La nuova responsabilità
La grande differenza tra l’idea antica di progresso e quella relativamente nuova di sviluppo si può cogliere nel fatto che la prima si affidava alla credenza di un ordine cosmico che regolava il destino degli uomini e la loro stessa natura biologica, un ordine inteso in senso religioso o definito dalla razionalità storica, mentre la seconda – l’idea di sviluppo – ha una natura eminentemente problematica. E, mentre il progresso è pensato secondo un principio di accumulazione e di accrescimento quantitativo, lo sviluppo mette in gioco significati, valori etici non addizionabili. La nostra epoca tecnologica «trasferisce» l’agire umano dal «quantitativo» al «qualitativo» cambiando il problema morale che ne consegue.
L’evoluzione tecnologica non procede per automatismi, bensì è il risultato di decisioni e di scelte strategiche da seguire: pretende un giudizio. È la «logica dell’incertezza», che abbiamo visto evocare da Paul Ricœur, a introdurre nuove questioni etiche; in particolare viene alla luce uno spazio nuovo, quello della responsabilità. Lo sviluppo, nella sua problematicità, non possiede una neutralità etica, poiché pone l’accento sulla questione decisiva delle finalità umane e delle norme da rispettare: l’assenza delle une e delle altre modifica radicalmente il senso stesso dello sviluppo.
Che si tratti di un cambiamento qualitativo dell’agire lo si comprende osservando il nuovo potere dell’ingegneria genetica, di cui abbiamo visto l’ingerenza su una realtà – appunto, quella umana – un tempo impensabile e inaccessibile a qualsiasi forma di intervento radicale che modificasse, alterandola, la struttura stessa dell’essere-nati, cioè il patrimonio genetico. Questo cambiamento qualitativo dell’agire umano richiede una domanda di normative etiche corrispondenti al livello dell’azione stessa. Domanda normativa che si configura come una ridefinizione della responsabilità.
Il carattere problematico dello sviluppo si coglie con evidenza quando ci si trova a decidere su questioni che riguardano la vita dei cittadini: infatti, tanto la domanda etica quanto le sue difficili e incerte risposte, sollecitate dallo sviluppo nell’epoca della tecnologia, sono strettamente connesse alla crisi della democrazia rappresentativa, all’insufficiente partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Proprio perché alcune decisioni fondamentali che devono intervenire normativamente sui protocolli scientifici appartengono ineludibilmente alla sfera della politica, appare evidente la crisi della democrazia, una crisi più profonda di quella che i politologi mettono in luce quando sottolineano, per esempio, la fragilità del rapporto tra cittadini e istituzioni, tra cittadini e delega alla loro rappresentanza politica. La legittimazione della democrazia è un processo sempre in corso e sempre in crisi, una crisi che si riflette su ogni settore della vita della società quando essa deve intervenire sulle questioni relative alla comunicazione informatica, su quelle poste dalla salvaguardia dell’ambiente, sui problemi sollevati dall’ingegneria genetica e in generale dalla ricerca scientifica e dall’economia. Il paradosso è che la politica è il luogo su cui convergono tutti i temi dello sviluppo, ma essa stessa ha una complessità tale da poter dare risposte solo ascoltando le domande etiche sollecitate dallo sviluppo. E così, ogni nuovo spazio di potere è anche il luogo di una nuova responsabilità che chiama a scelte, a decisioni di natura etica, che vengono poste dalla cultura – spesso semplicemente dall’opinione pubblica – alla politica per correggere un percorso intrapreso dalla ricerca medica, dalla tecnologia, dall’informatica.
L’idea di responsabilità appare come una guida sempre più necessaria per orientarsi nelle nuove questioni etiche: nuove non tanto perché si affacciano per la prima volta nella storia, ma perché esigono valutazioni e giudizi che in passato non erano richiesti. La responsabilità che oggi evochiamo si appella al limite, alla misura, all’astensione. Avevamo precedentemente messo in luce quanto fosse complesso definire il concetto di limite in una società che si sviluppa su piani non omogenei di valori, in cui ormai è assente qualsiasi riferimento determinante alla tradizione culturale che nel tempo aveva contribuito a organizzarla. Abbiamo osservato che l’etica dell’ideologia scientista del progresso non conosce quest’idea di limite; al contrario, è pervasa dalla fede (in realtà da una convinzione che si ritiene razionalmente fondata) in uno sviluppo illimitato delle conoscenze e delle loro applicazioni pratiche: un sapere che si sarebbe necessariamente propagato in senso positivo per la storia dell’uomo. Il dubbio sui suoi possibili effetti negativi o il suo arrestarsi nella corsa lungo il tempo è impensabile. Questa ideologia del progresso storico e scientifico non comprende un’idea di responsabilità intesa come limite, come la misura che avrebbe contraddetto il senso stesso del concetto di progresso. Le questioni etiche nuove aprono a una nuova idea di responsabilità.
Siamo abituati a pensare la responsabilità come un’imputazione, come l’incolpare qualcuno di qualcosa per cui il responsabile è immediatamente identificato con l’azione compiuta. La responsabilità è in questo senso declinata al passato, perché l’attenzione è rivolta a ciò che è all’origine dell’azione di cui si è responsabili, e, a sua volta, il responsabile deve giustificare ciò che ha fatto oppure essere disposto (o costretto) a pagare il prezzo dell’azione di cui è stato responsabile. Azioni il cui effetto è prevedibile in un futuro prossimo: dunque, la responsabilità non è soltanto relegata nel passato, ma si apre alle prevedibili conseguenze che non rimangono circoscritte al presente.
La domanda da porsi è se in quest’epoca tecnologica si oltrepassa la nozione classica di responsabilità come imputazione. Nei suoi studi, Hans Jonas sostiene che le attuali questioni legate alle ricerche biologiche, all’ambiente, alla comunicazione informatica richiedono un altro modo di considerare il «principio di responsabilità», il quale deve essere orientato verso un lontano futuro che oltrepassa quello delle conseguenze prevedibili nel presente. La responsabilità viene intesa come un peso da sostenere sulle proprie spalle, una missione da svolgere seguendo regole precise, e il responsabile è colui che si fa carico di una missione che guarda all’avvenire. La missione più delicata, quella che va oltre il semplice rispetto dell’altro, è la protezione delle realtà fragili: oggi siamo responsabili di un futuro molto lontano dell’umanità, molto al di là dell’orizzonte delle conseguenze di un’azione compiuta nel passato. La missione che si fa carico della difesa di questo lontano futuro è responsabilità verso la continuità della storia dell’umanità: «Il futuro dell’umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell’era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, onnipotente. In esso è evidentemente incluso il futuro della natura in quanto condizione sine qua non; ma, anche indipendentemente da ciò, si tratta di una responsabilità metafisica in sé e per sé, dal momento in cui l’uomo è diventato un pericolo non soltanto per se stesso, ma per l’intera biosfera».1 L’imperativo etico suggerito da Jonas è: agisci in modo che esista ancora un’umanità dopo di te e per il più lungo tempo possibile.
Così formulata, l’idea di responsabilità oltrepassa la reciprocità, perché non avremmo mai modo di conoscere le generazioni future che ci potrebbero chiedere ragione delle azioni compiute. L’umanità ha sempre mostrato caratteri di fragilità, ma, osserva Jonas, nell’epoca della tecnica l’uomo è diventato il maggior pericolo per se stesso. Stiamo assistendo al compimento del principio baconiano dell’aggressione dell’uomo sull’uomo per mano della potenza scientifica: «Il pericolo di una catastrofe per l’ideale baconiano del dominio sulla natura ad opera della tecnica scientifica è insito nella grandezza del suo successo. Esso è in sostanza di duplice natura, economico e biologico: il rapporto reciproco fra queste due componenti, destinato a provocare necessariamente la crisi, si manifesta oggi apertamente».2
La pericolosità, il rischio della catastrofe evocano la paura per la distruzione come accadimento reale nel presente e non come eventualità futura; per l’uomo, divenuto il maggior pericolo per se stesso, si esige una limitazione delle sue stesse occasioni d’azione. L’imperativo etico ha quindi la propria precisazione nel senso della misura, del confine oltre il quale non deve procedere l’azione umana. La responsabilità dell’uomo diventa una missione cosmica di protezione del debole: il «debole» può essere l’ambiente come le realtà biologiche, oppure la figura più fragile e pericolosa in assoluto, cioè l’uomo stesso.
Etica della convinzione ed etica della responsabilità
Questa forma «metafisica» della responsabilità (così come si coglie nella riflessione di Jonas), nella sua proiezione verso il futuro dell’umanità – lasciando in disparte sia la semplice relazione tra individui, sia l’imputazione e la ricerca dell’origine dell’atto colpevole –, rinvia a una presa di posizione essenzialmente politica. Si è osservato che il tema dello sviluppo, nell’epoca della tecnologia, è orientato da un’esplicita direzione di cui, appunto, deve farsi carico la democrazia politica. Max Weber, nel suo saggio Tra due leggi (1916),3 aveva sottolineato un’opposizione tra l’etica della convinzione, o dei principi (Gesinnungsethik), e l’etica della responsabilità. «Ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può essere cioè orientato secondo l’etica della convinzione oppure secondo l’etica della responsabilità.»4 La prima fa riferimento a valori assoluti, dettati, per esempio, dalla fede religiosa, da un credo rivoluzionario, che vengono perseguiti indipendentemente dalle conseguenze a cui possono portare. In questo senso, l’azione è orientata per affermare il valore di ciò che è alla base dell’agire e lo giustifica, facendo riferimento alla «credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza».5
«Chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità risponde delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni» non dimenticando «quei difetti presenti nella media degli uomini.»6 La responsabilità dell’azione si basa sullo scopo da raggiungere, è un agire orientato razionalmente rispetto allo scopo, ed è il modo di comportarsi di «colui che orienta il suo agire in base ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi rispetto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, e infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco».7
Ma Weber non dimentica di sottolineare come l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità non si manifestino nella realtà con differenze precise e nette. L’azione orientata al valore del gesto si presenta generalmente «in misura modesta», e «l’assoluta razionalità rispetto allo scopo è anche soltanto un caso limite».
Né l’una né l’altra delle forme pure dell’agire, precisa Weber, si ritrovano nella realtà. La razionalità rispetto allo scopo risulta infatti, come dovrebbe essere a questo punto prevedibile, incapace di porre da sé un criterio selettivo tra i diversi scopi possibili verso i quali indirizzare il proprio agire, e quindi scegliere il proprio dio o il proprio demone, così come la razionalità rispetto al valore è incapace di calcolare le conseguenze del proprio agire o forse, semplicemente disinteressata a esse, risulta irresponsabile. Accade così che nell’agire concreto queste due modalità dell’azione teoricamente incompatibili si confondano tra di loro, ma ciò, tuttavia, non elimina la conflittualità dei due tipi di etica, perché «dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo ... la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale».8
Secondo Weber l’uomo che possiede «la vocazione alla politica»9 cercherà di non mettere in contraddizione l’etica della convinzione con quella della responsabilità. Tuttavia la contraddizione rimane: come può la responsabilità non avere un rilievo etico se non esprime una convinzione? Non è una nostra convinzione – formata attraverso l’educazione, le esperienze culturali, il riferimento a valori tradizionali – a renderci responsabili? D’altra parte, riprendendo la differenza tra le due forme di etica, ci accorgiamo che la ricerca della loro sintesi nell’esercizio della politica o, piuttosto, la lucida comprensione della loro conflittualità è antica come la nostra civiltà occidentale.
Antigone è l’espressione della tensione tragica tra la soggettiva convinzione di un valore ideale, a cui la vita non può rinunciare, e la dimensione pragmatica di chi si assume responsabilità politiche che non possono cedere alla soggettiva convinzione di un valore. Nella cultura moderna la contrapposizione tragica dell’opera di Sofocle si ritrova nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel con la celebre differenza tra «l’anima bella» e «l’eroe dell’azione», ripresa da Weber con la distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, che individua nella capacità di «negoziato» del politico la possibilità di una sintesi dialettica.
Ma questa contrapposizione non si circoscrive alla sfera della politica intesa come pratica democratica della negoziazione tra la forma (lo Stato di diritto, la Costituzione) e la forza (le istanze soggettive, le richieste di libertà, di emancipazione individuale), proprio perché oggi è cambiato il concetto di responsabilità, passato da quello tradizionale di imputazione a quello di limite, di moderazione dell’azione. Nell’epoca della tecnologia le scelte della politica entrano in conflitto con l’agire provocato dalla stessa tecnologia dove «limite» e «moderazione» diventano decisioni fondamentali, come l’attribuzione di finanziamenti per la ricerca, proibizioni o permessi di procedure mediche, interventi sull’ambiente. Cambia il concetto di responsabilità, ma anche quello di convinzione perde quella tensione morale individuale che impegna la persona a una drammatica coerenza con la propria visione etica del mondo. Spesso la convinzione è un’invocazione idealista di valori morali, che non si preoccupa delle conseguenze delle azioni con cui si vorrebbero realizzare: anime belle, direbbe Hegel, di fronte a pacifisti o a ecologisti indifferenti a ciò che possono portare le loro convinzioni sostenute con tediose invocazioni retoriche.
Paradossalmente, nell’era della tecnologia la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato non si fonda su principi etici bensì su convinzioni ideali che di per sé non fanno attenzione alle conseguenze oppure su decisioni la cui responsabilità è quella di limitare e contenere l’azione. E tuttavia la responsabilità, qualora venga recisa dalla convinzione, finisce per confondersi con un principio essenzialmente pragmatico, funzionale alle necessità più o meno contingenti. Questa conflittualità tra convinzione e responsabilità si manifesta, nel modo più evidente, nella politica – e le decisioni che vengono generalmente assunte assecondano l’interesse di parte –, mentre negli altri luoghi dell’agire, al di fuori della politica, diventa più problematica la decisione e più esplicita l’esigenza di attribuirvi un fondamento etico su cui basare l’azione responsabile. Jonas, per esempio, radica il principio di responsabilità nella convinzione che sia essenziale la protezione del debole. La responsabilità è un mandato superiore alla singola individualità, va oltre il soggetto stesso perché impegna ciascuno a una missione che ha come finalità la difesa della fragilità, sia essa quella dell’uomo, dell’ambiente o della corretta gestione della comunicazione informatica.
L’obiettivo da conseguire è sempre l’antica realizzazione dell’uomo, evocata dalla classicità e ripresa dall’umanesimo rinascimentale, dall’Illuminismo, dal Romanticismo, dalle ideologie redentrici comuniste, ma che ora, nell’epoca della tecnologia, è pensata sotto il segno di ciò che è manchevole, di ciò che è incompleto, è valutata per il rischio e il pericolo a cui può portare l’azione dell’uomo sull’uomo stesso.
Abbiamo visto che l’Occidente si contraddistingue per l’ampia convergenza su principi etici essenziali, pur ammettendo discordanze sugli ideali di riferimento che inevitabilmente si riflettono sulla valutazione di questioni morali particolari, quali, per esempio, l’aborto o l’eutanasia. In queste circostanze, in cui c’è conflittualità decisionale, dovrebbe farsi largo la «vocazione» del politico: la democrazia stessa si definisce nella sua capacità di difendere il dialogo sui fondamenti dell’etica (dunque sulla giustificazione e legittimazione di decisioni su questioni morali particolari), attraverso la ricerca di basi culturali comuni. Questa condivisione non solo non indebolisce l’impegno civile dei cittadini nel loro confrontarsi, ma consente alla società di ritrovarsi su quel livello di consenso overlapping, seguendo la terminologia usata da John Rawls. Un confronto che non avviene più sulla base della tradizione – intesa come principio assoluto dell’identità di un popolo –, ma di convinzioni, condivisioni culturali in quanto veicoli storici delle tradizioni.
Principi universali
La pluralità delle morali nella nostra contemporaneità, tuttavia, è la conseguenza dell’assenza di fondamento dell’etica, e senza fondamento non è possibile passare dal fatto alla norma, dal descrittivo al prescrittivo, dall’accadimento alla regola che disciplina ciò che avviene. Un’etica senza fondamento fa sì che ognuno possa riferirsi alla propria morale per giustificare le proprie azioni. Su cosa si fonda, allora, una decisione responsabile su questioni come la pena di morte o l’eutanasia? Ci sono questioni passate di moda come il sesso al di fuori del matrimonio, il patriottismo, la proprietà privata su cui non si discute più perché si fa appello a un generico sentimento della libertà, a cui demandare valutazioni e decisioni. Ma questo «generico sentimento della libertà» è l’eredità più evidente della tradizione occidentale che ha costruito un quadro di valori etici inoppugnabili nella loro astrattezza. La pietà e l’individualismo libertario sono il fondamento dell’Occidente. Si può anche sostenere, come vorrebbe Rawls, che la concretezza dei contenuti particolari dei temi etici generali è lasciata alla discussione dem...