Moschetti, bombe a mano, mitragliatrici. E poi morti, prigionieri. Nel 1943 Roma si trasformò in un campo di battaglia. Dopo la firma dell’armistizio l’8 settembre, con la città abbandonata al caos dal re e dal governo, in fuga senza aver consegnato esplicite disposizioni all’esercito e alle forze dell’ordine, i tedeschi non persero tempo e passarono subito all’azione.
All’alba del 9 settembre i soldati della Wehrmacht attaccarono palazzo Orsini a Monterotondo, una quarantina di chilometri a nordest di Roma. Era la sede del Centro Marte, una delle basi operative dello Stato maggiore dell’esercito. Nei piani dei capi militari italiani la scelta di ampliare la quantità delle sedi avrebbe garantito un’efficace risposta nel caso in cui gli eventi fossero precipitati: ci sarebbe stato un numero maggiore di centri logistici sul territorio e alla Germania forse non sarebbe bastato neutralizzare la sede centrale dello Stato maggiore a Roma per considerare chiusa la partita.
A Monterotondo arrivarono tra le settecento e le novecento unità tedesche, capeggiate dai famosi paracadutisti del gruppo di combattimento del maggiore Walter Gericke. Già solo il nome incuteva timore negli avversari. Il loro comandante era uno dei migliori ufficiali paracadutisti di Hitler. I suoi soldati avevano firmato incursioni in Grecia, Olanda, Danimarca e soprattutto nell’isola di Creta. Spesso i paracadutisti di Gericke erano una garanzia di vittoria sicura, eppure in quell’occasione, nella preparazione dell’attacco a Monterotondo, vennero compiuti alcuni errori.
Gericke avrebbe voluto condurre il giorno prima una ricognizione in volo. I comandi tedeschi glielo proibirono per il timore, non si sa quanto fondato, che la contraerea potesse abbattere i velivoli e il piano venisse scoperto; oppure, secondo un’altra versione, il maggiore fece sì un tentativo di sorvolo ma la rapida risposta armata italiana lo convinse a desistere.
Comunque sia andata, il 5 o forse il 6 settembre Gericke raggiunse il paese di Monterotondo in macchina, in abiti borghesi. Voleva osservare di persona i punti interessati dall’offensiva. Eppure, nonostante questo, la mattina del lancio l’azione dei paracadutisti fu scoordinata: le formazioni tedesche atterrarono in punti diversi e persero tempo prezioso nella successiva operazione di ricongiungimento.
A distanza di oltre settant’anni, specchio del caos di quei giorni, la battaglia di Monterotondo non presenta ancora contorni tracciati in maniera definitiva. Leggendo gli scritti del maggiore Gericke, le ricostruzioni dell’esercito italiano e i rapporti di servizio dei carabinieri, non emerge un quadro coerente. Di certo fu lotta vera, e probabilmente gli italiani per due volte rifiutarono l’offerta di resa dei tedeschi, nonostante la situazione si fosse messa male da subito.
In previsione di un attacco, l’esercito e i carabinieri avevano predisposto un sistema difensivo fin dal luglio precedente, subito dopo la destituzione di Mussolini, estromesso dal Gran consiglio del fascismo, arrestato e imprigionato. Furono posizionati mitragliatrici sulla torre e fucili alle finestre e nei sotterranei.
Nelle segrete del palazzo erano ospitati numerosi anziani, bambini, donne di Monterotondo. Non tutti i residenti dell’odierna cittadina, che all’epoca contava ottomila abitanti, ma certo più di quanti ce ne potessero stare.
Nel buio si levavano i lamenti dei più piccoli; qualche adulto aveva portato lenzuola e coperte, altri delle brocche d’acqua in previsione di un assedio. Di cibo ormai ce n’era poco per tirare avanti di giorno in giorno, figurarsi averne accantonato per i momenti ancora più disperati. I fortunati che possedevano appezzamenti di terra avevano fatto provvista, cogliendo anche le pere acerbe. Costretti a rimanere lì sotto, i bambini giocavano con un caleidoscopio fatto in casa alla maniera dell’epoca, con quel che c’era: frammenti di vetri colorati, colla ottenuta con la farina, barattoli.
In coincidenza dei due ingressi del palazzo erano state costruite postazioni di difesa e lì si sarebbe concentrato il grosso della forza di soldati e carabinieri. In paese erano state costruite casematte al cui interno furono posizionate altre mitragliatrici. Decine erano le fortificazioni, i bunker, le opere in muratura alzate per disseminare il paese di ostacoli.
Sulle strade di Monterotondo c’erano giorno e notte posti di blocco, mentre squadre di motociclisti attendevano alla periferia del paese, con il compito di scorgere in anticipo l’arrivo dei nemici.
I tedeschi scelsero come stabilito di attaccare dall’alto. Si annunciarono con un devastante bombardamento, forse azionato da un centinaio di aerei decollati in Puglia, da Manfredonia e da Foggia.
L’offensiva era preparatoria al lancio dei paracadutisti, che sarebbero stati supportati dagli artiglieri e dalle truppe corazzate. L’atterraggio dei soldati di Gericke avvenne nelle campagne intorno anche se, come detto, in un raggio più ampio rispetto al piano iniziale. Dovevano subito correre velocemente verso palazzo Orsini. Solo per puro caso, però, in quel momento erano arrivate nella stazione ferroviaria di Monterotondo truppe del nostro esercito, di scalo perché in movimento verso Roma.
Non fosse stata tragica, la scena che ne nacque assunse i contorni della commedia. Fra i soldati italiani pochi sapevano dell’armistizio. Ci fu chi, credendo a un’offensiva angloamericana nel cielo di Monterotondo, quando incontrò i tedeschi si avvicinò con le armi abbassate, convinto fossero ancora alleati. Si poteva moriva anche così.
I nemici raggiunsero il palazzo e iniziarono le manovre per circondarlo. I carabinieri cercarono riparo e caricarono le armi. L’inizio della battaglia fu subito una tormenta di colpi.
Le munizioni dei carabinieri finirono presto, le loro otto casse di bombe a mano Breda non riuscirono a respingere i nemici, che presero posizione nelle case vicine a palazzo Orsini. I tedeschi vinsero agevolmente la tenue resistenza di alcuni abitanti, armati di fucili poco efficaci, e usarono la popolazione come scudi umani. Dalle finestre delle case di Monterotondo i cecchini tedeschi avevano ottime posizioni di tiro per fare fuoco con la certezza di mietere vittime. A terra la Wehrmacht si era impadronita dei cannoni italiani di difesa. Li aveva spostati, girati e puntati direttamente contro il palazzo.
Il carabiniere Giuseppe Cannata, siciliano di Caltagirone, di guardia a un posto di blocco, schivò le prime scariche e rimase acquattato in attesa di reagire. La cadenza ritmata dei colpi, sparati da decine di armi e da angolazioni diverse, non dava tregua. Cannata provò a mettere fuori la testa e a replicare con il proprio moschetto. Avrebbe potuto ritirarsi ma preferì rimanere per tenere impegnati i nemici e coprire altri carabinieri che stavano ripiegando verso il palazzo. Dopo pochi tentativi i tedeschi lo uccisero. Anche Giuseppe Carrubba, Nicola Savi e Gino Pecerelli furono centrati dai proiettili e rimasero feriti molto gravemente.
La Wehrmacht, innervosita dalla strenua resistenza italiana, stava intensificando l’offensiva, voleva arrivare all’obiettivo senza incontrare nuovi ostacoli né sprecare troppe risorse. Aveva già perso i primi soldati nelle operazioni di avvicinamento. Era il momento dell’accelerata definitiva.
I tedeschi tenevano dannatamente a quel palazzo e soprattutto ai suoi presunti ospiti. Erano convinti che la cattura dello Stato maggiore dell’esercito avrebbe fruttato un bottino importante, prigionieri di peso. In quel delicato momento storico, l’arresto dei nostri capi militari sarebbe stata una mossa straordinaria. Gli alti ufficiali italiani potevano essere una rara merce di scambio in una trattativa. Ma il re e Badoglio ormai avevano barattato la propria salvezza con la consegna di Roma, lo sbando delle forze armate, un Paese nel caos.
Questa versione, considerata da numerosi storici assai veritiera, non ha mai avuto completa conferma. Non sono però state necessarie indagini approfondite per certificare la viltà dei nostri governanti.
I soldati tedeschi impegnati a Monterotondo avevano in tasca una carta topografica con svelato ogni metro del palazzo. La mappa, distribuita ai militari, era stata fornita alla Wehrmacht da persone che conoscevano la struttura. Forse c’erano già state in passato. Questo particolare, scoperto nelle relazioni di servizio dei carabinieri protagonisti della battaglia, contrasta con quanto ammesso anche da Gericke, ossia l’impreparazione dei propri soldati a causa dell’impossibilità, nei giorni precedenti l’attacco, di sorvolare il paese per carpire informazioni essenziali.
Eppure le mappe esistevano. Evidentemente erano stati rivelati segreti all’ultimo proprio per riparare agli errori dei tedeschi e c’erano stati collaborazionisti, doppiogiochisti venduti al nemico.
L’Italia non era un fronte comune, semmai si confermava un pavimento ondulato pieno di crepe. Non tutti volevano combattere i tedeschi, non tutti erano stanchi di Mussolini, non tutti gradivano gli angloamericani. E tanti avevano paura della variazione degli assetti di potere.
I carabinieri, invano in attesa di rinforzi che pure sembra fossero stati promessi, si ritrovarono già nel pomeriggio senza più una cartuccia. Ipotizzare di arrivare alla sera, guadagnare una notte per rifiatare e magari vedere presentarsi quei benedetti rinforzi l’indomani mattina, era un’idea folle. E nessuno poteva escludere che i tedeschi avrebbero approfittato dell’oscurità per sferrare l’ultimo attacco. Bisognava soltanto provare a prevedere come.
Di certo non con un nuovo lancio di paracadutisti sulle terrazze del palazzo: le terrazze erano presidiate, seppur con scarse munizioni, e concentrarvi un’offensiva sarebbe stato prevedibilmente un massacro. Non restava che l’attacco via terra, da uno dei due ingressi. Le postazioni di difesa erano state ulteriormente potenziate: sarebbe bastato?
Con un’operazione minuziosa, i tedeschi minarono l’ingresso principale. Le successive deflagrazioni aprirono un varco. Gli italiani abbozzarono una difesa ma erano in pesante inferiorità numerica.
Quando i soldati della Wehrmacht entrarono nel palazzo e disarmarono gli italiani, chiesero subito dove fossero i componenti dello Stato maggiore. Erano ansiosi di concludere la dispendiosa, stremante battaglia di Monterotondo. Si sentirono rispondere dai carabinieri che semplicemente non c’erano. Non c’era più nessuno da un pezzo. Alleati fino a poche ore prima e adesso nemici, gli uni e gli altri realizzavano di aver combattuto per difendere, o conquistare, un bottino inesistente.
Per gli italiani non aveva fatto granché differenza. Avevano ricevuto l’incarico di proteggere palazzo Orsini a ogni costo e si erano fedelmente attenuti agli ordini. Ma la Wehrmacht, avesse saputo come stavano esattamente le cose…
Il generale Mario Roatta, capo di Stato maggiore dell’esercito, era scappato la sera prima e si era unito al re e a Badoglio in fuga. Il suo staff aveva liberato gli archivi di faldoni, dossier, documenti cifrati.
Un ufficiale nazista, nelle vicinanze di un carabiniere che capiva la lingua tedesca, si lamentò. Masticava bile contro i suoi superiori: possibile che avessero organizzato una poderosa spedizione senza prima compiere i dovuti accertamenti?
Fu chiarito in seguito che probabilmente alcuni problemi alle linee telefoniche nella notte precedente l’attacco avevano causato ulteriori intoppi nelle comunicazioni tedesche. Non soltanto l’offensiva era stata mal preparata, facendo scricchiolare la rinomata fama dei paracadutisti di Gericke; a Monterotondo era stata totalmente sbagliata l’operazione.
Quell’ufficiale imbestialito non riusciva a capacitarsi: «Quindi abbiamo combattuto per quattro mura!» urlò. Si domandò per quale motivo mai militari e carabinieri avessero dato la vita per difendere il palazzo. Nessun italiano rispose. C’era uno strano silenzio, un silenzio d’attesa. In quella situazione di stallo nessuno sapeva cosa fare.
Fu lo stesso Gericke a togliere tutti dall’impasse. Propose una tregua, con la restituzione dei reciproci prigionieri, dei feriti e delle armi, la possibilità di seppellire i morti, la libera uscita dal paese dei suoi soldati e nessun tipo d’ostacolo nel proseguimento del cammino.
La proposta fu accolta. Sennonché dall’esterno un battaglione della fanteria, ignorando la trattativa ormai conclusa, scatenò un nuovo attacco.
I tedeschi uscirono. Risposero al fuoco mentre i prigionieri di entrambe le parti si nascondevano e provavano a scappare. La mossa disperata di un singolo evitò altre morti: un ufficiale italiano alzò un lembo bianco in segno di pace, mentre i proiettili volavano. Lui, testardo, insisteva a sventolare il drappo. Dopo vari tentativi gli animi si calmarono. Venne discussa una nuova tregua. Palazzo Orsini rimase agli italiani. Avevamo perso 125 tra soldati e civili. I caduti tedeschi furono il doppio.
Nei giorni successivi – su questi numeri non c’è mai stata una verità assoluta – un centinaio di altri corpi vennero trovati nelle campagne intorno al paese. Erano cittadini ammazzati dalla Wehrmacht e forse uccisi a causa anche del fuoco amico nella spaventosa confusione di quei momenti.
Alla fine furono almeno cinquecento i cadaveri provocati da una battaglia strategicamente inutile. Nel tardo pomeriggio la Wehrmacht abbandonò Monterotondo e, ricevute precise indicazioni di un punto di contatto con il grosso delle truppe tedesche, si diresse verso Roma. Dove intanto si erano scatenati altri combattimenti. La guerra civile era soltanto all’inizio.
In quelle stesse ore in città, alla Magliana, nella zona sudovest di Roma, seicento giovani carabinieri stavano ripiegando dopo uno scontro durato quasi un giorno.
Un battaglione di allievi era stato inviato a sostegno della divisione «Granatieri di Sardegna», impegnata in una furiosa battaglia contro un’altra esperta formazione di paracadutisti tedeschi.
Fin dall’inizio non fu facile, alla Magliana. Più numerosi i tedeschi, con maggiore potenza di fuoco – dai carri armati fino ai cannoni –, più favoriti logisticamente. Avevano conquistato zone importanti al riparo dei grossi blocchi di pietra di un ponte in costruzione.
Il terreno era ovunque ondulato e sui tratti di sponda del Tevere si allungavano piantagioni di canne. A eccezione dei massi del cantiere per il nuovo ponte, erano pochi i punti dove potersi completamente riparare dal fuoco nemico, sfruttabili come efficaci nascondigli. Da allora, nello stesso luogo sono cresciuti erba e cespugli, le canne sono state sostituite dall’immondizia, la periferia romana si è ampliata e ancor più allontanata dal centro. Il nome Magliana rimane associato alle azioni criminali dell’omonima banda, non a giornate luminose per la libertà dell’Italia.
Comandante del battaglione degli allievi carabinieri era il tenente colonnello Arnaldo Frailich, suo aiutante maggiore il tenente Mario Figliola, e tre erano le compagnie impegnate alla Magliana: la 4a (guidata dal maggiore Orlando De Tommaso, che si coprì particolarmente di gloria), la 5a e la 6a.
I carabinieri avevano bombe a mano e il moschetto modello 1938, un’arma considerata adatta per la guerri...