Lo spazio tra le nuvole
eBook - ePub

Lo spazio tra le nuvole

Il viaggio come cura

  1. 184 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Lo spazio tra le nuvole

Il viaggio come cura

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

"Non importa quanto il cielo sia plumbeo: il sole, prima di scomparire, scosta appena le nuvole all'altezza dell'orizzonte e si affaccia attraverso una striscia sottile, tutta rossa. Basta avere pazienza: si trova sempre uno spazio tra le nuvole." "Si parte per curiosità, per conoscere l'altro, per scoprire se stessi, per cercare nuovi mondi, per guadagnarsi nuovi inizi, per vendetta, per amore, per nostalgia, per scappare, per mettere un oceano tra sé e il dolore.

Il viaggio è uno strano mezzo di trasporto per l'anima: ci porta fuori da noi stessi per ricondurci al nostro centro, finalmente pronti ad accogliere il cambiamento che allora, potente come un fiume in continuo e armonioso divenire, potrà attraversarci senza far rumore, portando via con sé parti care ormai superflue, e purificando tutto il resto… Il viaggio mi ha sempre aiutato a resettarmi: sono partita piena di punti interrogativi, di ansie e di pensieri e sono tornata più leggera, lucida e libera. Nel frattempo, ho tagliato rami secchi, mi sono svuotata del superfluo per fare spazio al nuovo." Camila Raznovich – madre italiana e padre di discendenza ebrea russa, entrambi cresciuti a Buenos Aires – in questo libro racconta ciò che ha imparato in quarant'anni di partenze e ritorni. Dal primo viaggio, appena diciassettenne, in Grecia, all'ultimo, con le figlie Viola e Sole, in Thailandia, passando per Berlino, Londra, New York, ma anche l'India, l'Argentina, e il Sudest asiatico. Ogni volta Camila è partita con una domanda e ogni volta ha fatto ritorno con la risposta di cui aveva davvero bisogno, aggiungendo un prezioso tassello alla consapevolezza di sé: "Si parte sempre per lo stesso motivo: per crescere. Perché solo così si riesce a svuotarsi per ritrovare poi un equilibrio; a fare spazio a ciò che sta per accadere".

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Lo spazio tra le nuvole di Camila Raznovich in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Crescita personale e Viaggi. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852077692
Categoria
Viaggi

Lo spazio tra le nuvole

Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
ITALO CALVINO
Mio padre è sempre stato un figo. Capelli neri, barba nera (una di quelle quadrate e inestricabili da filosofo mitteleuropeo), sopracciglia spesse due dita, aveva verdi occhi magici, con cui silurava i suoi interlocutori. Era la sua testa intelligentissima a renderlo bello, un incantatore di persone.
Considero maestri entrambi i miei genitori. Se mia madre lo è stata per la responsabilità, la serietà, la capacità organizzativa, mio padre mi ha insegnato a fare della mia vita una ricerca, a non fossilizzarmi sulle convenzioni, a essere una donna libera e a esercitare il potere della fantasia. I miei genitori incarnano le mie due anime: mia madre mette tutto in ordine, anche le vite degli altri; mio padre faceva viaggi, andava ai concerti, scriveva, ballava.
Era anche un uomo coraggioso. Aveva attraversato allontanamenti e separazioni a testa alta, senza far percepire a noi figli neanche una briciola della sua sofferenza o della sua rabbia. Io tuttora non so se lui sia mai stato arrabbiato con nostra madre per averlo lasciato: non ne ho idea.
L’ho visto misurarsi con la leucemia con grande energia e onestà, e cercare fino all’ultimo di proteggere me e Martin dall’idea stessa del distacco. Preferiva comunicarci speranza piuttosto che disfattismo, così metteva l’accento sull’esistenza di una via di cura più che sulle probabilità che aveva di guarire. Io gli credevo, gli credevo fermamente. Forse accade a tutti: forse la capacità di illuderci contro ogni evidenza è una difesa comune, che mettiamo in atto quando il dolore è troppo acuto perché possiamo reggerne l’impatto; e allora rimandiamo, finché tutti i nostri sensi non ci costringono a scendere a patti con la realtà. Forse è così per tutti, forse è successo solo a me, che non ero pronta a lasciarlo andare e per anni, fino a quando non ho potuto proprio più evitarlo, mi sono rifiutata di prendere atto del decorso che la malattia avrebbe avuto. Mio padre ha convissuto per sette anni con la leucemia. Poi le terapie hanno smesso di fare effetto. E io sono partita.
Avevo bisogno di mettere distanza tra me e il suo letto, ma non volevo che quello fosse un viaggio a vuoto: volevo andare in cerca di mio padre prima di me, e dovevo farlo nel suo paese, l’Argentina. Volevo anche che lui lo sapesse.
Può sembrare strano, ma non sapevo niente dell’infanzia e della giovinezza dei miei genitori. Di solito le famiglie vivono nella stessa città, almeno nello stesso Stato, e i figli hanno un sistema di riferimenti: la casa dei nonni è una seconda base, hanno magari frequentato le stesse scuole di mamma e papà, hanno visto le università dove si sono laureati e il muretto dove si ritrovavano con gli amici. Se invece vivi a Milano e i tuoi sono cresciuti a Buenos Aires, di tutto questo non hai idea. Per me Mario esisteva solo in quanto padre mio e di Martin, era come se fosse nato insieme a noi. Non riuscivo nemmeno a immaginarlo in un contesto diverso da quello che mi prevedeva. Non avevo visto le sue strade, dove aveva incontrato la mamma, i parchi dove l’aveva baciata. Avevo conosciuto la nonna quando avevo quattro anni: fino ad allora non l’aveva più vista, se non in fotografia.
Sono partita per ricostruire la storia di mio padre, ma non solo. La domanda martellante che avevo in testa era: “Sono pronta a non essere più figlia?”. Un quesito troppo grande per una risposta che stia in una frase sola. Un quesito che faceva paura. Quel viaggio sulle Ande, a più di tremila metri, con le sue difficoltà e le sfide che mi sottoponeva, mi ha aiutato a suddividere quella grande domanda in tanti piccoli obiettivi. Ce la farò ad arrivare all’ostello, stasera? Riuscirò a percorrere questa strada? A passare il confine? Ad arrivare fino a quel monte? Oltre quel lago?
Sono stata via quasi due mesi, per spegnere il cervello e ricordarmi che non c’è problema che non possa essere parcellizzato e affrontato un pezzetto per volta. Quello in Sudamerica è stato uno dei viaggi più potenti della mia vita, e uno dei più duri. Stavo male. Mio padre stava morendo. Avevo lasciato mio marito. Dopo sette anni di vita simbiotica, chi ero diventata? Ero ancora capace di viaggiare da sola? Avevo abbastanza forze per rialzarmi?
Ero terrorizzata dal pensiero che mio padre non mi aspettasse, ma sono partita lo stesso, perché la mia parte più selvaggia, più creativa, più libera – quella che veniva da lui – bruciava di irrequietezza. Il viaggio è una medicina per gli irrequieti, lui lo sapeva e mi ha detto: “Vai”. Era contento che andassi nella sua terra d’origine, che rivedessi la nonna, conoscessi gli zii, i parenti. È come se avesse mandato me a salutarli.
Ho fatto lo zaino con lo stomaco sottovuoto. Sentivo la paura, una pressione sul petto che mi comprimeva il cuore contro la cassa toracica. Una parte di me urlava; era come se per lasciarla andare dovessi prima attraversare l’oceano, andare oltre la linea. Stavo salpando per un nuovo mondo, dove niente mi sarebbe stato familiare. Quando ero partita per l’India ero più giovane e più incosciente, ma in qualche modo stavo tornando a casa. Dell’Argentina avevo visto solo Buenos Aires, e di Buenos Aires i pochi metri quadrati che includevano la casa della nonna. Non avevo ancora messo piede in aeroporto e il viaggio già mi stava spingendo a scavare nelle mie emozioni.
Prima tappa: Londra. Mio padre era in ospedale. Sono stata al suo fianco per giorni; quando l’aereo per l’Argentina è decollato sono crollata per il sonno, esausta, e ho dormito per tutte e quattordici le ore di volo. Salutare stanca, quando non si ha la certezza di ritrovarsi.
Dalla capitale mi sarei inoltrata nella pancia del paese, a Mendoza, una città famosissima per i vini che si trova ai piedi della cordigliera andina. È uno snodo importante, da dove partono sia le spedizioni dirette a Sud, che passano per San Carlos de Bariloche e poi proseguono per Cile e Patagonia, sia quelle che risalgono il paese, inerpicandosi lungo le strade scavate sui fianchi delle montagne. Io avrei seguito questo secondo itinerario: avrei percorso l’Argentina per tutta la sua lunghezza, fino a Humahuaca, poi avrei raggiunto il Perú passando per la Bolivia. Da lì sarei volata in Costa Rica e, infine, avrei fatto ritorno. In totale, circa cinquemila chilometri, percorsi per la maggior parte in autobus, perché in Argentina non ci sono treni, dormendo negli ostelli, trascinandomi dietro il solito zaino di piombo.
Tutto questo, però, è accaduto dopo Buenos Aires. Per una settimana sono stata la figlia – o meglio la nipote – prodiga per la quale si sgozza il vitello grasso. In aeroporto mi ha accolto la zia, che conoscevo perché qualche volta era venuta a trovarci in Italia. Credo di non aver mai mangiato così tanto. Ogni sera una festa: ho conosciuto manciate di cugini improbabili di ogni grado, nipoti di tutte le età, zii mai visti prima né dopo, persone di cui poi non ho più sentito nemmeno parlare. Nonna Mariana, ovviamente, era sempre presente e sempre disperata: appena mi ha visto ha cominciato a piangere al pensiero che prima o poi sarei ripartita.
Sarebbe stato bello vedere la città insieme a mio padre, ai suoi racconti, ai suoi ricordi. Non è stato possibile. In compenso, mi ha accompagnato ovunque la zia, sua sorella Rosamarta: insieme a lei ho visto le case dove mio padre e mia madre erano vissuti (a Palermo lui, la zona “bene” della città, a Boulogne lei, in periferia), le loro scuole, la loro università, i posti che frequentavano...
Buenos Aires mi ha commosso. Ogni strada, muro, marciapiede, fazzoletto di parco porta le tracce del saccheggio cui è stata sottoposta, sotto gli occhi increduli di un popolo a cui poco rimane se non la memoria e un’intrinseca dignità. È uno scempio. Ma è anche una meravigliosa città decaduta, una scenografia vuota che giace abbandonata. Ciò che ha fatto da sfondo a una storia da sogno rimane inerte e sgangherato, come in attesa del colpo finale. Case pericolanti, ruggine, fori di proiettile nei muri, piante e alberi fuori controllo, che riprendono possesso del territorio: Buenos Aires è una vecchia gloria che resiste, attaccata al ricordo di un grande passato.
Il tango onnipresente, con le sue note sensuali e le rose rosse; l’intrico di viuzze piastrellate del centro, tutte simili ma tutte diverse da barrio a barrio; i colori pieni con cui sono stati dipinti i muri delle case e che si ritrovano in ogni mercato o graffito non bastano a scacciare la malinconia che si appiccica addosso a chi di questa città si innamora.
Non mi sono fatta mancare puntate alla facoltà di architettura, alla Casa Rosada, alle rive del Rio Tigre, che scorre a nord di Buenos Aires. Ho visto anche il nuovo centro, dove si respira il ritmo accelerato tipico di tutte le metropoli. I palazzi moderni e i grattacieli di fronte al porto, però, danno come l’impressione di essere niente più che una candida facciata: la gente vive altrove, la vita scorre altrove.
Avevo l’impressione che quel luogo avesse poco a che fare con i racconti, per quanto scarni, di mio padre. La Buenos Aires nella quale mi trovavo non era la stessa nella quale aveva vissuto lui trent’anni prima. Se non fosse stato per le persone di famiglia, che riempivano di senso la mia presenza lì, questa distanza tra la sua esperienza e il presente avrebbe reso il mio girovagare un esercizio abbastanza sterile.
Sono ripartita dopo una settimana. Ho baciato la nonna, salutato gli zii e tutti i parenti durante un’ultima serata di festa, e ho preso l’autobus per Mendoza. “Chi sono senza mio padre?” era una domanda che si faceva ogni giorno sempre più urgente. L’avevo cercato nella sua città, ora era tempo di cercarlo dentro di me.
Da Mendoza mi sono mossa verso nord, in autobus, cuffie nelle orecchie e occhi incollati al finestrino. Erano usciti i primi mp3, ascoltavo musica ininterrottamente. Ogni tratta durava ore e ore, su strade tortuose, spesso sterrate. Leggevo, sgranocchiavo cibo di strada, buonissimo: empanadas, fagottini ripieni di carne trita, o alfajores caseros, una sorta di panino ripieno di dulce de leche, utilizzato come se fosse una crema. Ricordo che leggevo la biografia del Che, sulla stessa strada che lui aveva percorso una cinquantina d’anni prima con Alberto Granado, e mi sentivo al contempo sbalordita e delusa. Mi ritrovavo nella sua ricerca della libertà, nel suo bisogno di viaggiare, ma non riuscivo a darmi pace per la sua scelta di rinunciare all’amore: era quello il prezzo da pagare per una vita di scoperta? Avevo lasciato mio marito da poco: era inevitabile chiedermi se nel mio futuro ci sarebbe stata una fuga costante, nascosta dietro il nobile alibi della sete di libertà.
Faceva freddo, un freddo penetrante che non avevo previsto a sufficienza. Ero partita con una felpa e l’immancabile k-way, sicura che per stare bene sarebbe bastato aggiungere un poncho da Inti-Illimani, che avrei trovato sul posto. Il poncho l’ho comprato quasi subito, ma ce ne sarebbero voluti almeno cinque. A quelle altitudini il sole brucia mani e faccia, ma non scalda. La sera ero stravolta, eppure incantata. Il mondo che vedevo fuori dal finestrino era sempre più interessante del mio stato d’animo. Mi stupiva, e così mi costringeva a uscire da me stessa.
Vivendo in Europa, pensavo di conoscere le montagne, ma lì era tutto diverso. La salita inizia con una giungla tropicale. Non ci sono pini, ma palme e banani fino a mille metri, poi il deserto: un manto omogeneo che da lontano potrebbe sembrare morbido, ma in realtà è arido, sabbioso, inospitale. A duemila metri sembra veramente di essere sul tetto del mondo: l’aria è gelida, secca, pulita.
Una delle prime tappe mi ha lasciato senza fiato non tanto per l’apunamiento – come gli argentini chiamano la difficoltà a adattarsi alla rarefazione dell’aria a causa dell’altitudine – ma per la meraviglia. La valle di Ischigualasto, oggi parco naturale, potrebbe tranquillamente trovarsi su un altro pianeta. L’acqua c’era, ma se ne è andata milioni di anni fa: nel Triassico quella zona era una pianura alluvionale, bagnata da fiumi e piogge stagionali; oggi è talmente ricca di fossili da essere considerata il paradiso dei paleontologi. Il paesaggio aspro e grigio è dominato da formazioni minerali che vento e intemperie hanno scolpito in tutte le forme: sfere, funghi, pinnacoli, alcuni alti anche più di otto metri. Letteralmente, uno scenario lunare: non per niente “Ischigualasto” in lingua quechua significa “il luogo dove tramonta la luna”.
Proseguendo ancora verso nord, da Tafí del Valle ho deviato a ovest, per visitare le rovine dell’insediamento dei Quilmes, il sito archeologico più antico del paese. Lì, il paesaggio brullo, apparentemente inerte, si fa più verde, più vasto. Continua così, imponente e solenne, per centinaia di chilometri. Non c’è traccia umana né di qualsiasi altra forma di vita a parte colonne altissime, cinque-sette metri, che sembrano vegliare sulla regione: sono cactus giganti, che ricordano soldati sull’attenti al cospetto del generale Sole.
Lungo la strada ho fatto tappa ad Amaicha del Valle, un paesino minuscolo, senza neppure un bar dove ordinare un mate cocido – un’infusione simile al tè, ma preparata con le foglie di erba mate, che in Sudamerica tutti bevono continuamente. La vita del villaggio ruota attorno al museo Pachamama, “Madre Terra” in lingua quechua, antica divinità che tuttora viene rispettata dalle popolazioni della cordigliera. È stato quello il mio primo contatto con la spiritualità andina, che ha poco di trascendentale e molto di immanente: su quelle montagne, dove la natura è sovrana incontrastata, perché da lei tutto dipende (la vita e la morte, la possibilità di procurarsi il cibo, il destino di intere comunità), la terra è sacra, così come ogni altro elemento – dagli alberi ai fiumi, dagli animali al sole. Pachamama faceva parte del pantheon inca, ma è probabile che il suo mito sia ancora più antico, e che la venerassero gli stessi Quilmes, di cui stavo per scoprire quanto era rimasto.
Ci sono luoghi che ci appaiono mistici appena vi mettiamo piede, come se l’anima di chi ci ha vissuto fosse in grado di trasmettere la sua storia ai visitatori senza neppure bisogno di voce. I Quilmes vivevano su un altipiano in quella che oggi è la provincia di Tucumán, oltre il Rio Santa Maria. Della loro civiltà, antica più di mille anni, sono rimasti muretti a perdita d’occhio, che raccontano una storia tristissima. I Quilmes resistettero eroicamente ai conquistadores per più di un secolo. Quando furono sottomessi, nel Seicento, vennero costretti a marciare senza cibo né acqua per chilometri, fino al Rio della Plata. Gli spagnoli li uccisero così, lungo il cammino, e resero schiavi i pochi sopravvissuti.
Più del sito archeologico in sé e per sé, più addirittura di questa storia terribile e truce, a colpirmi erano i cactus. Enormi, alcuni ramificati in formazioni che non avevo mai visto, altri scheletriti e ridotti a rami giganteschi piantati nel terreno, erano millenari: era possibile che avessero visto quella città viva e animata, proprio come quel giorno osservavano me esplorare antiche vie e terrazzamenti.
Stessi dèi, stesse strade, persino stessi cactus: mi interrogavo sul tempo, una dimensione che in Sudamerica sembra scorrere in modo meno lineare che in Occidente – come se si inabissasse e poi risalisse in superficie, selezionando cosa lasciare dietro di sé prima di ricomparire e cosa, invece, lasciar sopravvivere.
Salendo ancora, a pochi chilometri da Salta si apre la Quebrada de Las Conchas, una valle creata dal fiume Las Conchas, appunto, che si estende per cento chilometri. I colori sono quelli che siamo abituati ad associare al Grand Canyon: il rosso della terra, il cielo cobalto, il grigio dell’unica, lunghissima strada che attraversa questo paesaggio eccezionale. Le rocce, scolpite dal vento e dalle intemperie, hanno preso forme inusitate, talmente particolari che la gente del posto le chiama per nome: c’è la roccia finestra, con una spaccatura centrale di forma ovale, e quella pinguino, un enorme parallelepipedo assottigliato in alto, come se fosse sormontato da una piccola testa. Da lì passava una via inca, una delle tante che componevano la complessa rete stradale dell’impero precolombiano.
L’ho seguita e, continuando verso nord, ho raggiunto Purmamarca: un paese a più di 2000 metri, adagiato ai piedi di un miracolo geologico, il Cerro de los Siete Colores. Se c’è qualcosa che toglie il respiro, lì, non è l’altitudine, ma le rocce di sette colori diversi che, grazie a una combinazione unica di fattori geologici, si sono stratificate una sull’altra, dando vita a questa enorme quinta che protegge il villaggio. La leggenda narra che un tempo a Purmamarca non ci fossero colori, così i bambini per sei notti si alzarono dai loro letti per aggiungere un colore alla collina, tornando a casa prima che facesse giorno. Il mattino gli adulti rimanevano a bocca aperta, incapaci di capire chi avesse fatto loro quel dono. Curiosi, si alzarono all’alba del settimo giorno e scoprirono così che erano stati i bambini, ancora intenti a dipingere l’ultima tinta sulla collina.
Da Purmamarca ho allungato il percorso di qualche chilometro e mi sono spinta fino alle Salinas Grandes, un infinito deserto di sale a tremila metri di altezza. Si estende su una superficie pari a due volte quella di Parigi. Lì si può cogliere appieno il significato di “spazio”: il bianco copre tutto per chilometri; i colori della natura tornano a manifestarsi solo sul filo dell’orizzonte, sotto forma dello scuro profilo delle montagne. La gente del luogo diceva che il cuore del lago salato è il punto ideale in cui ciascuno può ascoltare la sua anima, come in una pausa tra due note musicali.
La mia anima ripeteva una parola sola, in quel momento: grazie. Quando ero piccola mio padre cantava una canzone di Mercedes Sosa, Gracias a la vida, un inno alla natura, all’umanità, al giorno e alla notte, e alla capacità che abbiamo di provare e ricevere amore. Era esattamente quello il mio sentimento mentre i miei giorni argentini volgevano al termine, a mano a mano che il confine con la Bolivia si avvicinava. Ero innamorata persa del paese. La notte mi congelavo in ostelli senza riscaldamento, con ve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lo spazio tra le nuvole
  4. L’inizio del cambiamento
  5. La scoperta della resilienza
  6. Panta rei
  7. Nemmeno a Londra può piovere per sempre
  8. Imparare a nuotare
  9. Lo spazio tra le nuvole
  10. Dove il drago scende in mare
  11. Non esiste il brutto tempo, solo vestiti inadeguati
  12. Il viaggio di ritorno
  13. Copyright