I due prigionieri rimasti nella cella parlano piano. Il primo lavorava in una fabbrica di scarpe. Ha ucciso un uomo da ubriaco. Il secondo era un poliziotto che ha denunciato un superiore. Si sono addormentati in carcere e si sono svegliati nella Scatola.
Il fabbricante di scarpe dorme quasi tutto il giorno, il poliziotto non dorme quasi più. Quando sono svegli entrambi parlano per tenere lontane le voci. Sono sempre più forti, ormai urlano tutto il tempo. A volte ci sono anche i colori, talmente brillanti da accecarli. È l’effetto delle medicine che devono prendere ogni giorno, è l’effetto del casco che gli mettono in testa e che li fa contorcere come vermi su una padella rovente.
Il padre del fabbricante di scarpe è stato in una prigione della sua città ai tempi della guerra. Nei sotterranei c’era una stanza dove ti facevano stare in bilico su un’asse, se ti muovevi cadevi nell’acqua gelida. Un’altra era talmente piccola che i prigionieri potevano stare solo rannicchiati. Nessuno sa quante persone siano state torturate nei sotterranei di quella casa, nessuno sa quante siano state uccise. Migliaia, dicono.
Ma la Scatola è peggio. Da quell’antico palazzo se eri fortunato potevi tornare a casa. Ferito, stuprato, ma vivo, come il padre del fabbricante di scarpe.
Nella Scatola puoi solo aspettare di morire.
La Scatola non è un palazzo, non è una prigione. È un cubo di cemento senza finestre. La luce del giorno filtra dalle grate del cortile sopra le loro teste, cortile che quelli come loro possono vedere una volta sola, l’ultima. Perché quando ti portano fuori all’aria significa che sei ormai troppo malato. Perché hai aggredito una guardia, o ucciso un compagno di cella. Perché ti sei mutilato, o hai cominciato a mangiare i tuoi escrementi. Perché non reagisci più ai trattamenti e sei diventato inutile.
Il poliziotto e il fabbricante di scarpe non sono ancora arrivati a quel punto, anche se sanno che manca poco. Sono stati spezzati, hanno implorato e pregato, ma non si sono persi, non del tutto. E quando è arrivata la Ragazza, hanno cercato di proteggerla.
La Ragazza deve avere tredici anni, forse meno. Da quando è stata spostata nella cella con loro non ha mai detto una parola. Li ha solo guardati con gli occhi color cobalto, che con la testa rapata sembrano enormi.
Non interagisce, rimane distante. Il poliziotto e il fabbricante di scarpe non sanno niente di lei, se non le ipotesi che hanno attraversato i corridoi della Scatola. Chiudi dei prigionieri nel luogo più impervio e crudele, dividili, ammanettali, strappa loro la lingua e troveranno ancora il modo di comunicare. Battendo sulle pareti in codice Morse, sussurrando nelle docce, facendo arrivare biglietti col cibo o nel secchio degli escrementi.
Qualcuno dice che è entrata nella Scatola con tutta la famiglia ed è l’unica sopravvissuta. Qualcuno che è una zingara che ha sempre vissuto per strada. Qualunque sia la verità, la Ragazza non la rivela. Rimane nel suo angolo attenta alle loro mosse, diffidente. Fa i suoi bisogni nel secchio, prende il cibo e l’acqua che le spettano, sempre senza parlare.
Nessuno conosce il suo nome.
La Ragazza è stata portata fuori dalla cella tre volte. Le prime due è tornata con il sangue in bocca e i vestiti stracciati. I due uomini, che pensavano di non avere più nulla dentro, hanno pianto per lei. L’hanno lavata, l’hanno costretta a mangiare.
La terza volta il poliziotto e il fabbricante di scarpe hanno capito che sarebbe stata l’ultima. Quando le guardie vengono per portarti in cortile, cambia il suono dei loro passi, cambiano i loro modi. Diventano più gentili, più calmi, per non farti agitare. Ti fanno prendere la tua coperta, il tuo piatto di latta puzzolenti di disinfettante che saranno destinati al prossimo prigioniero, e ti conducono di sopra.
Quando si è aperta la porta hanno cercato di alzarsi per proteggerla, e la Ragazza per la prima volta è sembrata accorgersi dei due uomini che hanno diviso con lei la cella per quasi un mese. Ha fatto no con la testa, poi ha seguito le guardie a passo lento.
Il fabbricante di scarpe e il poliziotto hanno aspettato il rumore del camion, quello che porta via i corpi dal cortile dopo la mannaia, perché è una mannaia da macellaio che ti impartisce la benedizione per l’ultimo viaggio. Un tragitto breve, appena fuori dalle mura, dove c’è un campo circondato dalla neve e dal niente. È stato un altro prigioniero a raccontarlo, perché era nella squadra che seppellisce i corpi. Ha detto che ce ne sono almeno cento sotto terra, e che non hanno più il viso o le mani: la Scatola non vuole che siano riconosciuti, se mai fossero ritrovati. Poi il prigioniero che seppelliva i morti si è bucato le orecchie con un chiodo per cercare di zittire le voci. Adesso anche lui ha fatto l’ultimo viaggio.
Sono passati venti minuti, ma il poliziotto e il fabbricante di scarpe non hanno ancora sentito il vecchio motore diesel mettersi in moto cigolando. Sotto le voci delle loro teste, sotto le urla delle celle vicine c’è solo silenzio.
Poi la porta della cella si apre di scatto. Non è una guardia, non è uno dei medici che regolarmente fanno loro visita.
È la Ragazza.
Ha il pigiama coperto di sangue e uno schizzo le è arrivato anche sulla fronte. Lei sembra non badarci. Ha in mano il grosso mazzo di chiavi che apparteneva alla guardia che l’ha scortata fuori. Anche le chiavi sono sporche di sangue.
«È ora di andare» dice.
In quel momento il suono della sirena squarcia l’aria.
La morte arrivò a Roma a mezzanotte meno dieci con un treno ad alta velocità partito da Milano. Entrò alla stazione Termini, si fermò al binario 7 rovesciando sulla banchina una cinquantina di passeggeri con pochi bagagli e facce stanche, che si smistarono tra l’ultima corsa della metropolitana e la fila dei taxi, poi spense le luci a bordo. Dalla carrozza Top stranamente non uscì nessuno – le porte pneumatiche erano rimaste chiuse –, e un assonnato capotreno la sbloccò dall’esterno e salì a bordo a controllare se vi fosse qualcuno addormentato.
Fu una cattiva idea.
La sua scomparsa venne notata dopo una ventina di minuti da un agente della Polizia Ferroviaria che aspettava il capotreno per una birretta al bar dei marocchini prima di smontare il turno. Non erano amici, ma a forza di incontrarsi tra i binari avevano scoperto di avere delle cose in comune, come la passione per la stessa squadra di calcio e le donne con il sedere abbondante. L’agente salì sulla carrozza e scoprì il suo compagno di bevute raggomitolato nel corridoio intercomunicante, con gli occhi spalancati e le mani alla gola come se cercasse di strangolarsi da solo.
Dalla bocca gli era uscito un fiotto di sangue che aveva lasciato una pozza sul tappetino antisdrucciolo. L’agente pensò che era il morto più morto che avesse mai visto, ma gli toccò comunque il collo in cerca di un battito che sapeva non avrebbe trovato. Probabilmente un infarto, pensò. Avrebbe potuto continuare l’esame del convoglio, ma c’erano regole da rispettare e rogne da evitare. Tornò dunque subito a terra e chiamò il Centro Operativo perché mandassero qualcuno della Polizia Giudiziaria e avvisassero il magistrato di turno. Non vide così il resto della carrozza e quello che conteneva. Gli sarebbe bastato allungare una mano e far scorrere la porta di vetro smerigliato per cambiare la propria sorte e quella di coloro che arrivarono dopo di lui, ma non ci pensò neppure.
Il sopralluogo toccò così a un vicequestore della terza sezione della Squadra Mobile – che tutti tranne i poliziotti chiamavano la Omicidi –, una donna tornata in servizio dopo una lunga convalescenza e una serie di disavventure che erano state oggetto di discussioni per mesi in tutti i talk show. Si chiamava Colomba Caselli, e più avanti qualcuno ritenne il suo arrivo un colpo di fortuna.
Non lei.
Colomba arrivò alla stazione Termini all’una meno un quarto con un’auto di servizio. Alla guida c’era l’agente scelto Massimo Alberti, 27 anni e una di quelle facce che sembrano sempre da ragazzino anche da vecchi, con efelidi e capelli chiari.
Colomba, invece, di anni ne aveva 33 nel corpo e qualcuno di più negli occhi verdi che mutavano tonalità con l’umore. Portava i capelli neri annodati stretti sulla nuca, che mettevano ancora più in evidenza gli zigomi forti, da orientale, presi da chissà quale lontano progenitore. Scese dall’auto e raggiunse il binario dove sostava il treno arrivato da Milano. Accanto vi erano quattro agenti della Polizia Ferroviaria, due seduti sulla ridicola biposto elettrica che la polizia usava dentro la stazione e altri due accanto ai respingenti: erano giovani e fumavano tutti. A poca distanza qualche curioso stava scattando fotografie con il cellulare e un gruppetto di una decina tra addetti alle pulizie e paramedici discuteva a bassa voce.
Colomba mostrò il tesserino e si presentò. Uno degli agenti l’aveva vista sui giornali e fece il solito sorriso scemo. Lei finse di non accorgersene. «Che vagone?» chiese.
«Il primo» rispose il più alto in grado mentre gli altri gli si mettevano dietro quasi a usarlo come scudo.
Colomba cercò di guardare attraverso i finestrini bui ma non distinse nulla. «Chi di voi è salito?»
Ci fu un giro di sguardi imbarazzati. «Un nostro collega, ma ha smontato il turno» disse quello di prima.
«Ma tanto non ha toccato niente, ha solo guardato. Anche noi, dal marciapiede» disse un altro.
Colomba scosse la testa, irritata. Un cadavere significava passare la notte in bianco in attesa che il magistrato e il medico legale finissero, e un’infinità di documenti e rapporti da compilare: non si stupiva che l’agente si fosse defilato. Avrebbe potuto lamentarsi con i suoi superiori, ma anche lei amava poco perdere tempo. «Sapete chi è?» chiese infilandosi i guanti di latex e i copriscarpe di plastica azzurra.
«Si chiama Giovanni Morgan, fa parte del personale viaggiante» disse il più alto in grado.
«Avete già avvis...