore, cosí diverso da quello di casa mia, dove si parlava soltanto dialetto.
Passai la mattinata alla finestra, morendo dalla voglia di buttar via me stesso e migrare tutto rifatto, bello, pulito, con dolci parole poetiche di sillabario, sul balcone là di sotto, dentro quelle voci e colori, e vivere per sempre con la bambina, e ogni tanto chiederle compíto: per favore, posso toccarti le trecce.
Senonché successe, a un certo punto, che lei si accorse di me e io subito per la vergogna mi ritrassi. La cosa non dovette piacerle. Smise il balletto, diede un’occhiata alla mia finestra, poi riprese a danzare con piú energia. E poiché io mi guardai bene dal tornare visibile, fece una cosa che mi lasciò senza fiato. Si tirò con una certa fatica sul parapetto, si mise in piedi e riprese a fare la ballerina muovendosi lungo la striscia stretta del davanzale.
Quant’era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, a braccia levate, audace nei saltelli, cosí esposta alla morte. Mi sporsi perché mi vedesse bene, pronto a gettarmi anch’io nel vuoto, se lei fosse caduta.

2.

Poiché il maestro Benagosti aveva detto a mia madre, solo l’anno prima, che ero destinato a grandi cose, mi sembrava che trovare la fossa dei morti e sollevarne il coperchio per scendere di sotto fosse un’impresa che potevo agevolmente permettermi. Gran parte delle informazioni che avevo su quella fossa pericolosa mi derivavano dalla nonna materna, la quale sapeva parecchie cose sull’oltretomba grazie a conoscenti, amici, consanguinei, tutti deceduti di recente per colpa delle bombe e delle battaglie di terra e di mare – senza contare che dialogava da sempre con suo marito, spazzato via dal mondo due anni dopo che s’erano sposati.
Con mia nonna c’era di buono che non mi sentivo mai in soggezione, innanzitutto perché mi voleva bene piú che ai suoi figli – mia madre e mio zio –, e poi perché in casa non aveva nessuna autorità, la trattavamo tutti come una serva stupida che doveva solo obbedire e faticare. Perciò le facevo senza timidezze mille domande su ogni cosa che mi passava per la testa. Dovevo essere cosí assillante che certe volte mi chiamava petrusinognemenèst, intendendo che ero come il prezzemolo, il prezzemolo fatto a pezzetti, quello verde scuro come le mosche d’estate, quando c’è sempre il rischio che, svolazzando tra i vapori, si bagnino le ali e finiscano nella pentola della minestra. Vatténn, diceva, chebbuóamé, petrusinognemenèst, sciò, sciò, sciò. Faceva il tono e il gesto del fastidio, ma rideva, ridevo anch’io, e in qualche caso la solleticavo ai fianchi, tanto che lei gridava: basta ca me fai piscià sotto, tenevuoí, vafammóccammàmmeta. Figuriamoci però se la lasciavo in pace. Ero quasi muto, allora, sempre per i fatti miei, buio dentro e fuori, a casa come a scuola. Parlavo senza freni solo con lei, che era dello stesso mio mutismo con chiunque: le parole se le teneva nel cervello, le usava al massimo con me.
La storia della fossa aveva cominciato a raccontarmela l’anno prima, sotto Natale, un giorno che mi sentivo triste e le avevo chiesto: commesefàammurí. Lei, che stava spennando la gallina appena uccisa con un gesto brusco e una smorfia disgustata, mi aveva risposto distrattamente: temiéttestisentèrrennúnrispíricchiú. Avevo chiesto: chiú? Aveva detto: chiú. Ma poi s’era preoccupata – credo perché aveva visto che mi ero steso veramente sul pavimento gelato, col rischio non di smettere di respirare, ma di prendermi il catarro bronchiale – e m’aveva chiamato – vienaccàbelloranònna – accanto a lei e alla gallina morta mezza immersa nell’acqua bollente. Che c’è, che succede, chi t’ha fatto dispiacere. Nisciuno. E allora perché vuomurí. Le avevo risposto che non volevo morire, volevo solo starmene un poco morto e poi alzarmi. Lei mi aveva spiegato che non si poteva stare morti solo un poco, a meno che non si fosse Gesú, risorto dopo tre giorni. La cosa migliore, mi aveva suggerito, era che restassi vivo sempre, senza distrarmi e finire per sbaglio sottoterra. Fu allora che, allo scopo di farmi capire che sottoterra non si stava bene, mi parlò per la prima volta della fossa dei morti.
La fossa, cominciò, ha un coperchio. Chistu cupiérchio – mi ricordo ancora oggi tutte le sue parole, una per una – è di marmo, e ha la serratura, la catena e il catenaccio, perché se uno non lo chiude come si deve, gli scheletri con ancora un po’ di carne addosso s’affollano tutti quanti per uscire, insieme alle zoccole che gli corrono sopra e sotto alle lenzuola gialle di sudore per il recente sparpetuo. Una volta sollevato il coperchio, bisogna subito chiuderselo in testa e scendere per una scala che non porta a un corridoio, a una camera ammobiliata o a un salone con lampadari di cristallo e cavalieri e dame e damigelle, ma a nuvole di terra e fulmini e saette e secchiate d’acqua puzzolente di carogna e ’nu viento – ’nu viento, guaglió – che è accussí forte ca raspa le muntagne e fa in cielo e in terra una farinata di polvere gialla come il tufo. Ai gemiti di vento e al truonare dei continui temporali, mi raccontava, bisogna aggiungere un martellío e scalpellío di morti coi sudari laceri, tutti màscoli, sorvegliati da angeli e angiole con gli occhi rossi e la veste viola, i lunghissimi capelli che schioccano al vento e ali come questa gallina, ma con penne color panzadicorvo, chiuse dietro la schiena o spiegate secondo la bisogna. Lavorano, i morti, a ridurre enormi blocchi di marmo e di granito in pietrame che si allunga fino al mare tutto cavalloni altissimi di mota e con creste di schiuma marcia, come quella che fanno le arance quando le spremi ma sono piene di vermi. Ahmaronnamía, quanti sono, i morti-maschi, tantissimi. Senza parlare delle morte-femmine, che stanno sempre in grande preoccupazione. Perché intorno trema ogni cosa per il vento forte – le montagne, il cielo con le nuvole di terra, l’acqua di fogna che piovendo obliqua si raccoglie nel mare sempre in tempesta – e di continuo qualcosa si crepa nel paesaggio, e anzi certe volte è proprio il paesaggio che si squarcia, e le nuvole vengono giú a pezzi e pure i cavalloni. Allora le morte-femmine, serrate nelle loro lenzuola dell’agonia, devono correre a cucire in fretta con ago e filo, o con macchine da cucire assai moderne, listelle di camoscio per rimettere insieme montagne, cielo e mare, mentre gli angeli fanno gli occhi ancora piú rossi per la rabbia gridando: che state facènn, a che cazzo pensate, strunz, zoccole, faticàte.
Ero sopraffatto da quell’accavallarsi di svolazzi e terremoti e maremoti, e sul momento stavo a sentire a bocca aperta. Poi mi rendevo conto che qua e là c’erano delle incongruenze. I resoconti di mia nonna non brillavano per precisione e bisognava mettere un po’ d’ordine, perché lei aveva fatto solo la seconda elementare mentre io stavo ormai in terza ed ero piú bravo. Perciò le imponevo di tornare per maggiore chiarezza sull’argomento e qualche volta le strappavo solo mezza frase, qualche volta racconti distesi e continuati. Poi le informazioni me le aggiustavo nella testa saldandole l’una all’altra con fantasie mie.
Ma restavo comunque pieno di dubbi. Dov’era il coperchio di marmo, nell’aiuola del cortile o fuori, uscendo a destra o uscendo a sinistra? Sollevavi il coperchio – va bene –, scendevi chissà quanti gradini, e a sorpresa, nel sottosuolo, trovavi tutta una veduta ampia, con cielo, acqua, vento, fulmini e saette; ma c’era là sotto la luce elettrica, c’era un interruttore? e se uno aveva bisogno di qualcosa, a chi si poteva rivolgere? Quando tallonavo mia nonna per avere sempre nuove informazioni, lei spesso pareva essersi dimenticata di tutto quello che mi aveva raccontato e dovevo essere io a ricordarglielo punto per punto. Una volta, a integrazione, mi parlò minutamente degli angeli con le penne nere che, secondo lei, erano mala gente e passavano il tempo a svolazzare nei vortici di polvere, insultando lavoratori e lavoratrici che scalpellavano e cucivano. Chi fatica, guaglió, non è mai cattivo – mi istruí –; è chi non fatica e s’ingrassa con la fatica degli altri che è nupiezzemmèrd; ah quanti piezzemmèrd ci stanno, ca si credono di scennere dalle coglie di Abramo e vogliono solo cumannà: fa’ questo, fa’ quello, subito. Suo marito, il nonno – che s’era fermato nel tempo a ventidue anni, due meno di lei, e là era rimasto per sempre: io ero l’unico bambino al mondo che aveva un nonno poco piú che ventenne, grandi baffi nerissimi, capelli pure neri, di mestiere fravecatóre –, non era uno che aleggiava sopra le impalcature dei palazzi per divertimento, o che ciondolava senza voglia di fabbricare. Suo marito aveva imparato l’arte indispensabile del fabbricare già a partire dall’età di otto anni ed era stato un muratore assai bravo. E un pomeriggio era caduto di sotto non per incompetenza ma per stanchezza, colpa degli sfaticati che lo facevano lavorare troppo. Si era sfracellato tutto, specialmente la bellissima faccia che assomigliava alla mia, e gli era uscito molto sangue dal naso e dalla bocca. Anche lui – mi aveva confidato in un’altra occasione – le faceva il solletico, glielo aveva fatto fino al giorno prima che morisse e se ne andasse a faticare per sempre nella fossa dei morti, lasciandola sola di qua, con due figli, una di due anni e uno che doveva nascere, senza un centesimo, a fare la persona che non conosceva mai un poco di pace e di tranquillità. Ma vien’accà, scazzamaurié, vieni vicino a nonna tua che ti vuole bene.
Mi chiamava spesso a quel modo: scazzamauriéll. Per lei ero come un diavolo fastidioso e benevolo, cacacazzo e figlientrocchia, che scacciava i bruttissimi sogni della notte e anche quelli altrettanto brutti dei brutti giorni. Gli scazzamaurielli, secondo lei, abitavano nella fossa dei morti, correvano e saltavano per il petraio strillando e ridendo e malmenandosi reciprocamente. Di piccola statura, ma robusti, raccoglievano le rascature del marmo e le schegge taglienti di granito in grandi ceste. Le sceglievano con cura tra quelle piatte e affilate, infuocandole solo col tocco delle dita grosse, e le jettavano alle fantasime e ai fantasmi sfiatati dai cadaveri, fumo e cenere di vecchi cattivi sentimenti che non volevano rassegnarsi a incenerire del tutto. A volte – aveva sussurrato di recente, un pomeriggio che era molto malinconica – gli scazzamaurielli riuscivano a passare sotto il coperchio della fossa, facendosi piccoli e sottili, e andavano in giro per Napoli, dentro le case dei viventi. Cacciavano via gli spettri piú aggressivi mettendo allegria. Cacciavano via anche i fantasmi di mia nonna, specie quelli che la spaventavano senza nessun rispetto, senza tener conto che era stanca, e la vita era passata a cucire migliaia di guanti di camoscio per le dame, e adesso era la serva di noi tutti, figlia, genero e nipoti, e l’unico che lei serviva e avrebbe sempre servito e riverito con grandissima gioia ero io.

3.

Devo dire, però, che piú che folletto scamazzaincubi, preferivo essere un poeta incantatore che sottrae le fidanzate alla fossa dei morti. Senonché sul momento non ce ne fu bisogno. La piccola ballerina in equilibrio sul davanzale, invece di cadere sfracellandosi di sotto come era successo a mio nonno, fece un salto elegante, atterrò nel balcone e sparí oltre i vetri della portafinestra mandandomi il cuore non in gola ma negli occhi ammaliati.
Cominciai, ad ogni modo, a preoccuparmi per lei. Avevo paura che se non era precipitata adesso, le sarebbe capitato in seguito, quindi il tempo per fare conoscenza stringeva. Cosí, aspettai che riapparisse sul balcone e quando successe alzai la mano per un saluto, ma lo feci appena appena, senza energia, per non sentirmi umiliato se non mi rispondeva.
Infatti non mi rispose né oggi né domani né dopodomani, o perché era obiettivamente difficile accorgersi del mio cenno o perché non mi voleva dare soddisfazione. Di conseguenza mi venne l’idea di sorvegliare il portone del suo palazzo. Speravo che la bambina uscisse da sola e volevo cogliere l’occasione per farci amicizia, parlare del piú e del meno in bell’italiano, poi dirle: lo sai che se cadi giú, muori?, mio nonno è morto cosí. Mi pareva necessario darle quell’informazione, in modo che potesse decidere in tutta consapevolezza se esporsi al pericolo oppure no.
Per giorni e giorni dedicai a quello scopo il paio d’ore che, dopo la scuola e dopo pranzo, prima di fare i compiti, trascorrevo per strada a giocare, a fare a botte con bambini ben piú selvatici di me, a impegnarmi in cose pericolose come le capriole tenendomi a certe sbarre di ferro. Ma lei non comparve mai, né sola, né con i genitori. Evidentemente aveva altri orari, oppure non ebbi fortuna.
Comunque non mi arresi, ero molto agitato in quel periodo. Avevo in testa parecchie parole e parecchie fantasie, e le une e le altre riguardavano la bambina. Non c’era una coerenza, i bambini secondo me non ce l’hanno, è una malattia che contraiamo crescendo. Volevo – mi ricordo – molte cose insieme. Volevo, per un colpo di fortuna, trovare il suo appartamento, al secondo piano, suonare e dire al padre o alla madre – meglio alla madre, i padri tuttora mi spaventano –, nella lingua dei libri che leggevo grazie al maestro Benagosti che me li prestava: la vostra amata figliuola, cara signora, balla meravigliosamente sul parapetto del balcone, ed è cosí bella che non riesco a dormire la notte al pensiero che muoia sul marciapiede cacciando sangue dal naso e dalla bocca come mio nonno muratore. Volevo, però, anche starmene alla finestra ad aspettare che la bambina tornasse a giocare sul balcone per mostrarle che io pure sapevo correre pericoli di morte muovendomi dalla finestra del cesso a quella della cucina, passo dietro passo senza mai guardare di sotto: un’impresa che avevo già compiuto due volte – visto che era facile, le finestrelle avevano il davanzale in comune – e se lei mi faceva un cenno di consenso, l’avrei ripetuta volentieri per la terza. Volevo infine, se mai fossi riuscito a parlarle, farle sapere – una parola tira l’altra – che mi ero innamorato della sua bella anima e che il mio amore sarebbe stato eterno e che, se proprio ci teneva a ballare sul davanzale e cadere giú, poi avrebbe potuto sicuramente contare su di me, sarei andato di persona a riprenderla nell’oltretomba, sen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Vita mortale e immortale della bambina di Milano
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. Il libro
  37. L’autore
  38. Dello stesso autore
  39. Copyright