C'eravamo tanto amati
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C'eravamo tanto amati

Amore, politica, riti e miti. Una storia del costume italiano

  1. 372 pagine
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C'eravamo tanto amati

Amore, politica, riti e miti. Una storia del costume italiano

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Anche i giovani hanno un passato. Tutti abbiamo un futuro. In C'eravamo tanto amati Bruno Vespa prende in mano un secolo per guardare al domani con le speranze di ieri. Ecco, quindi, un'affascinante cavalcata nei decenni trascorsi per mostrare gli straordinari cambiamenti avvenuti nella nostra vita quotidiana: dall'amore (corteggiamento ieri pudico, oggi sfrontato) alla cucina (raccontata insieme ai grandi chef italiani), dagli stipendi ai consumi, dalle vacanze all'abbigliamento, dal cinema alle canzoni, dall'economia prima dell'euro a quella dopo l'euro, dalla politica del Regno d'Italia a quella della Terza Repubblica. Il fascino delle lettere d'amore sostituito dai messaggini sul cellulare: come farebbe nei nostri giorni Gabriele d'Annunzio ad abbandonarsi al sublime erotismo della sua corrispondenza sentimentale? Il rivoluzionario cambiamento della sessualità femminile (enormemente più accelerato di quello maschile): dall'ingenua «posta del cuore» delle nostre bisnonne all'ossessiva domanda che si rivolgono le adolescenti di oggi: «Hai avuto un rapporto completo?». I matrimoni che duravano una vita e quelli che ora non superano in media i 16 anni, il boom delle nascite e le culle vuote, l'entusiasmo della ricostruzione e i vincoli che ci hanno frenato, l'esplosione di Internet e la schiavitù pericolosa del web, i viaggi in treno in terza classe e quelli in Frecciarossa e sui voli low cost, gli stipendi di una volta aumentati più dell'inflazione e ora stremati dall'euro e dalla crisi, le pensioni concesse dopo 14 anni di servizio e quelle talvolta negate anche a chi è anziano, gli emigranti di un tempo sostituiti dai «cervelli in fuga» di oggi, le lunghe villeggiature ridotte ai weekend mordi e fuggi, gli Airbnb al posto degli alberghi, i Car2go al posto dei taxi, i playboy che battevano le spiagge romagnole e i bruti che violentano le ragazzine. I film e le canzoni che ci hanno commosso, divertito, accompagnato. E gli spettacoli televisivi che hanno formato la coscienza e il costume degli italiani. Per arrivare nell'ultimo capitolo alla più stretta attualità politica, raccontata conversando con Renzi, Berlusconi, Alfano, Di Maio, Salvini e il nuovo sindaco di Torino, Chiara Appendino. Quali prospettive si è dato il presidente del Consiglio? Nascerà un nuovo centrodestra? Continuerà la rivoluzione del Movimento 5 Stelle? C'eravamo tanto amati: la dolcezza del ricordo e insieme l'eccitazione di una nuova speranza.

Domande frequenti

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Informazioni

VIII

Il nuovo millennio, povero ma «connesso»

Dopo la festa, arrivò il conto

Al telefono, la voce di Giuliano Amato era sottile, un po’ nasale e, come sempre, garbatissima. Era il pomeriggio di domenica 13 settembre 1992 e da due anni ero direttore del Tg1. «Dovremo fare un riallineamento della lira» mi annunciò, come se fosse un provvedimento ordinario. Nell’intervista che andò in onda di lì a poco, in diretta, Amato trasformò in vittoria una sconfitta pesantissima per la nostra moneta. Disse che avremmo svalutato la lira del 3,5 per cento e che la Germania avrebbe rivalutato il marco nella stessa misura. Una manovra che presentava «aspetti positivi per l’Italia, per l’Europa e per il mondo», da cui i nostri concittadini avrebbero ricevuto ogni bene.
L’annuncio arrivò al termine di un weekend drammatico, i cui dettagli restarono a lungo segreti. Venerdì 11 settembre il governatore della Bundesbank, Helmut Schlesinger, aveva comunicato al governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che dal lunedì successivo l’istituto tedesco non avrebbe più servito marchi contro lire. Secondo le regole europee, non poteva farlo, ma in quell’occasione si scoprì che esisteva una lettera segreta con la quale la Bundesbank informava il governo di Berlino che non intendeva più coprire operazioni che minacciassero la stabilità del marco. Per noi significava il default. In realtà, la lira fu svalutata del 20 per cento e si aprì un periodo di forte austerità, che sarebbe stato comunque una pallida copia di quello di vent’anni dopo.
Ma la vita degli italiani era cambiata improvvisamente già due mesi prima. Appena insediatosi, mentre si udivano i primi scricchiolii di Tangentopoli, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992 il governo Amato aveva deciso di prelevare il 6 per mille dai conti correnti di tutti i cittadini. Fu una mossa terribilmente impopolare, fatta all’insaputa della Banca d’Italia e criticata da molti economisti, contrari anche alla brusca svalutazione della lira. Per difendere il cambio, avevamo infatti dissanguato inutilmente le nostre riserve valutarie (48 miliardi di dollari, secondo Antonio Fazio, che sarebbe subentrato a Ciampi nel 1993). Era come sacrificare in guerra decine di migliaia di uomini per difendere un fronte sfondato dal nemico. Una Caporetto bella e buona. Ciampi, considerandosi sconfitto, scrisse una lettera di dimissioni, che però fu respinta.
Il governo mise anche la tassa sulla casa, l’Ici, e la «minimum tax», per arginare l’evasione dei lavoratori autonomi. Inoltre, cancellò (finalmente) la norma che consentiva alle donne di andare in pensione dopo 14 anni e mezzo di servizio, eliminò quel che restava della scala mobile e fece una manovra da 93.000 miliardi di lire (45 miliardi di euro), per metà tagli alla spesa e per metà aumento delle tasse. (Amato mi rivelò più tardi di essersi sentito per la prima volta libero dal giogo dei partiti, intimiditi dallo scoppio di Tangentopoli.)
Quanto ci era costata la festa permanente degli anni Ottanta? Mentre si smontavano le luminarie e si raccoglievano da terra festoni e coriandoli, feci due conti con lo stesso Ciampi. In dieci anni (1982-92) il rapporto fra debito pubblico e pil era aumentato in misura abnorme, passando dal 60 al 105 per cento (per schizzare due anni dopo al 121), cioè dalla normalità a una tragedia di cui paghiamo tuttora il conto. (Il primo strappo c’era stato nei cinque anni successivi all’«autunno caldo» del 1969, quando il rapporto era salito dal 30 al 50 per cento.) Quali errori erano stati commessi dalla classe politica?, chiesi vent’anni dopo all’ex governatore. «Occupazione delle istituzioni, alimentazione di voraci clientele, diffusione di un malcostume generalizzato» rispose. «Le difficoltà si acuirono quando il Psi di Bettino Craxi, con grande determinazione, contese spazi di potere alla Democrazia cristiana…»
Ne parlai per la prima volta con Amato nel 1993, dopo che ebbe lasciato proprio a Ciampi la guida di palazzo Chigi. Riprendemmo il discorso quasi vent’anni dopo, in un lungo colloquio del 2012 per Il Palazzo e la piazza. Mi disse di aver capito fin dalla metà degli anni Ottanta che saremmo andati a sbattere. «Ma Craxi bloccò una proposta di De Michelis di riformare le pensioni perché un’iniziativa così traumatica non era possibile alla vigilia delle elezioni politiche del 1987. La sanità era l’altro pozzo senza fondo…» Inutilmente, un’intelligente Cassandra come Alberto Ronchey aveva ammonito fin dal 1985 dalle colonne del «Corriere della Sera», con l’articolo I figli del trilione, sui pericoli dello spaventoso e irresponsabile aumento del debito pubblico, definendolo «un fardello schiacciante sulle spalle delle giovani generazioni, che dovranno sopportarlo». (Un trilione era 1000 miliardi di lire, più o meno 500 miliardi di euro. Nei trent’anni successivi il debito è aumentato del 50 per cento e nell’autunno del 2016 ha toccato i 2260 miliardi di euro.)
Nella sua spietata analisi degli anni Ottanta, intitolata Il paese reale, Guido Crainz accosta due opinioni antitetiche espresse nell’arco di appena quattro anni da un giornalista esperto di economia come Giuseppe Turani. La prima nel libro 1985-1995. Il secondo miracolo economico italiano, del 1986: «Dopo esser stata per tanti anni una società chiusa, ripiegata su se stessa, la società italiana si sta riaprendo, nel suo futuro stanno ricomparendo orizzonti impensabili fino a qualche anno fa. È tornata a essere una società in movimento, esattamente come lo fu negli anni Cinquanta e Sessanta. Questa volta il movimento è più lento ma più maturo, più interessante, destinato a modificazioni di portata più grande … Ed è quasi sicuro che andrà avanti a lungo». La seconda sul «Corriere della Sera» nel 1990, in un articolo malinconicamente intitolato Addio splendidi anni ’80: «Non si trova più traccia della magnifica sicurezza con cui [i grandi gruppi industriali] avevano attraversato di corsa gli anni Ottanta … Ora c’è una fase di stanchezza rassegnata, di vendite in calo, di gente messa in cassa integrazione … C’è lo sgretolarsi del sistema-Italia, quasi inavvertito ma molto forte».
Negli stessi mesi, analogo fu il giudizio dell’economista Mario Deaglio (È finita l’era dell’ottimismo) e di una grande analista del costume italiano, Lietta Tornabuoni (L’Italia stanca si è fermata).

Scompare il maestro unico

Nel maggio 1990, con l’approvazione della riforma della scuola, morì l’amatissima figura del maestro unico, sostituita dal «modulo didattico» e da tre docenti: tre insegnanti ogni due classi o, qualora ciò non sia possibile, quattro ogni tre classi. Ciascuno di essi è titolare di un ambito disciplinare: linguistico-espressivo, matematico-scientifico, antropologico. La mia generazione si è formata con un solo maestro e i miei figli hanno fatto in tempo a vivere la stessa esperienza. Sia io sia loro abbiamo un ricordo incancellabile delle nostre maestre. Dubito che possa essere lo stesso per i bambini vittime del «modulo didattico», andato fuori corso dal 2009-10 con la riforma Gelmini.
L’idea di complicare la scuola è stato uno dei frutti più devastanti della cultura postsessantottina. Tutto è stato ideologizzato. C’erano «genitori democratici» che si confrontavano con «insegnanti democratici», il resto era spazzatura di destra. I reduci della lotta di classe che avevano trovato una sistemazione nella scuola pubblica «si erano forse illusi di poter sostituire la rivoluzione con la sperimentazione (perché per un paio di decenni tutto ciò che era sperimentale diventava implicitamente buono, progressista, laico-democratico-antifascista)» scrive Edmondo Berselli in Post-italiani. «Brave maestrine, maltrattatissime dallo Stato patrigno, avevano accettato con tanta buona volontà il comandamento antipassatista che per imparare a leggere e scrivere i ragazzini dovessero “partire dal grafo”, sgorbiare i quaderni senza preoccupazioni né estetiche né semantiche, finché per un miracolo dell’antipedagogia lo sgorbio non si sarebbe evoluto in una firma, in uno stampatello, in un corsivo decifrabile, insomma nel controllo calligrafico maturo, per quanto tardivo, della scrittura. Altre storie e altri tempi, quando le mamme insegnavano ai bambini a compitare “a.bi.ci”, in modo rigorosamente conservatore ma funzionale, sicché questi andavano spesso a scuola che già sapevano leggere e scrivere, con le vecchie maestre che gongolavano di soddisfazione per le doti dei pupi. Adesso, grazie al grafo e allo sgorbio, ci si mette un anno, se il dio dei grafi collabora, e i figli dell’età tecno, espertissimi di giochi molto complicati alla playstation, continuano a leggere con il dito sulla pagina fino alle medie, sillabando in modo inarticolato, ai limiti della disabilità.»
Crescendo, i bambini sillabanti trovavano testi complicatissimi, con titoli e parole che mai avrebbero incontrato nel linguaggio comune, e con sistemi di studio che – si prenda la storia – per combattere il vecchio, eccessivo, burocratico nozionismo, consentivano loro di imparare gli aspetti sociali dei vari secoli, utilissimi solo a chi ha già una conoscenza di base degli avvenimenti, sciaguratamente risparmiata invece ai nostri ragazzi. Senza dimenticare l’esecrabile tara ideologica di tanti testi di storia che hanno distorto o omesso avvenimenti essenziali dell’ultimo secolo. Il risultato è che il numero di superstiti, di ragazzi che hanno avuto insegnanti e/o genitori eroici, che sono stati formati o hanno saputo formarsi in maniera adeguata per un mondo sempre più esigente, è drammaticamente più esiguo di una massa interclassista – ma trascinata fatalmente verso il basso – di giovani con un’educazione approssimativa, con un linguaggio basico sconfortante, attratti in modo compulsivo dalle mode e dai consumi, da intrattenimento di mediocre qualità, con la conseguenza di banalizzare e rendere superficiali – e perfino violenti – rapporti sentimentali e sessuali.

Quindicimila adolescenti per Gianni Boncompagni

Non sono stati un decennio facile, gli anni Novanta. Eppure, c’è chi li rimpiange. La National Geographic Society ci ha fatto un documentario, immaginandolo come The Last Great Decade, l’ultimo grande decennio. Quello di Bill Clinton, che l’ha attraversato quasi tutto con la sua presidenza (1993-2001), e di Nelson Mandela che, guidando il Sudafrica dal 1994 al 1999, ha sepolto per sempre l’apartheid. Quello in cui è morta l’Unione Sovietica: Michail Gorbaciov vinse il Nobel per la pace e Vladimir Putin inaugurò una monarchia repubblicana che dura ininterrottamente dal 1999. Quello in cui la mafia massacrò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e venne arrestato Totò Riina), se ne andarono Lady Diana e Madre Teresa di Calcutta, fu assassinato a Miami Gianni Versace. In cui nacquero la pecora Dolly, primo mammifero clonato, e il Gsm; Sony lanciò la PlayStation ed esplose progressivamente l’uso dei cellulari.
Rivedremo in filigrana nell’ultimo capitolo gli sconvolgimenti politici italiani: la fine del Pci, la devastazione di Tangentopoli, la morte della Prima Repubblica e la nascita della Seconda, con il trionfo elettorale di Silvio Berlusconi.
La televisione interpretò in modo diverso i cambiamenti del mondo politico. Michele Santoro seppellì la Prima Repubblica nelle cinque stagioni di «Samarcanda» (1987-92), battagliò con il Cavaliere in «Tempo reale» (1994-96), ma poi andò a lavorare per tre anni nella sua televisione con «Moby Dick» (1996-99), dopo che nel 1996 il centrosinistra, vinte le elezioni, cambiò i dirigenti della Rai, e costoro soppressero proprio il suo programma in onda su Raitre.
«Porta a porta» nacque nel 1996 per raccontare la Seconda Repubblica, riuscendo nell’ardito tentativo di far conoscere i nuovi leader anche sotto il profilo personale e contaminando il rigore della politica con qualche leggerezza, cosa impensabile fino a pochi anni prima. Si sarebbe confrontato per tredici anni con il «Maurizio Costanzo Show», erede diretto di «Bontà loro» (Raiuno, 1976-78), nato nel 1982 su Canale 5.
La legge Mammì (1990), riconoscendo a Fininvest il diritto di trasmettere via etere su tre reti, come il servizio pubblico televisivo, aprì la concorrenza a tutto campo fra le televisioni di Berlusconi e la Rai. E l’obbligo di fare informazione portò alla nascita del Tg5, diretto da Enrico Mentana. Alla Rai tornarono invece dopo due anni Raffaella Carrà («Fantastico») e dopo dieci Paolo Bonolis («I cervelloni»). Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci ebbero un grande successo il sabato sera con «Scommettiamo che…?» (10-12 milioni di spettatori), Mara Venier («Domenica in») dovette confrontarsi con Maurizio Costanzo e Fiorello («Buona domenica»). Il Tg1 fu preceduto da «Luna Park», condotto da alcuni fra i più noti presentatori, tra cui Pippo Baudo (anche lui tornato alla Rai dopo l’avventura in Fininvest), che doveva fare i conti con «La ruota della fortuna» di Mike Bongiorno, poderoso traino d’ascolto del Tg5. Ebbero successo anche in Italia serial americani come «E.R.», ambientato in un pronto soccorso di Chicago, che andò in onda per tredici anni, e «Sex and the City», trasmesso prima da Telemontecarlo e poi da La7.
La dissacrazione televisiva degli anni Ottanta trovò spazio sulle reti Fininvest con «Non è la Rai», programma cult di Gianni Boncompagni, presentato prima da Enrica Bonaccorti, poi da Paolo Bonolis e, nelle due ultime stagioni, da Ambra Angiolini. Ecco il ritratto che, in Post-italiani, Berselli fece di Boncompagni mentre dirigeva i provini: «Davanti al suo sguardo allenato si presentano quindicimila adolescenti. Lui osserva, giudica e alla fine approva o esclude con un cenno del capo. I suoi resoconti rivelano l’atteggiamento con cui le ragazze guardano alla promessa della felicità televisiva. Succede, per esempio, che il regista ne boccia una, ma lei capisce invece che l’hanno promossa: “Ed è scoppiata in un pianto liberatorio così terribile [raccontò Boncompagni], con singhiozzi così esagerati, così bestiali, buttandosi addosso alla ragazza che l’accompagnava che tutti gli occhi si sono appuntati su di me con un rimprovero preventivo. Ho detto: okay, presa, non parliamone più”».
Boncompagni confessò nel 1994 a Stefania Rossini dell’«Espresso» di conservare tutti i provini registrati perché «sono sicuro che fra vent’anni saranno un documento storico». In realtà, venticinque anni dopo non risulta abbiano avuto luogo celebrazioni, anche se alcuni provini sono ancora reperibili su Internet. In compenso, Ambra Angiolini è diventata un’attrice coi fiocchi. All’epoca aveva 16 anni e in video indossava un auricolare dal quale si immaginava che arrivassero suggerimenti in diretta da Boncompagni. In realtà, sia lei sia il regista hanno poi rivelato che lui le sussurrava parolacce terribili e Ambra doveva fare uno sforzo non indifferente per censurarle e portare avanti lo spettacolo. Boncompagni aveva una pessima considerazione delle giovanissime che ammiccavano con atteggiamenti sexy: «Fascia sociale medio-bassa, tutte apparecchiatissime, acconciate con pettinature inverosimili, con quei tacconi orribili … strozzate in vestiti minimi. Più erano formose, più si stringevano … Facevano tutte ancora la scuola dell’obbligo e, se erano state bocciate, era sempre perché “i professori ce l’avevano” con loro, mentre il tempo libero lo passavano a fare “gnente”. Nessuna lettura, nessun interesse preciso».

Il trionfo contestato di Benigni

Questo è il decennio delle contraddizioni: l’orrore per il tabacco si affianca alla richiesta di liberalizzazione della marijuana, la fede nella scienza si accompagna all’invocazione della libertà di cura. Edmondo Berselli sostiene che se non ci fossero stati Berlusconi e il suo parterre, «Nanni Moretti sarebbe rimasto il regista che era ed è… sicuramente non un maestro». E invece diventa un guru politico che a piazza Navona (ma qui siamo ormai nel 2002) apostrofa la nomenklatura dei Ds: «Con questi dirigenti [anzi, diriggenti] non vinceremo mai». «L’ennesima dichiarazione di superiorità morale rispetto alla destra e, di riflesso,» chiosa Berselli «la certificazione dell’assoluta incompetenza e incapacità della sinistra.»
Gli anni Novanta sono anche il decennio del Titanic e di Pulp Fiction, di Harry Potter e del primo «Pavarotti & Friends», dei trionfi ciclistici di Marco Pantani, di Vasco Rossi, seguito da 130.000 persone al Festival di Imola, e soprattutto del film La vita è bella, che regalò l’Oscar a Roberto Benigni.
Il «simpatico pratese da botteghino» – per dirla con il suo detrattore Giuliano Ferrara – aveva fatto fortuna con film poco memorabili come Johnny Stecchino, Il piccolo diavolo e Berlinguer ti voglio bene, in cui però c’era la scena fantastica dell’attore che prende in braccio il segretario del Pci, dissacrando in pochi secondi decenni di rigido cerimoniale comunista. Continuando su quella strada, avrebbe conquistato il pubblico chiamando «Wojtylaccio» il papa in prima serata televisiva, strizzando le parti basse a Pippo Baudo visto che non aveva potuto strappargli supposti capelli posticci, molestando Raffaella Carrà, baciando sulla bocca ora questo ora quella. Fino a quando, a Natale del 1997, Benigni portò sugli schermi La vita è bella, una favola sulla Shoah. Aiutato dalla sceneggiatura ruffiana di Vincenzo Cerami, da bravi interpreti (tra cui lo stesso Benigni) e dalla splendida musica di Nicola Piovani, il film ebbe un grande successo di pubblico e vinse nel 1999 l’Oscar per il miglior film straniero. («Robberto!» gridò Sophia Loren nel proclamare il vincitore.)
Tuttavia, raramente un film di grande successo (anche di critica) ha avuto tanti detrattori. Giuliano Ferrara fece una sterminata campagna contro Benigni: «Affidare … i fumi e i veleni di Auschwitz al talentaccio clownesco di un simpatico pratese da botteghino è un atto di imprudenza idolatrica». Berselli, da parte sua, commentò: «Un filmetto sostanzialmente esecrabile … Poche le voci della sinistra che si levino a dire: ma signori, questo film è una stronzata. Se siamo ridotti a dover sostenere per ragioni d’opportunità e di schieramento una boiatina simile, il nostro futuro è segnato». E David Denby, critico dello scicchissimo «New Yorker»: «Piace perché nega la Shoah e rallegra il pubblico, nauseato a morte dall’infinita capacità di disturbarlo che ha l’Olocausto». Per un Moni Ovadia entusiasta, che elegge Benigni «Yiddish» onorario, c’è una Simone Veil: «Non meritava l’Oscar. Un film assolutamente scadente. La storia non ha alcun senso». Lo scrittore americano Thane Rosenbaum, figlio di scampati all’Olocausto: «Una dissacrazione mostruosa». Il direttore di «Jewish News»: «Uno schiaffo in faccia ai milioni di trucidati nella Shoah, una volgare manipolazione emotiva».

Luciano Pavarotti, il più grande

Il 1990 fu un anno strano. Tangentopoli era di là dall’esplodere e i grandi imprenditori potevano permettersi ancora sponsorizzazioni spettacolari. Fra queste la più felice e clamorosa fu il «Concerto dei Tre Tenori» alle Terme di Caracalla il 7 luglio 1990. L’occasione erano i Campionati del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. C’eravamo tanto amati
  4. Premessa. Ho accarezzato un secolo…
  5. I. La lettera azzurrina
  6. II. Seduzione e piacere: come eravamo
  7. III. Donne, giovani, gay: la rivoluzione sessuale
  8. IV. Mille lire al mese
  9. V. Fare soldi, per fare soldi
  10. VI. Penso che un sogno così…
  11. VII. L’ombelico della Carrà e la «Milano da bere»
  12. VIII. Il nuovo millennio, povero ma «connesso»
  13. IX. La grande rivoluzione in cantina e in cucina
  14. X. C’eravamo tanto odiati: la politica tra ieri e oggi
  15. Volumi e articoli citati
  16. Copyright