Tre mesi dopo
«Bene» dico al telefono. «Ho capito. Grazie.»
Metto via il cellulare e guardo nel vuoto. Un altro cacciatore di teste che non mi dà buone notizie. Un’altra lezioncina su quanto è “insidioso” il mercato al momento.
«Ancora quel marchio farmaceutico?» La voce di Biddy mi fa sobbalzare e mi giro di scatto, avvampando. Ormai dovrei saperlo: non rispondere mai ai cacciatori di teste in cucina. «Certo che ti fanno lavorare tanto, eh, tesoro!» aggiunge Biddy, sbattendo sul bancone un mucchio di barbabietole. «Non doveva essere il tuo periodo sabbatico?»
Il senso di colpa mi divora e io mi volto, evitando il suo sguardo. Si comincia con una bugia a fin di bene, e in un attimo ti ritrovi con una vita completamente inventata.
È successo una settimana dopo che sono tornata a casa. Un cacciatore di teste mi ha richiamata mentre ero con papà e Biddy. Ho dovuto inventarmi qualcosa su due piedi, e l’unica cosa che mi è venuta in mente era che la Cooper Clemmow mi cercava per consultarmi per un progetto. Adesso questa è la scusa ufficiale per andare in un’altra stanza quando rispondo al telefono. Ogni volta che un cacciatore di teste mi chiama, è “Cooper Clemmow”. E papà e Biddy mi credono a prescindere. E perché non dovrebbero? Si fidano di me.
Non avrei mai dovuto approfittare della versione di Biddy. Ma era così facile. Troppo facile. Quando sono arrivata nel Somerset, lei aveva detto a papà che mi ero presa un periodo “sabbatico”, e tutti e due avevano dato la cosa per scontata. L’idea di distruggere quella storia era davvero troppo per me.
E così non l’ho fatto. Tutti credono che abbia preso un periodo sabbatico, perfino Fi, perché non potevo azzardarmi a dirle la verità con il rischio che finisse in qualche post di Facebook che poteva capitare sotto gli occhi di Biddy. Fi si è limitata a scrivere “Wow, come sono generosi i datori di lavoro inglesi”, e poi era passata direttamente a raccontarmi di quando era stata negli Hamptons e aveva bevuto dei pink margaritas e si era così divertita e dovevo proprio andarci anch’io. Non sapevo neanche come risponderle. Al momento, la mia vita non potrebbe essere più lontana dai pink margaritas. O dai caffè macchiati. O da caffetterie all’aperto fighissime nei quartieri che diventeranno di moda. In questi giorni vado su Instagram solo per fare pubblicità ad Ansters Farm.
Ho raccontato a Fi del glamping e lei mi ha fatto qualche domanda blandamente interessata, ma quello che voleva sapere era: “Allora quando torni a Londra? E non ti MANCA?”. Il che per me era come sale sulla ferita. Certo che mi manca. Poi ha cominciato a raccontarmi delle celebrità che ha visto nel bar di un hotel durante il weekend.
E lo so che è ancora Fi, la mia amica Fi, solida e concreta… ma sta diventando difficile conciliare questa Fi newyorkese e scintillante con l’amica a cui potevo dire tutto. Le nostre vite coincidono sempre meno. Forse dovrei davvero andare a New York a ricostruire la nostra amicizia. Ma come potrei permettermelo?
Comunque, al momento non è certo il mio problema principale. C’è parecchio da fare. Sto per dare una mano a Biddy con le barbabietole quando lo smartphone mi segnala l’arrivo di un’email. È da McWhirter Tonge, l’azienda con cui ho fatto un colloquio. Oddio…
Senza farmi notare, apro la porta sul retro ed esco. Il sole caldo di fine maggio riscalda la distesa dei campi. Un filo di fumo si alza da uno dei fuochi da campo nel villaggio delle yurte, e sento in lontananza il gracchiare delle taccole, che arriva da un boschetto nel Campo Nord. Ma non le ascolto veramente, né ammiro il panorama. Mi importa soltanto di questa email. Perché non si sa mai… per favore…
Mentre tocco lo schermo, quasi svengo per la speranza. Sono stata a fare il colloquio da loro la settimana scorsa. (A papà e Biddy ho detto che andavo a trovare degli amici.) È l’unico colloquio che ho fatto, la mia unica briciolina di speranza, l’unica domanda di lavoro che abbia portato a qualcosa. La sede è a Islington, è una piccola azienda, ma le persone erano carine e l’incarico sembrava davvero interessante, e…
Cara Cat,
grazie per aver trovato il tempo di passare da noi la scorsa settimana. Abbiamo fatto una bella chiacchierata e ci ha fatto molto piacere conoscerti, ma purtroppo…
Per un attimo intorno a me si fa tutto nero. “Purtroppo.”
Lascio cadere il telefono, ricacciando indietro le lacrime che mi sono salite agli occhi. Dài, Katie. Ripigliati. Faccio qualche respiro profondo e cammino un po’ sul posto. È un lavoro, uno. Un rifiuto, uno. E allora?
Ma provo una sensazione di gelo. Era la mia unica chance. Nessun altro mi ha proposto un colloquio.
Cioè, non è proprio così. Quando ho cominciato a mandare le domande, ho ricevuto un sacco di email che mi offrivano posti con “enorme potenziale” o “opportunità di sviluppo” o “preziosa esperienza sul campo”. Ci ho messo solo tre telefonate a capire cosa significano queste frasi. “Niente soldi.” “Niente soldi.” “Niente soldi.”
Non posso lavorare gratis, per quanta esperienza riesca a ricavarne. Ho superato quella fase.
«Tutto bene, Katie?» La voce di Biddy mi fa sobbalzare di nuovo e mi giro, sentendomi subito in colpa. Sta posando delle bucce nel compost e mi guarda incuriosita. «Che succede, gioia?»
«Niente!» le dico subito. «Solo… ecco… cose di lavoro.»
«Non so come fai.» Biddy scuote la testa. «Con tutto quello che fai qui, e le email che devi mandare di continuo…»
«Be’, dài.» Faccio una risata forzata. «Mi tengo occupata.»
Biddy e papà credono che quando passo delle ore al computer stia chattando con i colleghi a Londra. Che ci scambiamo idee. Non che io stia mandando domande su domande di lavoro.
Mi costringo a finire di leggere la lettera di McWhirter Tonge:
… un campo difficilissimo… candidata con un’esperienza decisamente maggiore… terremo presente il tuo nome… ti interesserebbe uno stage?
Uno stage. Tutti mi offrono solo quello.
E lo so che il mercato del lavoro è una giungla, e lo so che è dura per tutti, ma non posso fare a meno di pensare: dove ho sbagliato? Ho fatto schifo al colloquio? Sono uno schifo e basta? E in questo caso… che faccio? Nella mia mente si apre un grande vuoto nero. Uno spaventoso buco oscuro. E se non trovassi mai più un lavoro?
No. Basta. Non devo pensare queste cose. Stasera manderò delle altre domande, allargherò il campo…
«Oh, Katie, cara» riprende Biddy. «Volevo chiederti una cosa. Prima abbiamo avuto una richiesta, e la signora voleva sapere della sostenibilità. Mi ripeti cos’è che dobbiamo rispondere?»
«Parliamo dei pannelli solari» le dico, felice della distrazione. «E della doccia esterna. E delle verdure biologiche. E non parliamo della Jacuzzi di papà. Se vuoi ti scrivo tutto su un foglio.»
«Grazie, stella.» Biddy mi dà un colpetto sul braccio, poi lancia uno sguardo di rimprovero al mio cellulare. «Non farti tormentare troppo dai tuoi capi, tesoro. Ricordati che questo è il tuo periodo sabbatico!»
«Giusto.» Sorrido debolmente mentre lei torna in cucina, poi mi lascio cadere nell’erba. Mi sembra di essere due persone diverse in questo momento. Sono Cat, che cerca di fare carriera a Londra, e sono Katie, che dà una mano a mandare avanti un campeggio di lusso, ed essere tutte e due è davvero sfinente.
L’aspetto positivo è che oggi la fattoria è davvero una meraviglia. Più tardi andrò in giro a fare un po’ di foto da mettere sui social. Guardo i pannelli solari che luccicano sul tetto del granaio trasformato in zona docce e provo un moto di orgoglio. I pannelli solari sono stati una mia idea. Ad Ansters Farm non siamo totalmente ecologici – usiamo un boiler supplementare e abbiamo gabinetti veri e propri – ma non siamo neanche completamente non-ecologici. È bastata qualche settimana a farmi capire che tra i glampers ci sono quelli fissati con: “Siete sostenibili? Perché per noi l’importante è questo”. Mentre altri sono fissati con: “Ci sono docce calde o dovrò morire di freddo? Perché a me questa storia del glamping non è che mi abbia mai tanto convinta; è stata un’idea di Gavin”.
Le docce nell’ex granaio piacciono a tutti, con gli armadietti della scuola riciclati e gli appendiabiti di legno, ma la vasca da bagno all’aperto piace ancora di più. È dipinta a strisce arcobaleno – ispirate allo stile di Paul Smith – e ha tutto intorno un piccolo recinto di vimini, ed è bellissima. Ho mandato una foto ad Alan, perché la metta sul sito. Si vede la vasca arcobaleno con accanto una bottiglia di champagne in un secchiello di ghiaccio e una mucca che guarda da dietro lo steccato, e Alan mi ha scritto: “Wow. Supercool”. Voglio dire, se la apprezza perfino lui, dev’essere davvero figa.
La vasca all’aperto è così popolare che abbiamo dovuto istituire dei turni. In realtà, tutto è molto popolare. Ho sempre pensato che papà e Biddy sarebbero riusciti a far funzionare questa cosa. Quello che non avevo capito è quanto ci si sarebbero buttati a capofitto e quanto si sarebbero impegnati.
Le yurte sono semplicemente stupende. Ce ne sono sei, a coppie. Sono abbastanza vicine da permettere a una coppia di mettere i figli in quella accanto, ma abbastanza lontane da consentire la privacy. Ognuna ha la sua piccola veranda e il suo braciere. Papà conosce un certo Tim che fa il falegname e gli doveva un favore. Così Tim ha costruito sei letti con legno locale riciclato, e sono spettacolari. Hanno gambe enormi, esagerate, e sulla testiera c’è inciso ANSTERS FARM, ed è possibile anche dividerli in due letti singoli, per i bambini. Abbiamo anche delle brandine, perché abbiamo visto che tante famiglie preferiscono tenere i figli con loro, se sono ancora piccoli, e le yurte sono grandi abbastanza. Le lenzuola hanno quattrocento fili – abbiamo trovato un fornitore all’ingrosso – e sui cuscini ci sono stampe vintage, e in più in tutte le yurte c’è una pelle di pecora sul pavimento.
A ogni famiglia di...