Nemesis
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Nemesis

  1. 252 pagine
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Informazioni sul libro

25 d.C. Tra i remoti monti del Caucaso, in una sperduta regione ai confini dell'Impero, la Legio III Gallica si macchia di un delitto terribile: il brutale massacro di un intero villaggio, popolato solo di donne, vecchi e bambini inermi. Rimane solo una superstite, una ragazzina che si finge morta ma tutto vede e tutto ascolta. Annota nella memoria i nomi che sente chiamare e giura dentro di sé che un giorno avrà giustizia. Ventidue anni dopo, ormai donna, assume il nome di Nemesis ("Vendetta") e si presenta nell'Urbe decisa a uccidere gli antichi stragisti. Per ritrovarli chiede aiuto niente meno che a Publio Aurelio Stazio e per convincerlo rapisce la sua dolce amica Pomponia. Il senatore non può che accettare e inizia a indagare su quei fatti remoti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852077494

CARTINA

Personaggi

PUBLIO AURELIO STAZIO senatore di Roma
CASTORE liberto di Publio Aurelio
PARIDE intendente di Aurelio
SERVILIO amico di Aurelio
POMPONIA consorte di Servilio
IPPARCO medico di Aurelio
GAIO ULIO PAPILIONE (“L’ASIATICO”) comandante della Legio III Gallica
GAIO ULIO TAZIANO PAPILIONE figlio adottivo di Papilione
ATILIO CESONINO centurione
CLEONICE e LAODICE figlie di Cesonino
BETTO legionario
TERENTILLA moglie di Betto
ELVEZIO legionario
POSTUMIO legionario
APRO SPURIO legionario
ANTIOCO disertore
CALVA CLARA moglie divorziata dell’“Asiatico”
IPSIPILE vecchia ancella
POMPEO cliente della taverna Al Legionario
MARCO LUCREZIO LUPICINO vicino di casa di Publio Aurelio
DESIDERATO liberto di Lupicino
ACACIO PUSINNO marmista
MURRINO e MURRINA bimbi della Suburra
ELLE, PLATONE e BELLEROFONTE schiavi di Pomponia
ZAGREO mendicante
NEMESIS l’Amazzone vendicatrice

Prologo

Pendici del Caucaso, anno 780 ab Urbe condita (anno 25 dopo Cristo)

Nel villaggio vivevano soltanto un centinaio tra donne, vecchi e bambini, perché chi era in grado di battersi, anche soltanto con un arco o una fionda, aveva raggiunto i ribelli sulla montagna.
E vennero i soldati.
Un bambino raccoglieva bacche nel bosco. Rimase a fissare attonito il baluginio delle corazze metalliche; e quando l’asta del pilum gli perforò il torace, si accasciò con un’espressione stupita negli occhi. Un istante dopo le porte del Tartaro si spalancarono, vomitando fuori tutti i loro demoni.
Una giovane afferrò uno spiedo e si gettò col coraggio della disperazione contro il più vicino degli aggressori, ferendolo appena: rincorsa nel bosco, inciampò e fu la sua fine. Una madre tentò di fuggire col primo nato in braccio; l’uomo di ferro la raggiunse, mentre il fagotto piangente rotolava a terra. Un cieco annaspò, le mani protese in avanti, prima di cadere addosso alla fanciulla che gli faceva da guida: un affondo fu sufficiente per entrambi. Una vecchia venne trapassata sulla soglia della sua capanna, mentre si protendeva verso alcuni inutili talismani appesi; una gestante ebbe il ventre squarciato, e la sua compagna, la più bella del villaggio, fu colpita al viso: non violentavano, uccidevano e basta.
Al centro della radura un manipolo di soldati circondò il giovane che si batteva come un leone: col padre e i fratelli in montagna, restava solo lui a difendere la sua gente. Morì da uomo qual era già a soli quindici anni, la spada arrugginita stretta nel pugno.
I superstiti furono finiti rapidamente, mentre le fiamme cominciavano a divorare cadaveri e capanne, paglia e occhi spenti, fronde e arti mozzati. Infine un altro corpo cadde, dritto nel rogo.
«Via dal fuoco, presto, per lui non c’è più nulla da fare!» urlò una voce autorevole.
«Maledizione, dov’è il centurione?» ribatté un soldato, dall’altra parte del villaggio.
«Orso, Balbo, Ilario, Elvezio, Apro, Antioco, Postumio, Rusonio, Betto, a me! Spicciatevi a finire il lavoro e andiamocene. Qui non c’è nulla che valga la pena rubare!» ordinò la voce.
Al di là del rigagnolo che scendeva dalla montagna, un uomo col gladio nella mano inerte fissava l’incendio, scosso da un tremito convulso. Attonito, sorpassò con un balzo i corpi sul fondo del fosso. Le cinghie della sua caliga andarono a impigliarglisi nella veste di una giovinetta, gli occhi chiusi come se dormisse, le gote ceree, i piccoli seni non ancora del tutto sbocciati. Se ne liberò con un calcio e corse via.
«Siamo pronti, tribuno!» disse il centurione, mentre uno dei soldati si sporgeva a raccogliere qualcosa tra la cenere. Poco dopo il drappello scomparve nel bosco: del villaggio non restavano che macerie fumanti.

I

Roma, anno 802 ab Urbe condita (anno 47 dopo Cristo) Primo giorno

Nella grande casa sul Viminale risuonavano i flauti. Il chiacchiericcio degli ospiti si mescolava alle note melodiose degli auloi, confondendosi con lo scalpiccio ovattato degli schiavi triclinari.
«Il popolo non si preoccupa del bene comune, vuole soltanto riempirsi il ventre» dichiarò uno dei commensali coricati nel triclinio emisferico mentre estraeva col coltello un gigantesco boccone di pernice dal suo letto di bacche e se lo portava alla bocca. «Tocca alla classe dirigente pensare al suo posto, è il fardello che la Storia le ha assegnato. Al contrario dei seguaci di Epicuro, noi stoici ci impegniamo a fondo nella gestione della cosa pubblica, a scapito del nostro interesse!» concluse poi, masticando con vigore.
«Mi inchino davanti alla dedizione assoluta al bene dei cittadini di cui la tua nobile condotta ci fornisce un esempio egregio, nobile Quinto Paccio!» annuì maligno l’anfitrione, che da convinto epicureo si sentiva direttamente chiamato in causa. «Sappiamo tutti quanto tempo e quante risorse hai sottratto alle tue attività private per organizzare la spedizione militare in Bitinia!»
Tra i sedicenti filosofi riuniti a convivio scese un silenzio imbarazzato. Il senatore Publio Aurelio Stazio aveva parlato in tono leggero, ma a nessuno erano sfuggite le implicazioni del suo commento: correva voce che, durante il mandato di governatore, Quinto Paccio Cecina avesse prestato soldi a strozzo ad alcuni reucci orientali e ora, non riuscendo a recuperare i crediti, si apprestasse a inviare le legioni in una spedizione punitiva a suo totale e personalissimo vantaggio.
Paccio era noto come un intrallazzatore con le mani in pasta in molti affari sporchi; d’altra parte, però, dar troppa corda a quell’impiccione del senatore Stazio avrebbe significato cacciarsi nei guai, quindi conveniva annuire con un sorriso sciocco e dedicarsi di lena ai manicaretti che il prodigo aristocratico aveva apprestato nella sua vasta domus per il simposio annuale dei filosofi.
Improvvisamente il ruminare delle mandibole impegnate a masticare mitili, seppie, ostriche e calamari coprì col suo laborioso fervore le note dell’aulos in cui, dietro a una fitta cortina di veli, soffiavano i flautisti.
«Bel tempo, oggi...» dichiarò vago un anziano studioso.
«Piacevolmente mite, data la stagione» gli fece eco un secondo, e subito un serrato dibattito sulle condizioni atmosferiche assorbì i pensieri e le speculazioni delle menti più brillanti dell’Impero.
Quando l’ultimo ospite si fu accomiatato, l’intendente Paride si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: era andata liscia un’altra volta, tutto si era svolto come previsto, compresa la solita protesta del vicino pignolo. Per il momento, dunque, non sarebbero arrivati i pretoriani a porre i sigilli alla domus, nessun sicario prezzolato avrebbe colpito a tradimento il senatore in pieno Foro e, con un po’ di fortuna, si poteva anche sperare che i membri della Curia rimandassero la decisione di deferire a giudizio il loro irriverente collega con qualche accusa abilmente montata.
Per il resto bisognava portar pazienza, si impose Paride valutando a colpo d’occhio i danni arrecati alle costose suppellettili: cinque cuscini unti, due vassoi a pezzi e il prezioso calice iridescente appartenuto a Cleopatra VII ridotto in frantumi, senza contare i cucchiai e i mestoli d’argento che gli illustri ospiti si erano intascati mentre il senatore fingeva signorilmente di non accorgersene.
Il procurator sospirò di nuovo. Adempiere ai compiti di amministratore e capo della servitù di Publio Aurelio Stazio era un impegno gravoso e non esente da fastidi, ma non avrebbe cambiato il suo lavoro con nessun altro al mondo. Se soltanto il padrone fosse stato un po’ più prudente, se l’avesse piantata di correr dietro alle mogli altrui, di frequentare gente poco raccomandabile e prendere per i fondelli i membri più illustri della Capitale... sarebbe bastato poco, due o tre giaculatorie, un paio di sacrifici nei giorni giusti, qualche sorriso garbato e un po’ di riguardo per le persone dabbene. Aurelio invece preferiva ostentare il suo scetticismo, schernire i potenti e circondarsi di individui strambi, di donne eccentriche o subdoli ciurmatori come il segretario Castore, un servo astuto che aveva il potere di istigare i suoi peggiori istinti.
Lupus in fabula. «Una visita per il dominus» annunciò in quel momento una voce impastata di vino che l’intendente conosceva fin troppo bene. Non pago di essersi sollazzato con la flautista, quel ladro matricolato del segretario aveva attinto abbondantemente alle anfore degli ospiti, contando sull’insana indulgenza di Aurelio per evitare ancora una volta il meritato castigo.
«Chiunque sia, rimandalo indietro: non intendo consentire l’accesso a nessuno a quest’ora!» escluse il procurator.
«Si tratta di una donna» replicò Castore ridacchiando. «Non avendo fatto voto come te alla casta Artemide, al padrone capita talvolta di ricevere visite anche a tarda notte.»
Paride gemette: Publio Aurelio Stazio era giusto e buono, ma aveva anche lui le sue piccole pecche... e l’inclinazione nei confronti delle femmine era senz’altro quella più spiccata.
«Chiederò se intende riceverla» disse in tono sostenuto, avviandosi verso i quartieri padronali.
In attesa di convocare le ancelle per la vestizione notturna, Publio Aurelio sedeva al minuscolo tavolo di legno di rosa indossando ancora la synthesis da banchetto, con le ampie maniche rimboccate sugli avambracci. Impaziente, si accinse a esaminare il rotolo che uno degli ospiti gli aveva passato di soppiatto durante la gustatio delle ostriche: si trattava della solita, prolissa perorazione con cui il filosofo Seneca, confinato in Corsica, lo pregava di intervenire in suo favore presso Claudio Cesare perché ponesse fine al suo esilio.
Aurelio sbuffò. Sebbene epicureo, condivideva molte delle convinzioni del famoso pensatore stoico, tuttavia lo stimava pochissimo. Non era la teoria di quel grande maestro di dottrina morale a disturbarlo, bensì la pratica: a dirla in parole povere, Seneca predicava bene ma razzolava assai male. Naturalmente avrebbe trasmesso l’istanza al Palatino, ma già sapeva che Claudio non si sarebbe fatto commuovere dalle espressioni adulatorie con cui il filosofo lo lusingava in pubblico, continuando in privato a dipingerlo come un fantoccio nelle mani dei liberti imperiali e della moglie Messalina.
Il patrizio era sul punto di chiudere con uno sbadiglio il rotolo nella sua custodia, quando l’annuncio del capo della servitù gli infuse una nuova sferzata di energia: certo la giovane moglie del senatore Lentulo, liberatasi per qualche ora del suo anziano e catarroso consorte, era venuta a tenergli compagnia durante la notte...
«Falla entrare, presto!» ordinò mentre rizzava le spalle, controllando che le pieghe della synthesis ricadessero a dovere: a quarantaquattro anni, si reputava un uomo attraente e i molti successi galanti contribuivano a rassicurarlo non poco, facendolo sentire ancora sulla breccia. O forse era semplicemente la vacua insulsaggine dei suoi colleghi a spingere verso di lui le giovani spose annoiate, pensò apprestandosi a ricevere degnamente la sua ultima amante.
Ma la donna che comparve sulla soglia non aveva nulla in comune con le matrone romane. Avvolta in una pelle di cervo sormontata da un cappuccio maculato, si stringeva addosso la veste informe di lana grezza, sorretta sulla spalla sinistra da una fibula di oricalco; il braccio destro, nudo, era modellato come quello di un arciere.
Un abbigliamento bizzarro, ma non eccessivo in una metropoli abitata da gente di contrade diverse, dove la moda cambiava ogni giorno, proponendo gli accostamenti più azzardati, si disse il senatore. Ciò che spiccava invece per il suo deciso esotismo era l’acconciatura che la sconosciuta rivelò facendo scivolare all’indietro la falda di pelliccia: i capelli, di un biondo un po’ opaco, erano stretti in innumerevoli treccine chiuse da perle di osso e raccolte sul capo da un fermaglio a forma di mezzaluna.
Publio Aurelio la osservò incuriosito, pensando a quanto sarebbe piaciuta quella foggia originale a Pomponia, moglie del suo amico Servilio, che primeggiava tra tutte le signore di Roma nelle competenze mondane, nella lingua lunga e nello speciale talento per cacciarsi nei guai.
Fu come se la matrona fosse stata evocata. Quando Aurelio guardò interrogativamente la strana ospite per domandarle la ragione della sua presenza, questa fece un passo verso di lui e gli gettò in grembo un pezzo di stoffa su cui spiccava un Pegaso purpureo.
Il patrizio rabbrividì: quella palla, unica nel suo genere, era stata commissionata a uno stuolo di abili ricamatrici proprio da Pomponia, che a detta del marito in quel momento si trovava nel Sannio ospite di Domitilla, sua complice e rivale nella competizione per il titolo di pettegola più informata dell’Urbe.
«Dove hai preso questo tessuto?» chiese il senatore aggrottando le sopracciglia, mentre l’occhio gli correva alla porta dietro cui decine di schiavi erano pronti a intervenire a un suo cenno.
«Chiama le guardie e non vedrai mai più la tua amica» disse la donna sferzante. «Se invece ti interessa riaverla in buona salute, ascoltami.»
Pochi istanti dopo, i due erano seduti sulle sellae d’ebano, davanti al tavolino di legno di rosa. Castore, entrato ammiccante a servire i beveraggi, rivolse alla strana ospite un mare di complimenti, scambiandola per una nuova conquista del padrone: si trattava al solito di una femmina singolare, né troppo giovane né particolar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NEMESIS
  4. CARTINA
  5. Glossari
  6. Copyright