Rifugi e ritorni
eBook - ePub

Rifugi e ritorni

Storie del mio lungo viaggio tra rifugiati, filantropi e assassini

  1. 324 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Rifugi e ritorni

Storie del mio lungo viaggio tra rifugiati, filantropi e assassini

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Fin da piccolo ero attratto da ciò che richiedeva un viaggio, nello spazio o nel tempo. Mi piacevano la storia e la geografia. Avevo un interesse speciale per i confini costantemente mutevoli. Nella mia famiglia paterna ci sono state molte donne pratiche e pie, dedite a quella forma di filantropia che si chiamava, senza remore, "beneficenza". Mia madre, anch'essa di origine borghese, ma più aperta ai fermenti del mondo, aveva una formidabile energia organizzativa, che non si fermava di fronte a nessun ostacolo.» Sono questi i ricordi che Filippo Grandi, oggi Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, porta con sé quando nel 1984, dopo la laurea e il servizio civile, decide di partire volontario per assistere i profughi cambogiani sospinti nella Thailandia nordorientale da anni di guerra. L'esperienza è così straordinaria e coinvolgente da trasformarsi in una scelta di vita, le cui tappe fondamentali, scandite dall'impegno in diverse agenzie di cooperazione internazionale, sono ripercorse in pagine vivide, intense, spesso toccanti.

Dai curdi iracheni in fuga nei paesi vicini a causa dei massacri perpetrati dal regime di Saddam Hussein ai profughi ruandesi dispersi a migliaia nelle foreste dell'Africa centrale, dagli afghani di ritorno da Iran e Pakistan dopo la caduta dei taliban ai rifugiati palestinesi in territorio siriano, costretti a fuggire di nuovo dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011, Grandi descrive paesaggi, talvolta di incantevole bellezza, devastati dall'orrore della fame e della guerra. E racconta le difficoltà, le paure e le insidie, ma anche le piccole e grandi gioie, che costellano il rapporto quotidiano con persone bisognose e terrorizzate, con vittime e carnefici, filantropi e assassini, in un inestricabile intreccio di miseria e ricchezza, cinismo ed empatia, odio e solidarietà.

Su tutto, il tenace, infaticabile sforzo di riparare, con mezzi sempre limitati, i guasti prodotti dalla violenza e da spaventose ingiustizie alle quali, chi non vuole rinunciare alla propria missione, deve talora piegarsi pur di ottenere un piccolo ma in realtà enorme risultato: una vita salvata, un bambino sfamato, un profugo rimpatriato.

Di fronte agli oltre 65 milioni di profughi sparsi in tutto il mondo, l'imperativo dell'UNHCR e delle altre organizzazioni umanitarie, ci dice Grandi, è sempre quello – eticamente irrinunciabile – di «esserci», in qualsiasi condizione, con qualsiasi prospettiva, a qualsiasi prezzo.

Filippo Grandi, dopo una lunga carriera nelle agenzie di cooperazione internazionale, dal 1° gennaio 2016 è Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Rifugi e ritorni di Filippo Grandi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia mondiale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852079030
Argomento
Storia
V

Afghani

Storia e geografia

Le prime credenziali diplomatiche della mia carriera le ho presentate all’emissario di un governo considerato illegittimo dalla diplomazia internazionale: il mullah Zaeef.
Abdul Salam Zaeef era l’ambasciatore dell’emirato del­l’Afgha­nistan in Pakistan, vale a dire l’inviato del governo dei taliban. Le mie credenziali – per il posto di capo missione dell’UNHCR in Afghanistan – non erano formali: il seggio afghano all’ONU era occupato dal rappresentante del Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, altrimenti noto come «Alleanza del Nord»: il governo considerato legittimo dalla comunità internazionale, che però controllava soltanto una piccola zona del paese. Il resto dell’Afghanistan, da qualche anno, era sottoposto all’autorità dei taliban, gli «studenti»: un movimento che si ispirava a princìpi religiosi islamici interpretati in modo rigido e conservatore.
Le agenzie delle Nazioni Unite operavano in Afghanistan, ma i loro uffici erano tutti a Islamabad, in una sorta di strano esilio volontario, sviluppatosi negli anni per evitare di mantenere rapporti formali con il governo dei taliban, ma anche per ragioni di sicurezza; e poi, forse, per abitudine. Se si voleva andare in Afghanistan, però, era necessaria l’autorizzazione dei taliban. Bisognava dunque passare dal mullah Zaeef, il cui ufficio, in una villetta di Islamabad, era la porta d’ingresso nel suo paese per gli stranieri che desideravano visitarlo.
L’incontro è stato cordiale. Il nuovo alto commissario, Ruud Lubbers, l’ex primo ministro olandese che era succeduto a Sadako Ogata nel gennaio 2001, mi aveva nominato capo della missione in Afghanistan nell’estate 2001 con la specifica consegna di riportare l’ufficio a Kabul nonostante l’opposizione delle Nazioni Unite. A me pareva giusto: dopotutto, in Zaire ero stato impegnato nella zona controllata da un gruppo di ribelli. Era normale che organizzazioni umanitarie come la nostra intrattenessero rapporti con autorità non sempre riconosciute: altrimenti come avremmo potuto svolgere il nostro lavoro?
Le Nazioni Unite sono un’organizzazione di Stati e dunque trattano con i governi istituzionalmente riconosciuti, anche quando l’autorità di questi ultimi è limitata o addirittura quasi inesistente. Le Nazioni Unite, d’altra parte, soprattutto quando svolgono compiti umanitari o cercano di risolvere conflitti, devono anche trattare con gruppi che controllano il territorio ma non hanno legittimità di Stato in senso legale. Sono situazioni che ho incontrato spesso, con diverse varianti: come in Cambogia, dove erano i gruppi di resistenza al governo di Phnom Penh a rappresentare la propria nazione all’ONU, ma che combattevano nelle foreste invece di amministrare il paese, e dei cui rifugiati ci occupavamo noi; o nell’Iraq settentrionale, dove avevamo aiutato migliaia di rifugiati a tornare dall’Iran, e dove i curdi dal 1991 controllavano le province del Kurdistan in quasi completa autonomia, anche se il governo rappresentato all’ONU continuava a essere quello di Saddam Hussein a Baghdad; in Zaire, naturalmente, dove avevo visto un governo riconosciuto come legittimo progressivamente disfarsi, e un movimento inizialmente illegittimo diventare governo con la forza delle armi; e adesso in Afghanistan.
È interessante paragonare il modo in cui, nelle situazioni dove avevo lavorato, gli Stati incoraggiassero le Nazioni Unite e le organizzazioni dell’ONU a trattare con gruppi antagonisti ai governi ufficialmente riconosciuti; oppure, viceversa, chiedessero all’ONU di non farlo, a seconda delle circostanze politiche e degli interessi internazionali.
Queste variazioni hanno ovviamente motivi politici. Gli anni Novanta sono stati un periodo anomalo, durante il quale abbiamo avuto libertà di muoverci tra i vari attori degli scacchieri di crisi in cui operavamo rispetto alle rigidità imposte dalla guerra fredda e dalle sue barriere ideologiche. Ma la fine di quel decennio ha visto il sorgere di un contesto diverso, in cui nuovi limiti alla capacità di operare liberamente con tutti gli attori che ci fossero parsi utili a fare il nostro lavoro erano stati imposti da una politica precisa: quella di marginalizzare entità o perfino governi visti come promotori del terrorismo organizzato, la cui force de frappe stava diventando sempre più efficace e globale.
In Afghanistan, durante il regime taliban, la situazione era simile a quella che avevo osservato in Cambogia: il governo riconosciuto dalla maggioranza degli Stati era marginale rispetto al controllo del territorio. All’inizio c’era stata una breve fase durante la quale l’avvento al potere dei taliban era stato visto positivamente dalla comunità internazionale. Per diverse ragioni: specialmente la loro battaglia contro gli abusi degli screditati mujaheddin e la maniera drastica con la quale avevano ridotto le coltivazioni di oppio. Ma negli anni successivi, le loro posizioni rigidamente ideologiche su questioni importanti, come la segregazione delle donne, l’applicazione letterale della legge islamica, l’oppressione delle minoranze sciite e la distruzione dei Buddha di Bamiyan li avevano confinati ai margini della diplomazia. Ma era soprattutto l’ospitalità data a Osama bin Laden e alle milizie di al-Qaeda che preoccupava gli americani e i loro alleati: la richiesta di starsene lontani dal regime era dunque molto tassativa per tutto il sistema ONU, e anche per noi umanitari.
Ero stato nell’Afghanistan controllato dai taliban con Sadako Ogata – l’UNHCR gestiva da tempo un programma di rimpatrio dei rifugiati afghani dai paesi vicini, anche se ben pochi ritornavano in quegli anni difficili – e avevamo faticato a convincere l’ufficio del segretario generale a New York a lasciarci andare; e quando abbiamo avuto il riluttante permesso, è stato soltanto per una visita da cui fosse esclusa Kabul, e per conseguenza qualsiasi contatto con i taliban ad alto livello. Eravamo stati solo a Herat, e il governo taliban, diviso tra l’offesa per l’aggiramento della capitale e l’opportunità di essere visto trattare con un alto funzionario delle Nazioni Unite, aveva scelto una via di mezzo e mandato il viceministro degli Esteri ad accogliere l’alto commissario.
Perciò, arrivato in Pakistan, e nonostante la richiesta di Lubbers, ho deciso di restare prudente sulla questione di un eventuale rientro della sede afghana dell’UNHCR da Islamabad a Kabul, e durante quel primo colloquio con il mullah Zaeef mi sono limitato a dirgli che intendevo trascorrere il maggior tempo possibile in Afghanistan, a cominciare da una prima visita, nella quale speravo di passare qualche settimana in giro per il paese, nelle varie province nelle quali l’UNHCR manteneva uffici per sostenere il rimpatrio dei rifugiati dal Pakistan e dall’Iran.
Zaeef si è detto molto contento della richiesta, perché visitando il paese avrei potuto constatare di persona che la situazione era diversa da come la descriveva la stampa occidentale: il suo governo, ha aggiunto, aveva ridato stabilità a molte regioni dell’Afghanistan, e se non fosse stato per i continui attacchi degli oppositori ancora trincerati in qualche distretto del Nord, la pace avrebbe prevalso ovunque e tutti i rifugiati sarebbero ritornati. Si era dichiarato fiducioso che i recenti progressi militari dei taliban in alcune zone, per esempio l’altopiano centrale, avrebbero ben presto assicurato al suo governo il controllo di tutto il paese.
Era una conversazione delicata, ma – facendomi scudo dietro l’ignoranza del nuovo arrivato – ho annuito e gli ho ripetuto che speravo di ottenere a breve il permesso di andare a Kabul. Affabile, mi ha detto di non preoccuparmi affatto. Bisognava sbrigare alcune semplici pratiche e avrei avuto il permesso. Questione di qualche giorno. Era, credo, il 5 settembre 2001.
Nell’attesa, ho partecipato a una riunione di tutti i capi delle agenzie ONU in Afghanistan, a Bhurban, sulle colline a nord di Islamabad. Tra i colleghi presenti, ero il più nuovo e inesperto di Afghanistan, e ho trascorso i due giorni della riunione prevalentemente ad ascoltare. Alcuni di loro avevano lavorato in Afghanistan per molti anni, andando e venendo dal paese in guerra. Parlavano di comandanti, di distretti remoti, di volatili alleanze, di linee del fronte variabili, di produzione di oppio. La loro conoscenza dei dettagli era impressionante. Il tema principale era come migliorare il dialogo con i taliban, il cui controllo sul paese – si riteneva – sarebbe presto stato completo. Il clima politico internazionale era avverso ma le attività delle Nazioni Unite dovevano essere rafforzate. La siccità persistente e la guerra continuavano ad aumentare il numero degli sfollati. Era dunque essenziale assicurare la prosecuzione delle attività umanitarie, ma bisognava ricominciare il lavoro di sviluppo a lungo termine, e allo stesso tempo trovare il modo di impegnare i taliban in un complesso dialogo sui diritti umani, specialmente i diritti delle donne.
La difficoltà di lavorare sotto il regime taliban, l’indifferenza della comunità internazionale alla sorte degli afghani, e la conseguente scarsità estrema di risorse per qualsiasi programma di soccorso o di sviluppo all’interno del paese avevano creato un contesto strano per i responsabili degli aiuti all’Afghanistan. Sono rimasto colpito dalla sofisticazione e dalla precisione dei dettagli delle strategie che venivano elaborate: erano piani da manuale, disegnati con cura, attenti alle sfumature di una realtà complessa e fondati sui migliori princìpi della cooperazione internazionale e dei diritti umani.
Forse era stato possibile svilupparli proprio perché un’azione concreta, su larga scala, che avrebbe dovuto affrontare realtà contraddittorie e sottostare a innumerevoli compromessi politici e operativi, era irrealizzabile. Restava dunque la purezza dei piani e la ferma intenzione dei dirigenti dell’ONU a metterli in atto quando fosse stato possibile. Sono ripartito da Bhurban con la sensazione di lasciare una ben costruita e ragionevole torre d’avorio, ma sapevo che la situazione non permetteva altro. Nessuno si immaginava che in meno di una settimana tutto sarebbe cambiato, drasticamente. L’albergo in cui si è tenuta quella riunione era a pochi chilometri da Abbottabad, dove – dodici anni dopo – sarebbe stato ucciso Osama bin Laden.
Il pomeriggio del 10, un lunedì, dopo il ritorno da Bhurban, ero nel mio ufficio, nella villetta del quartiere diplomatico di Islamabad che ospitava la sede in esilio della missione UNHCR in Afghanistan, quando i media hanno diffuso la notizia che Ahmad Shah Massoud – il più celebre tra i comandanti militari afghani e leader carismatico dell’opposizione ai taliban – era stato gravemente ferito il giorno precedente in un attentato suicida nella provincia di Takhar, nel Nordest dell’Afghanistan. L’attacco era stato compiuto da due uomini che si erano finti giornalisti belgi di origine nordafricana. Le versioni all’inizio differivano (si è dovuto aspettare diversi giorni perché il Fronte annunciasse che Massoud era morto). Si sospettava, però, fortemente il ruolo di al-Qaeda. Per l’alleanza delle forze opposte ai taliban era un colpo durissimo. Per la guerra in Afghanistan era senz’altro una svolta. Le premonizioni dei colleghi dell’ONU – un’imminente vittoria dei taliban – sono parse ancora più probabili. La mia missione afghana cominciava sotto auspici turbolenti.
Intanto avevo ricevuto dall’ufficio del mullah Zaeef, come promesso, l’autorizzazione dei taliban per andare a Kabul e nel resto del paese, secondo il piano che avevamo sottoposto all’ambasciatore. Abbiamo consultato l’ufficio di sicurezza delle Nazioni Unite e ci hanno detto che se la situazione militare non si fosse aggravata in seguito all’attentato a Massoud, i voli dell’ONU tra Islamabad e Kabul sarebbero continuati.
Ho dunque deciso di partire insieme a due colleghi quel martedì, l’11 settembre 2001.

Esserci

La prima impressione di Kabul è stata la stessa che ho avuto poi, atterrandoci innumerevoli volte, e da ogni direzione: la distesa enorme dei tetti, migliaia e migliaia di quadratini più chiari sullo sfondo uniforme, grigio e marrone, di rocce, strade e polvere; una massa urbana che copriva la pianura e le valli e si inerpicava su per le montagne aspre e sassose che circondavano la città da ogni parte, finché le ultime case, in alto, si confondevano ormai con la pietra. Era il culmine della stagione secca in un anno di siccità: non si vedeva niente di verde e il nastro del fiume Kabul, che attraversa la città prima di intraprendere la lunga discesa verso l’Indo, era completamente asciutto.
L’aeroporto era quasi in disarmo, vista la scarsità degli aerei in arrivo e partenza: le sanzioni avevano eliminato i voli commerciali e il traffico era soprattutto di piccoli velivoli che trasportavano funzionari delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie. Siamo andati all’ufficio dell’UNHCR, una bella casa in un giardino nel centro di Kabul, di fianco all’ambasciata iraniana, chiusa e deserta. C’era Yoshi Yamamoto, un giovane giapponese che dirigeva le attività nella zona della capitale, e una piccola squadra di colleghi afghani, tutti uomini, con le lunghe barbe e le tradizionali shalwar khameez rese obbligatorie dalle autorità. Alle donne i taliban avevano proibito di lavorare in ufficio, e in seguito anche da casa; dunque non erano presenti, nonostante l’UNHCR continuasse a pagare lo stipendio alle quattro impiegate colpite dal provvedimento.
Dopo le presentazioni, mi hanno detto che non era possibile passare la notte a Kabul, perché la foresteria delle Nazioni Unite – l’unico luogo autorizzato per i funzionari internazionali – era al completo. Si aspettava l’arrivo di una delegazione della Commissione europea che aveva prenotato i letti rimasti a disposizione. I colleghi ci hanno dunque proposto di andare nel villaggio di Azro, che si trovava allora nella provincia di Paktia, circa sei ore di macchina a est di Kabul. Ad Azro avremmo potuto visitare un progetto molto interessante. Tutti pensavano che sarebbe stato un modo positivo e costruttivo di inaugurare il mio incarico. Ero d’accordo.
Prima di partire ho radunato il personale nella grande sala d’ingresso dell’ufficio. Ho detto che ero contento di avere assunto le nuove funzioni, ma che mi dispiaceva di essere residente a Islamabad, per il momento. Ho promesso che avrei trascorso il maggior tempo possibile in Afghanistan. Non ho fatto cenno dell’altro impegno che avevo preso con Lubbers di riportare l’ufficio centrale e la mia residenza a Kabul: non volevo creare aspettative che avrebbero potuto essere disattese. Ho aggiunto, però, che sapevo quante volte il personale internazionale fosse stato evacuato dall’Afghanistan e costretto a operare da Islamabad, lasciando soli i colleghi afghani in situazioni difficili, e ho ripetuto che non sarebbe più successo, e che da quel momento in poi mi sarei opposto a qualsiasi tentativo delle Nazioni Unite di farci lasciare il paese.
La mia prudenza riguardo al trasferimento dell’ufficio, e la mia promessa che non ci sarebbero più state evacuazioni, dimostrano quanto ignaro fossi di quello che ci riservava il futuro imminente. Nella tarda mattinata siamo ripartiti verso est con un piccolo convoglio di due macchine.
Azro era una comunità sperduta sulle montagne vicine alla frontiera pakistana. Durante gli anni dell’occupazione sovietica molti degli abitanti erano fuggiti in Pakistan. Negli anni Novanta, però, avevano cominciato a tornare. La zona era stabile, lontana dalle province dove i taliban combattevano contro i vari gruppi dell’opposizione. L’UNHCR ad Azro gestiva un progetto sostenuto da alcuni governi, specialmente il Giappone, in cooperazione con altre organizzazioni: lo scopo era di promuovere iniziative di sviluppo locali e assicurarsi che i rimpatriati non diventassero un onere per i villaggi del distretto, molto poveri; ma che, al contrario, potessero tornare a far parte delle comunità che avevano lasciato anni prima; e portare risorse e nuove energie nei loro villaggi.
I capi della comunità e la squadra dell’UNHCR che mi accompagnava erano giustamente fieri di quel progetto. Piaceva anche a me, perché era pratico e innovativo allo stesso tempo. Per esempio, in una zona completamente priva di corrente elettrica – come gran parte dell’Afghanistan rurale – le case di Azro usufruivano di qualche ora di illuminazione ogni sera grazie a una piccola turbina costruita vicino al villaggio, che sfruttava l’energia di un torrente. Questa e altre erano iniziative della comunità che beneficiavano di fondi speciali stanziati per rendere sostenibile il ritorno dei rifugiati: un programma non solo umanitario ma a lungo termine, come dovrebbe sempre essere perché il ritorno dei rifugiati non resti un episodio fragile ed effimero. Rientrando di sera alla casa del villaggio dove avremmo passato la notte, ho pensato che i colleghi di Kabul avevano avuto ragione: il mio incarico in Afghanistan non avrebbe potuto avere miglior principio.
È da quel preciso momento che le cose hanno cominciato a cambiare precipitosamente.
Dopo la cena è stato preparato il tè all’aperto, davanti alla casa. Eravamo seduti per terra sotto un magnifico cielo stellato. L’estate stava finendo e ad Azro, tra le montagne, faceva già fresco. Ci siamo avvolti nei patoo, le coperte afghane di lana leggera dai molteplici usi. C’era un silenzio profondo, rotto solo dall’abbaiare lontano di qualche cane. In quella quiete tutto sembrava remoto, quasi atemporale: eravamo nell’Afghanistan dei taliban, in un nodo pericoloso della politica internazionale, ma il cielo era maestoso; le montagne di pietra si stagliavano immobili nel buio; i gesti dell’ospitalità tradizionale si susseguivano, fluidi, semplici e organizzati; non avevo familiarità con il paese e la sua gente ma intuivo una ritualità antica, ripetuta in modi sempre uguali, forse come antidoto a quell’estrema durezza di vivere che avevo appena sfiorato, alla violenza e alla guerra.
All’improvviso uno degli autisti è arrivato di corsa, rompendo il silenzio: «È successo un fatto terribile, un fatto molto grave» ha gridato, agitato. «La sede delle Nazioni Unite a New York è stata bombardata e distrutta.»
Non poteva essere vero. Bisognava ascoltare le notizie. Le radioline a transistor captavano un segnale molto debole e disturbato. Abbiamo sintonizzato le radio di una delle auto sulla BBC: era un apparecchio a onde corte, e dunque la ricezione era più chiara. Ci siamo accalcati tutti intorno alla macchina, pieni di incredulità. I co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Rifugi e ritorni
  4. Prologo
  5. I. Cambogiani
  6. II. Curdi
  7. III. Ruandesi (1994)
  8. IV. Ruandesi (1996-1997)
  9. V. Afghani
  10. VI. Palestinesi
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright