L’importanza della concentrazione
La concentrazione (samādhi) e la quiete (samatha, śamatha) apportano molti benefici. La quiete unita alla visione profonda (vipassanā, vipaśyanā) dell’assenza del sé sradica le cause del saṃsāra. Consente di sviluppare qualità virtuose, di incorporare nella mente la comprensione del Dharma e di ottenere i poteri psichici, tutti elementi essenziali per aiutare gli altri in modo efficace. Se la nostra intenzione di dare concretezza ai sentieri è seria, la pratica del samādhi è un dovere.
È utile, naturalmente, saper concentrare in modo univoco la mente, ma è necessario innanzitutto sviluppare una vasta comprensione del Dharma e coltivare la motivazione adatta a impegnarsi in pratiche quali la rinuncia o bodhicitta. Se miglioriamo nel samādhi con l’intento di ottenere poteri psichici, diventare famosi, o conservare uno stato meditativo di beatitudine, non rendiamo a noi stessi un buon servizio. L’impegno che profondiamo nello sviluppo della concentrazione porterà benefici di poco conto, se paragonati ai frutti della concentrazione coltivata con una motivazione che aspira alla liberazione o al risveglio.
Il senso del termine «concentrazione» dipende dal contesto in cui è utilizzato. Nella nostra mente c’è già il fattore mentale della concentrazione, benché depotenziato. Artisti, studenti, atleti e meccanici hanno bisogno della concentrazione, ma nel nobile ottuplice sentiero il termine assume un altro senso: si riferisce in particolare alla concentrazione univoca che porta alle quattro stabilizzazioni meditative (jhāna, dhyāna). La concentrazione è un potente stato psichico, capace di controllare l’attività mentale e l’insorgenza delle afflizioni. La quiete è la concentrazione sostenuta dalla beatitudine della flessibilità (passaddhi, praśrabdhi), capace di conservare la mente in equilibrio sul suo oggetto. Le «concentrazioni» sono inoltre alcune meditazioni particolari che consentono al praticante d’impegnarsi in attività specifiche.
La concentrazione unifica in modo equilibrato la mente primaria e i fattori mentali associati, dirigendoli sull’oggetto meditativo. Garantisce attenzione e presenza mentale ininterrotte sull’oggetto e genera tranquillità mentale. Priva di afflizioni manifeste, la concentrazione assomiglia a uno specchio che riflette nitidamente gli oggetti. Quando si combina con la saggezza, una mente così disposta porta a intense realizzazioni. È tutt’altra cosa dalla solita mente distratta che vede solo in superficie e spesso è preda delle afflizioni.
È importante addestrarsi al samādhi sotto la guida di un insegnante esperto. Lavorare con la mente è un’impresa rischiosa e delicata e, senza una guida adeguata, è possibile smarrirsi. Un buon maestro di meditazione, consapevole delle esperienze che possono verificarsi durante la pratica, è in grado di guidare con abilità e correttezza il meditante, confermarne i progressi, impedirne le preoccupazioni e le inutili deviazioni dal sentiero.
Il Buddha in persona diede molta importanza al conseguimento del samādhi e dei jhāna. Nei commentari e nel Visuddhimagga della tradizione pāli si trovano molte istruzioni particolareggiate per la pratica della meditazione. Nella tradizione sanscrita, i commentari redatti da Maitreya, Asaṅga e Kamalaśīla analizzano estesamente la quiete e la concentrazione.
I regni dell’esistenza e le sfere della coscienza
Prima di addestrarsi a conseguire il samādhi è utile avere una certa dimestichezza con i regni (livelli o piani di esistenza; bhūmi) e con le sfere della coscienza (avacara), così come sono stati descritti nell’Abhidhamma del canone pāli. Il saṃsāra si compone di tre regni: il regno del desiderio, il regno della forma (materiale) e quello della non forma (immateriale). A questi ultimi corrispondono le tre sfere della coscienza: coscienza della sfera sensuale o del desiderio (kāmāvacaracitta), coscienza della sfera della forma (rūpāvacaracitta) e coscienza della sfera della non forma (arūpāvacaracitta) (AB I, 3). Esiste anche una coscienza trascendente (lokuttaracitta). Le sfere della coscienza sono livelli mentali, mentre i regni sono i piani dell’esistenza in cui nascono gli esseri senzienti.
Le tre sfere della coscienza sono livelli mondani; fanno parte del saṃsāra e del vero dukkha. Benché si manifesti la maggior parte delle volte nel regno corrispondente, una determinata sfera di coscienza non è riservata a quell’unico regno. La coscienza della sfera della forma, per esempio, si manifesta più spesso negli esseri nati nel regno della forma. Un essere umano che si trova nel regno del desiderio, tuttavia, può coltivare la concentrazione profonda al punto che, quando entra nell’assorbimento meditativo, la sua mente si trasforma in una coscienza della sfera della forma. In base all’intensità della sua concentrazione, entra e permane nel primo, nel secondo, nel terzo o nel quarto jhāna. Se la concentrazione è ancora più sottile, la sua mente si trasforma in una coscienza della sfera della non forma; quando riemerge dalla meditazione, tuttavia, la sua mente si ritrova nella coscienza della sfera del desiderio.
Monaci theravāda durante il giro delle elemosine, Thailandia. (Don Farber)
Se un essere umano consegue uno specifico livello di assorbimento meditativo e lo mantiene per il resto della sua vita, crea il karma adatto a rinascere in quel regno dopo la morte. Il meditante che penetrasse nella sfera della coscienza definita base del nulla del regno immateriale, per esempio, creerebbe il karma utile a rinascere nel regno della base del nulla dopo la morte.
La tradizione pāli
La tradizione dei commentari in pāli formalizzata nel Visuddhimagga riconosce quaranta oggetti meditativi per mezzo dei quali coltivare la quiete. Di solito, l’insegnante di meditazione prescrive al discepolo uno degli oggetti seguenti, in conformità con il temperamento dell’allievo:
- I dieci kasiṇa (totalità): terra, acqua, fuoco, aria, blu, giallo, rosso, bianco, spazio limitato e luce.
- I dieci oggetti ripugnanti (asubha): cadaveri in diversi stadi di decomposizione.
- Le dieci contemplazioni (anussati, anusmṛti): consapevolezza del Buddha, del Dhamma, del Saṅgha, della moralità, della generosità, delle divinità (le qualità divine degli esseri celesti), della morte, delle parti del corpo, del respiro e del nibbāna.
- I quattro stati sublimi (brahmavihāra), o quattro incommensurabili (appamañña, apramāṇa): amore (mettā, maitrī), compassione (karuṇā), gioia (muditā) ed equanimità (upekkhā, upekṣā).
- Gli oggetti meditativi dei quattro stati immateriali, in ordine ascendente: le basi dello spazio illimitato, della coscienza illimitata, del nulla e della né-percezione-né-non-percezione.
- Una percezione (ekasaññā): discernere la ripugnanza del nutrimento.
- Un’analisi (dhātuvavaṭṭhāna): la definizione dei quattro elementi.
Non tutti i quaranta oggetti meditativi sono specifici del buddhismo. I kasiṇa e i quattro oggetti degli stati immateriali sono utilizzati da meditanti di altre fedi. Meditare sulla consapevolezza del corpo e del respiro, sulla percezione della ripugnanza del nutrimento e sull’analisi dei quattro elementi porta unicamente alla concentrazione d’accesso (upacāra samādhi). Tutti gli altri oggetti conducono al pieno assorbimento (appāna samādhi), ovverosia i jhāna. Uno dei kasiṇa è la condizione essenziale per coltivare i primi cinque poteri psichici.
Certi oggetti si adattano meglio alle persone che hanno un determinato temperamento. Chi prova un attaccamento intenso si concentra sui dieci oggetti ripugnanti e sulle parti del corpo; chi patisce a causa della rabbia si serve di uno dei quattro stati sublimi o dei quattro kasiṇa dei colori. La mente che si disperde con facilità medita sul respiro. Chi è incline alla fede è attratto dalle prime sei contemplazioni. L’intelligente si concentra sulla morte, sul nibbāna, sull’analisi dei quattro elementi e sulla ripugnanza del nutrimento. Gli altri kasiṇa e gli oggetti dei quattro stati immateriali possono essere utilizzati da tutti.
Prima di raggiungere un posto tranquillo dove praticare, pensate di dare la vostra vita al Buddha. È un pensiero che rinsalda la mente. Sono altrettanto importanti la giusta motivazione e la forte determinazione ad affrontare le afflizioni e lavorare con esse. Chiedete al vostro insegnante un oggetto di meditazione e riceverete le istruzioni su come poterlo usare per sviluppare il samādhi.
Al principio di una sessione meditativa, passate in rassegna gli svantaggi dei desideri sensuali e coltivate il desiderio di liberarvene. Rammentate le qualità dei Tre Gioielli, provate la gioia di imboccare il sentiero della rinuncia seguito da tutti gli ariya, e abbiate fiducia nella possibilità di conseguire la beatitudine del nibbāna.
Nel processo che conduce allo stato di samādhi si osservano tre «segni»: il segno preliminare (parikamma nimitta), l’impronta appresa (uggaha nimitta) e l’impronta dell’equivalente (paṭibhāga nimitta). Prendendo come esempio il kasiṇa della terra, il meditante crea il disco dell’elemento: una forma rotonda d’argilla pura del diametro di circa dieci centimetri, che colloca su una tavola di fronte a sé. Lo guarda con gli occhi aperti pensando «terra, terra». Quando l’immagine della terra è ben salda nella sua mente, chiude gli occhi e ripete «terra, terra». Adesso il vero e proprio oggetto della meditazione è l’immagine della terra, ovverosia un oggetto della coscienza mentale e non di quella visiva. Questo è il segno preliminare. Se l’immagine sbiadisce, il meditante apre gli occhi e guarda il kasiṇa della terra per rinnovare la visualizzazione, torna ad abbassare lo sguardo e medita sull’immagine della terra che compare nella coscienza mentale. In tal modo «elabora il segno» e crea l’immagine nella sua mente a volte con gli occhi aperti, a volte chiusi. In questo stadio iniziale della pratica, lo stato mentale in cui si trova la persona è denominato concentrazione preparatoria (parikamma samādhi), in cui gran parte dello sforzo è volta a mantenere la presenza mentale sull’oggetto, accorgersi dell’insorgenza di una distrazione o di un altro ostacolo, applicare l’antidoto e riportare la mente sull’oggetto della meditazione.
Il meditante continua a sviluppare il segno preliminare fino al momento in cui sorge l’impronta appresa. Questo oggetto più sottile sostituisce il segno preliminare e sorge quando il meditante vede l’immagine mentale a occhi chiusi con la stessa nitidezza di quando guarda il kasiṇa. Adesso la persona smette di rivolgere lo sguardo al kasiṇa esterno e si concentra esclusivamente sull’oggetto mentale, l’impronta appresa. Se, tuttavia, l’apprendimento dell’oggetto si attenua, il meditante torna a guardare il kasiṇa concreto della terra. A questo punto si rende necessario un intenso sforzo di concentrazione (vitakka) per acquisire familiarità con l’impronta appresa.
Continuando a meditare, i cinque ostacoli (che saranno trattati tra breve) sono a poco a poco annullati dai cinque fattori dell’assorbimento (jhānaṅga). Qui, «annullamento» indica che gli ostacoli manifesti non compaiono più. L’annullamento dei cinque ostacoli dona maggiore chiarezza e capacità di percepire il funzionamento della mente. La mente e il corpo si sentono a proprio agio; la mente è virtuosa e la persona prova piacere o equanimità.
Non turbata dalle afflizioni manifeste né dai cinque ostacoli, la mente diviene più concentrata. Sorge l’impronta dell’equivalente e si raggiunge il livello della concentrazione d’accesso. Mentre l’impronta appresa contiene imperfezioni, l’impronta dell’equivalente è più brillante e purificata. Bella, luminosa e vivida, non ha colore o forma fisica ed è oggetto unicamente della coscienza mentale. Manca delle tre caratteristiche dell’impermanenza e di altre analoghe. Stabilizzare l’impronta dell’equivalente è difficile, perciò il meditante deve sorvegliarla attentamente e continuare a praticare per raggiungere il pieno assorbimento.
La quiete inizia a manifestarsi nello stato della concentrazione d’accesso che precede il primo jhāna. Laddove la concentrazione d’accesso, detta anche stadio della sospensione per annullamento (vikkhambhana-pahāna), è contrassegnata dalla soppressione dei cinque ostacoli, il primo jhāna è un assorbimento pieno ed è caratterizzato dallo sviluppo completo, stabile, dei cinque fattori dell’assorbimento. I fattori dell’assorbimento sono presenti nella concentrazione d’accesso, ma non sono consolidati, e il meditante si allontana facilmente da quello stato mentale. Al contrario, i fattori dell’assorbimento sono forti e stabili nel jhāna pienamente sviluppato, dove si verifica uno spostamento nella sfera della coscienza. La mente nello stato di pieno assorbimento non percepisce gli oggetti dei sensi, ma funziona come coscienza della sfera della forma. In questo momento, la persona si trova nella meditazione seduta.
Molti maestri di meditazione consigliano di usare il respiro come oggetto meditativo, perché concentrandosi su di esso si rallentano i processi del pensiero e si sgombra la mente dai pensieri dispersivi. In questo caso, si comincia con l’osservare le sensazioni fisiche del respiro tra le narici e il labbro superiore, mentre l’aria entra ed esce. L’impronta appresa è un’immagine che sorge da questa sensazione fisica. Quando si manifesta, il meditante volge l’attenzione al nimitta, che assume la forma di una sfera colorata e luminosa, o di una luce radiante, che diventa l’oggetto della meditazione.
I cinque ostacoli e i cinque fattori dell’assorbimento
Presenti in entrambe le tra...