L'allegria degli angoli
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L'allegria degli angoli

  1. 264 pagine
  2. Italian
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L'allegria degli angoli

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«Il futuro è nelle mani di Dio.Speriamo non lo lasci cadere».Lorenzo è un geometra, ma ha imparatoa proprie spese che di geometricoa questo mondo c'è veramente poco.Le rette parallele, nella realtà, finisconospesso per incontrarsi, e il quadratocostruito sull'ipotenusa - probabilmentein modo abusivo - non equivalemai alla somma dei quadrati costruitisui cateti.Vive con la madre, circondato da unpiccolo gruppo di amici - tra cui Massimo, pervaso da un'insana passione pergli articoli da bagno, e Fabio, detto «IlTranquillizzatore» per la sua capacitàdi confortare tutti con prevedibili magraditissime frasi di rito.Lorenzo è serenamente disperato, perchégli manca una cosa fondamentale: il lavoro. Cosí si piega a fare di tutto, persino la statua vivente in una piccolapiazza del centro. Trasformandosi damite geometra a faraone immobile, dalsuo angolo comincerà a vedere il mondo.Osserverà il microcosmo che gli sfiladavanti: turisti euforici, connazionaliannoiati e un cane bruttissimo, adesempio. E s'innamorerà - molto - diuna ragazza che non fa proprio per lui, d'altra parte «all'interno d'ogni amoredeve esserci un circuito stampato, fragilee complicato, che lo rende unico eincomprensibile». Piloterà nell'ombra qualche vita che gli è cara, nel frattempo.Ma soprattutto, alla fine, lui, propriolui, messo all'angolo e spalle al muro, farà un gesto imprevisto che ha laforza di un'esplosione: uno di quei gestiche possono inaugurare una nuovavita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858417348

1.

Ieri sera con Giorgio abbiamo fatto il punto.
Eravamo seduti nella sua cucina, avvolti dalle mattonelle grigie. Ha insistito perché assaggiassi un po’ delle melanzane avanzate dalla cena, fredde come la prima ragazza che ho baciato, un’estate di molti anni fa. Speravo che anche per lei fosse un debutto, che è poi l’ottusa aspettativa di ogni uomo. Invece la mia Stefania, cosí si chiamava, aveva già un buon chilometraggio, unito purtroppo a una scarsa vocazione. Scoprii che i ragazzi piú grandi, in spiaggia, l’avevano soprannominata «Latino»: una lingua morta.
Dopo un’ora, comunque, io e Giorgio eravamo pressoché d’accordo su tutto. In sostanza, non serviamo neanche come ripieno per i tortellini. Lui non fa il barista, io non faccio il geometra. La sua disoccupazione, che Giorgio – spinto dalla clemenza verso se stesso – chiama «inattività», dura da piú tempo della mia, quasi un anno e mezzo. Improvvisamente in questo Paese non serve piú gente disposta a macchiare caffè e farcire tramezzini. Per fortuna sua moglie Stella lavora, è impiegata in una compagnia di assicurazioni. Lei cerca di non fargli pesare la situazione, controlla con cura ogni parola, leviga ogni gesto, quando rincasa lo saluta come se anche lui fosse appena rientrato dal lavoro, gli chiede com’è andata la giornata e sorride. Si muove nella cristalleria dei sentimenti di Giorgio con tutta la delicatezza di cui è capace. Se dovesse urtare una zuppiera, sa bene che lui non avrebbe una reazione stizzita o violenta, non recriminerebbe né se la prenderebbe con la sorte o con il Padreterno, come farebbero in tanti. Se ne resterebbe sul vecchio divano di velluto, imbacuccato nei suoi centotrenta chili, immobile come un enorme gatto castrato.
Quando parliamo della mia mancanza di lavoro, Giorgio aggiunge sempre l’aggettivo «temporanea», a rimarcare che si tratta di una piccola slogatura della mia esistenza che passerà con un poco di riposo e un minimo di attenzioni. Qualche volta penso che, nella sua testa, la distingua dalla forma cronica da cui è afflitto lui.
«E poi, tu hai pure un titolo di studio…» mi dice spesso, e per qualche secondo mi fa sentire laureato alla Bocconi.
«Noi siamo lavoratori autonomi, – gli rispondo allora io, – e cioè, noi da una parte e il lavoro dall’altra».
Giorgio si mette a ridere e cambiamo discorso.
Da ragazzino volevo fare il poliziotto della stradale. Non per la motocicletta o per la pistola, però. Mi piacevano gli stivali alti, quei gambali neri e lucidi. Li avessero portati gli operai dello spurgo fogne, forse avrei voluto fare quello. I dettagli mi hanno sempre fregato, mi sono stati fatali piú di una volta, come a quel tale che, inseguito da un killer, si fermò a controllare se gli erano rimasti gli spinaci in mezzo ai denti.
Per esempio, a sette anni mi rifiutavo di baciare mia zia Fernanda.
«Che carattere chiuso ha questo bambino, com’è timido…» commentavano gli adulti. La verità è che mi disgustava il neo che aveva sotto il naso, una piccola cometa pelosa che sorvolava la volta del suo sorriso.
Il mio sguardo andava sempre lí e rabbrividivo. Forse anche la scelta di studiare da geometra è dipesa da questa mia debolezza per i particolari, chi lo sa. Non è stata una scelta felice, a giudicare dai fatti.
Ho trentadue anni e non ho un lavoro fisso.
Chiunque viene a saperlo, in genere, scuote la testa con aria grave e aggiunge: «Con questa crisi…»
Ecco uno dei vocaboli piú ricorrenti nella vita, mia come di molti altri, credo.
Crisi delle ideologie, crisi dei valori, crisi di risultati, crisi di governo, delle borse, dei mercati asiatici, crisi di coppia, crisi religiose, crisi del maschio, delle esportazioni, crisi cardiache, nervose ed epilettiche, crisi delle trattative, epocali, sindacali, crisi del cinema, del teatro, delle vocazioni, crisi mediorientale, internazionale, crisi del dollaro e dell’euro, crisi individuali e collettive.
L’eccezionalità che si pretende da questa parola è immotivata. La vera anomalia è il benessere, la felicità.
L’ultima volta ho lavorato per uno studio d’architettura, il titolare si chiamava Fabrizio. Un nome che tiene a distanza, un nome da architetto. Mentre lui creava, in preda a visioni di vetrocemento e cartongesso, io venivo spedito in missione all’inferno. Il Catasto.
Per vedere l’«Italia in miniatura» non devi andare per forza a Rimini. La puoi visitare rimanendotene tranquillamente nella tua città ed entrando in quell’ufficio maledetto. Ci trovi tutti i monumenti nazionali riprodotti alla perfezione, indolenza, approssimazione, latitanza, tentativi di corruzione e altri prodotti caratteristici.
Io cercavo di fare il simpatico con tutti, l’amicone, ma tanto quelli lo sentono subito che non sei dei loro. Ho conosciuto persone convinte che se ti avvicini al prossimo con il sorriso sulle labbra, tutto filerà liscio. Non funziona cosí. Se mi fossi presentato a quei tipi lanciando cioccolatini e gomme americane, come gli alleati a Roma nel ’44, me li avrebbero tirati dietro. C’è solo una ristretta cerchia d’individui che viene presa in considerazione, sulla base di un’affinità misteriosa e sospetta, personaggi che riescono a ottenere tutto quello che chiedono, si fanno consegnare documentazioni inimmaginabili, mitologiche. Sarebbero in grado di rintracciare la mappa catastale della torre di Babele, se volessero. Da non credere, ma esiste un gotha dei geometri, che è come dire l’élite degli idraulici o la crème dei tabaccai.
Una mattina ho avuto da ridire con un tale, un impiegato con delle basette enormi, lerce e ispide come lo zerbino del mio pianerottolo. Quando gli ho fatto notare che mi aveva appena consegnato la planimetria di un’altra palazzina, ha risposto senza guardarmi che, in base ai riferimenti che avevo fornito, mi portavo via il pezzo di carta che mi spettava. In effetti aveva ragione, l’uomo lupo era in una botte di ferro e io nella merda.
– D’accordo, – ho insistito allora, – dammi una mano a capire dov’è l’errore e come possiamo trovare le carte giuste.
Finalmente mi ha guardato: il parroco che fissa un tizio che ha appena bestemmiato.
Non avrei mai dovuto usare il plurale: il basettone non è un praticante del noi, crede da sempre nell’io. Soprattutto nel suo. Mi ha detto che dovevo procurarmi i dati esatti e ripetere tutta la trafila. A quel punto, il discorso tra l’impiegato pubblico e il professionista era finito. Iniziava quello tra uno stronzo e un testone.
Avrei dovuto andarmene, tornare allo studio con un nulla di fatto, sopportare un molle cazziatone da parte del mio architetto e ricominciare da capo. Invece ho rilanciato.
– Se mi concedi un quarto d’ora di tempo, solo un quarto d’ora… con la tua esperienza, magari la planimetria che cerco salta fuori subito…
Era troppo. Avevo toccato un aspetto che l’impiegato non era disposto a prendere in considerazione. Potevo insultarlo, minacciarlo, mettergli in mano duecento euro oppure pretendere di parlare con un suo superiore. In vent’anni di servizio, nel suo ufficio era entrata gente che aveva dato fondo a tutto il repertorio, era preparato. Ma non s’era mai trovato di fronte un mascalzone che la metteva sul piano umano, senza il minimo rispetto.
Davanti a quell’indecenza, ha cominciato ad alzare la voce dicendo che, se io non ero in grado di fare il mio lavoro, lui non aveva intenzione di farlo al posto mio.
Quando arrivo ai ferri corti con qualcuno, purtroppo, divento ecumenico e mi metto a parlare con foga di disponibilità, tolleranza, faccio appello alla gran riserva d’umanità che tutti nascondiamo dentro di noi. Certi la nascondono talmente bene che poi non riescono piú a ritrovarla. Insomma, dò vita a uno spettacolo imbarazzante. Chissà cosa mi aspetto, che il prossimo si commuova e mi abbracci. L’impiegato invece mi ha indicato un posticino dove andare a passare il fine settimana e non si trattava di Alassio. Sono tornato alla base e l’architetto sapeva già tutto.
– I miei geometri non possono andare in giro a litigare, tanto meno con funzionari che ricoprono ruoli chiave. Adesso quel rapporto andrà ricostruito… mi sembra che tu non sia ancora pronto per lavorare in uno studio come questo. Mi dispiace…
Mi ha licenziato.
I primi due giorni ti sembra di stare in vacanza, ti alzi piú tardi il mattino, ti concedi una colazione tranquilla, seduto, con il caffellatte, poi esci a comprare il giornale e fai quattro passi.
Dal terzo giorno, sei disperato.

2.

Il pomeriggio in cui io e Franca ci siamo lasciati è stato uno dei piú belli della nostra vita.
Il cielo era spento, olivastro, affumicato da ore.
Ci siamo seduti dentro un pub in legno scuro, con il bancone in legno scuro e tavoli e sgabelli in legno scuro, tutto in perfetto stile irlandese, non fosse stato che eravamo sulla Tiburtina.
Ci giravamo intorno da settimane, al problema.
Stavamo bene insieme, ci piacevamo, ci trovavamo simpatici e non ci amavamo. In genere, ci si sposa per molto meno.
Franca però voleva di piú, piccola, risoluta, tignosa, sorprendente ragazza. Voleva amare ed essere amata e, qui stava il problema, sapeva esattamente cosa significavano entrambe le cose.
Io ordinai una birra. Franca, pur con tutto il rispetto per l’Irlanda, un chinotto.
Parlammo della madre, dell’antipatia del mio architetto, del suo lavoro da commessa, avremmo potuto fluttuare per giorni in quel limbo colloquiale. Io guardavo il modo in cui muoveva le dita, delicato, armonioso, un altro dettaglio che avrebbe potuto inchiodarmi.
Fu lei a prendere il coraggio a due mani e meno male, io non me la sono mai sentita neanche di strapparmi da solo il cerotto appiccicato su una sbucciatura.
– Andiamo avanti per inerzia. Io penso che meritiamo qualcosa di meglio.
– Tu dici? – fu la risposta del vigliacco che mi ospita da piú di trent’anni.
– Sí, – replicò lei con la serenità di chi aveva superato, dentro di sé, i sacrosanti motivi di rancore (e non erano pochi) verso il tale che le aveva fatto perdere due anni di vita.
Parlò per un’ora e venti e, come il miglior rappresentante d’aspirapolvere che riuscite a immaginare, mi convinse completamente. Lasciarsi, ecco la cosa piú azzeccata che potevamo fare, la piú giusta e corretta: era valsa la pena mettersi insieme soltanto per avere poi la soddisfazione di realizzare una separazione cosí perfetta e opportuna. La grande bellezza della nostra relazione risiedeva tutta nel distacco.
Parlò solo lei, perché solo lei aveva cose sensate, profonde e premurose da dire.
Per quanto mi riguardava, ascoltavo la sua franchezza – che bastava per entrambi – e annuivo. Ero mortificato, avevo scambiato per amore un’amicizia, confuso una rondine con un’aquila reale.
Mentre tornavo a casa, quella sera, ripensai a una storia che avevo letto su una rivista, giorni prima.
Anata era una bella ragazza polinesiana e una mattina di primavera aveva conosciuto un giovane che le era sembrato subito strano, imperscrutabile e, certo anche per questo, attraente. Il destino – le giornate sono lunghe e qualche cosa deve inventarsela pure lui per ingannare il tempo – le aveva fatto incontrare Carlo, un tassista romano in vacanza. A Carlo Anata era sembrata immediatamente strana, imperscrutabile e, certo anche per questo, attraente. Non si capirono per due giorni e quelle incomprensioni attizzarono la fiamma appena nata molto piú di quanto avrebbero potuto fare le solite sterpaglie, fatte di «Che begli occhi hai» e «Come sei dolce».
Non si sono lasciati piú, negli ultimi venticinque anni.
Anata è andata a vivere da Carlo, in un appartamento con veduta sulla tangenziale est, e lo aspetta ogni sera, quando torna a casa dal turno.
Qualche volta mi chiedo cosa penserà, quando la mattina apre la finestra e, invece della spiaggia con le palme, vede la sopraelevata. Mi chiedo se è pentita o contenta di com’è andata la sua vita.
Nella foto sul giornale, vicina a Carlo, sorride.

3.

Mio padre è sempre stato un u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’allegria degli angoli
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. 34.
  38. 35.
  39. 36.
  40. 37.
  41. 38.
  42. 39.
  43. 40.
  44. 41.
  45. 42.
  46. 43.
  47. 44.
  48. 45.
  49. 46.
  50. 47.
  51. 48.
  52. 49.
  53. 50.
  54. 51.
  55. 52.
  56. 53.
  57. 54.
  58. 55.
  59. 56.
  60. 57.
  61. 58.
  62. 59.
  63. 60.
  64. Il libro
  65. L’autore
  66. Dello stesso autore
  67. Copyright