Il mondo secondo Trump
eBook - ePub

Il mondo secondo Trump

Sei cose che accadranno nel nostro futuro

  1. 140 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il mondo secondo Trump

Sei cose che accadranno nel nostro futuro

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

L'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sembra aver colto di sorpresa studiosi e osservatori: per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, a vincere le elezioni è un candidato che declina il suo messaggio facendo leva su populismo, nazionalismo e isolazionismo.

In un contesto internazionale di globalizzazione e interdipendenza, l'eventuale ripiegamento su se stessi degli Stati Uniti rischia di aprire prospettive inedite, tanto sul piano politico quanto su quello economico-commerciale.

Cosa ci aspetta? Che ne sarà dell'eredità di Obama in settori quali la sanità, i diritti civili, la politica economica? Quale l'impatto sulle relazioni tra Stati Uniti, Europa e Russia? Come si muoveranno gli USA nel complicato puzzle mediorientale, tra Siria, Israele, Arabia Saudita e Iran? Dopo le dure dichiarazioni fatte in campagna elettorale nei confronti della Cina e la promessa di costruire un muro al confine con il Messico, cosa succederà in Asia e in America Latina? Infine, cosa ne sarà dei trattati commerciali o dello storico accordo sul clima di Parigi?

Le analisi contenute nel presente volume si propongono di rispondere a questi interrogativi, delineando i possibili scenari sull'evoluzione della leadership americana nel mondo e sulle conseguenti implicazioni per i più importanti contesti geopolitici.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il mondo secondo Trump di Paolo Magri in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politica e relazioni internazionali e Governo americano. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852078620
4

Dal secolo americano al secolo asiatico?

di Alessandro Pio*
L’amministrazione del nuovo presidente americano Trump ha inizio in un contesto in cui l’Asia riveste un ruolo sempre più importante negli equilibri internazionali. Il graduale spostamento del baricentro dell’economia mondiale è cominciato vent’anni fa con l’apertura commerciale e il decentramento produttivo verso la Cina e i paesi del Sudest asiatico, e si è poi consolidato con l’adesione della stessa Cina all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, e ha subìto un’accelerazione durante e dopo la crisi economico-finanziaria del 2008. Senza ancora superare quella degli Stati Uniti, l’economia cinese si è affiancata a loro nel ruolo di «locomotiva» dell’economia mondiale che determina la domanda di materie prime e prodotti energetici, e a Giappone e Corea del Sud nel promuovere una complessa rete manifatturiera diffusa nei paesi membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN), che hanno raggiunto, nel 2015, il loro traguardo di unione economica. Ma non è solo la Cina a mostrare forte dinamismo: l’India e il Vietnam crescono ormai da oltre un decennio a tassi annui mediamente superiori al 6 per cento. Inoltre, dopo un crollo economico nei primi dieci anni d’indipendenza, le vecchie repubbliche sovietiche dell’Asia centrale hanno recuperato, entro il 2000, e poi ampiamente superato, i livelli economici precedenti. Dal 2013 i paesi emergenti dell’Asia hanno anche soppiantato l’Europa come la principale regione di destinazione degli investimenti esteri mondiali.
A questo più importante ruolo economico è seguita una crescente assertività nelle relazioni internazionali. L’India ha chiuso le porte alle proposte di aiuti bilaterali provenienti da molti paesi, ampliato il proprio programma di cooperazione allo sviluppo, lanciato la campagna «make in India» e iniziato un programma di esplorazione spaziale. I paesi ASEAN hanno registrato ulteriori progressi verso la creazione di una comunità economica, riducendo le tariffe sul loro interscambio allo 0,54 per cento e armonizzando la regolamentazione per gli investimenti esteri. La Cina ha aumentato le pretese di egemonia nel Mar Cinese Meridionale, proposto accordi commerciali alternativi alla Trans-Pacific Partnership (TPP) di matrice statunitense, dalla quale era esclusa, e creato, nel 2015, la propria banca regionale di sviluppo (la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture), riuscendo a convincere la maggioranza dei paesi europei a diventarne azionisti. Più di recente, la Cina ha anche proposto il rafforzamento dei collegamenti infrastrutturali transasiatici, e la creazione di «Una cintura, una strada» (One Belt, One Road) che colleghi l’Estremo Oriente all’Asia occidentale, alla Russia e all’Europa.
Il riconoscimento del crescente ruolo dell’Asia a livello internazionale e della necessità, per gli Stati Uniti, di giocare un ruolo attivo nella regione, a difesa dei propri interessi strategici e commerciali, era alla base del parziale riorientamento della politica estera statunitense sotto la presidenza Obama, articolata da Hillary Clinton nelle vesti di segretario di Stato della prima amministrazione del presidente democratico (2008-2012). Durante una visita ufficiale in Australia nel novembre 2011, Obama presentò pubblicamente gli elementi essenziali della «svolta (pivot) verso l’Asia» intrapresa dagli Stati Uniti. Riconoscendo l’importanza dell’Asia e la proiezione degli Stati Uniti verso il Pacifico, Obama dichiarò la volontà del suo governo di rafforzare i legami commerciali, diplomatici e militari con i paesi della regione.
Questo riorientamento della politica estera si è tradotto in molte manifestazioni concrete, a partire dagli accordi commerciali. Il trattato di libero scambio tra Corea del Sud e Stati Uniti fu rinegoziato e siglato nel 2011. I trattati per una Trans-Pacific Partnership (accordo commerciale ad ampio raggio, che includeva la protezione degli investimenti, standard occupazionali e ambientali, riconoscimento dei diritti intellettuali, apertura degli appalti pubblici alla concorrenza internazionale e risoluzione delle controversie tra imprese e governi) furono estesi nel 2008, su iniziativa americana, da quattro a dodici paesi, e vennero conclusi con un accordo nel febbraio 2016, finora non ratificato. L’ampliamento aveva potenzialmente trasformato un quadrilatero di poco peso (i partecipanti iniziali erano Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore) in un importante blocco economico che, con l’inclusione di Stati Uniti, Giappone, Australia, Canada, Malesia, Messico, Perú e Vietnam rappresenta il 40 per cento circa del prodotto interno lordo mondiale.
Su altri fronti, la cooperazione militare fu rafforzata con l’Australia (2011), il Vietnam (2013) e le Filippine (2014), facendo leva sulle pretese della Cina di estesa sovranità sul Mar Cinese Meridionale (o Mare Filippino Occidentale, o Mare Vietnamita Orientale, a seconda dei diversi punti di vista nazionali). Gli Stati Uniti parteciparono attivamente alle attività dell’ASEAN, e il segretario di Stato Clinton nel 2010 e il presidente Obama nel 2011 presenziarono ai summit dell’Asia orientale, tenuti in concomitanza con le riunioni dei capi di Stato dei paesi ASEAN. L’amministrazione Obama fu anche tra i primi governi ad alleviare nel 2012 ed eliminare nel 2016 le sanzioni contro il Myanmar, scommettendo su un’evoluzione in senso democratico del paese. Il dipartimento di Stato statunitense lanciò (con una certa fanfara ma irrisorie risorse finanziarie) due iniziative, per i paesi del basso Mekong e per una «nuova via della seta», volte a rinsaldare i rapporti rispettivamente con il Sudest asiatico e con i paesi dell’Asia centrale a seguito del disimpegno in Iraq e Afghanistan. Infine, i negoziati per rispondere alla sfida del cambiamento climatico trassero notevole impulso dalla dichiarazione congiunta di Cina e Stati Uniti, nel novembre 2014, di una comune volontà di agire – i due paesi insieme rappresentano il 38 per cento delle emissioni globali di gas serra – e dalla recente ratifica degli accordi di Parigi da parte di entrambi i paesi in concomitanza con la riunione del G20 a Hangzhou nel settembre 2016.
Questa breve panoramica introduttiva è volta a sottolineare che le proposte avanzate dal candidato Trump durante la campagna elettorale sono in netta controtendenza con la linea di politica estera perseguita dal suo predecessore e dalla sua rivale democratica. Una vittoria di Hillary Clinton, che come segretario di Stato aveva visitato l’Asia ben 62 volte tra il 2009 e il 2013, avrebbe riconfermato la politica di coinvolgimento dei paesi della regione, lo sforzo di continuare la concertazione su temi quali il cambiamento climatico, i diritti umani e le ambizioni nucleari della Corea del Nord. E avrebbe rafforzato ulteriormente le relazioni con i paesi del Sudest asiatico, visti come un «terzo polo» collettivamente in grado di controbilanciare, almeno in parte, il crescente peso di Cina e India nella regione, facendo leva sui loro timori in particolare nei riguardi di Pechino.

L’Asia secondo Trump

Se si prendessero alla lettera le dichiarazioni (a volte contraddittorie) rilasciate da Trump durante la campagna elettorale, dovremmo aspettarci: l’uscita degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership e la possibile rinegoziazione di accordi bilaterali; la dichiarazione formale che la Cina manipola il tasso di cambio dello yuan e l’imposizione di dazi sui prodotti cinesi che potrebbero raggiungere il 45 per cento; l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico; la richiesta che paesi quali la Corea del Sud e il Giappone assumano un ruolo maggiore e coprano una parte di costi più rilevante nella propria difesa, arrivando anche a difendersi da soli e possibilmente sviluppando un deterrente nucleare; la proposta che la responsabilità di bloccare l’escalation nucleare della Corea del Nord venga assunta dalla Cina (ma anche – in alternativa? – la possibilità di un incontro diretto fra Trump e Kim Jong-un); e un aumento della spesa militare, volto tra l’altro a rafforzare la presenza della marina statunitense nei mari dell’Asia e nell’Oceano Pacifico.
Complessivamente, il ripiegamento su se stessi e il perseguimento di politiche che mettono al primo posto gli interessi degli Stati Uniti («America first») porterebbe sul piano militare a una corsa regionale agli armamenti (potenzialmente anche nucleari), particolarmente in Giappone, Corea e Cina, e quindi sul piano della sicurezza a una maggiore tensione e instabilità nella regione. Sul piano economico, la Cina vedrebbe ridursi i tassi di crescita che in passato erano stati fortemente sostenuti dalle esportazioni. Data la diversa composizione della propria domanda interna, la Cina non sarebbe in grado di sostituire adeguatamente gli Stati Uniti nel rispondere alla domanda per esportazioni dagli altri paesi della regione. Il rallentamento economico avrebbe potenziali conseguenze politiche, non solo nella stessa Cina, ma anche in altri paesi, come il Vietnam, che hanno basato il loro «patto sociale» su un modello di limitate libertà politiche in cambio di forte crescita economica. La minore attenzione ai diritti umani in altri paesi, già dimostrata durante la campagna elettorale (per esempio in merito alla repressione seguita al tentato colpo di Stato in Turchia), potrebbe avallare giri di vite all’interno di questi paesi asiatici per controllare il possibile dissenso. Questi ultimi potrebbero peraltro cadere nella tentazione d’incanalare le tensioni politiche ed economiche interne verso una politica estera più aggressiva, contribuendo ad aumentare l’instabilità nella regione.
Da un punto di vista strategico e geopolitico, un ripiegamento degli Stati Uniti aprirebbe ulteriori spazi a iniziative regionali, per esempio la sostituzione della Trans-Pacific Partnership con la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo commerciale più tradizionale che include India e Cina ma esclude gli Stati Uniti, o l’espansione dell’Unione economica eurasiatica (UEE) d’ispirazione russa in Asia centrale. Il minore coinvolgimento, giorno per giorno, negli eventi e nelle dinamiche dell’Asia limiterebbe le opzioni della diplomazia americana in caso di conflitto. Invece di partecipare a una pluralità di fori di discussione dove pressioni politiche ed economiche e il perseguimento di alleanze permettono di forgiare soluzioni di compromesso, gli Stati Uniti si autocondannerebbero a opzioni più radicali: ignorare o soprassedere su conflitti nella regione ritenuti minori, e minacciare invece l’intervento militare qualora individuassero un attacco importante ai loro interessi. La terza via, quella di ricercare soluzioni di tipo multilaterale, non sembra rientrare tra le opzioni che la nuova amministrazione vuole perseguire. Basti pensare ai giudizi espressi da Trump durante la campagna elettorale nei riguardi dell’Organizzazione mondiale del commercio e degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Gli impatti di questo scenario sarebbero differenti su diversi gruppi di paesi nella regione. Vale quindi la pena discuterli più in dettaglio a livello subregionale prima di trarre conclusioni più generali per l’intera Asia.

Disimpegno USA: i timori di Tokyo e Seul

Durante la campagna elettorale ha avuto una grandissima eco la volontà del candidato repubblicano di rivedere i parametri di contribuzione alle spese di sicurezza degli alleati, con particolare riferimento ai casi di Giappone e Corea del Sud. Trump, oltre a richiedere un aumento del contributo economico di alleati come il Giappone, ha persino paventato la possibilità che lo stesso Giappone e altri si dotino di un proprio arsenale nucleare con fini di difesa. Tali dichiarazioni, in parte smorzate dopo la vittoria elettorale, hanno creato molta confusione nelle cancellerie di Tokyo e Seul. In particolare, il premier giapponese Shinzo Abe è stato tra i primi a congratularsi e il primo leader straniero, in assoluto, a incontrare Trump dopo l’elezione. L’urgenza della visita, che si è tenuta in una residenza privata di Trump a New York, durante una sosta del viaggio del leader giapponese verso il vertice APEC di Lima in Perú, ha sottolineato l’esigenza di Tokyo di conoscere al più presto le intenzioni del proprio principale alleato. Sebbene l’esito dell’incontro non sia noto, appare evidente come Abe fosse in cerca di rassicurazioni sull’impegno americano a garantire la stabilità della regione.
La Corea del Sud si trova a condividere gli stessi timori. Subito dopo l’elezione, Trump ha rassicurato Seul sul fatto che gli Stati Uniti continueranno a proteggere l’alleato – anche tramite il designato National Security Advisor che ha già incontrato membri del governo sudcoreano – ma l’incertezza non è stata spazzata via del tutto. La paura che l’America di Trump si tiri indietro potrebbe causare una corsa agli armamenti potenzialmente destabilizzante. Questo scenario replicherebbe quanto avvenuto negli anni Settanta, quando al ritiro americano dal Vietnam fece seguito l’avvio di piani di sviluppo della capacità nucleare militare in Corea del Sud e a Taiwan, proprio per i timori legati al disimpegno americano prospettati dall’amministrazione Carter.
Nel breve periodo, tuttavia, la leadership del premier Abe dovrebbe risultare maggiormente consolidata, in un’ottica di rafforzamento della stabilità interna come reazione all’incertezza sul piano internazionale. La stessa cosa potrebbe avvenire anche in Corea del Sud, ma con minore certezza a causa dei gravi scandali interni che potrebbero mettere in secondo piano le considerazioni di politica internazionale.
Per quanto riguarda gli aspetti economici, sembra che Trump abbia ben poco spazio di manovra per ritornare sulla decisione di abbandonare la Trans-Pacific Partnership. La presidenza Obama non ha voluto spingere per un’approvazione in extremis nelle poche settimane che le rimanevano. L’accordo rappresentava un tentativo di mantenere, per gli Stati Uniti e i suoi alleati, il ruolo di chi scrive le «regole del gioco» nelle relazioni economiche internazionali, ed era il simbolo dell’impegno statunitense di supportare le economie asiatiche intimorite dalla crescita cinese. Aveva anche permesso ad Abe di portare avanti una serie di riforme modernizzanti, più facilmente giustificabili sulla base di richieste internazionali, nelle quali il primo ministro giapponese aveva investito internamente considerevole capitale politico, considerandole come la molto attesa «terza freccia» nella sua faretra, complementare alla politica fiscale e monetaria espansive. Ma le preoccupazioni di Corea e Giappone sono anche direttamente collegate alle critiche mosse da Trump agli accordi commerciali esistenti fra i due paesi e gli Stati Uniti. Il presidente eletto ha fortemente accusato l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud entrato in vigore nel 2012 – e promosso dalla Clinton in quanto segretario di Stato dell’epoca – di essere responsabile della perdita di 95.000 posti di lavoro negli Stati Uniti. Secondo i proclami del neopresidente, dunque, la bilancia commerciale con Corea del Sud e Giappone dovrebbe essere rivista a favore degli Stati Uniti a seguito di negoziati guidati da Trump, qui nelle vesti di deal maker. Infine, Giappone e Corea del Sud guardano con attenzione all’evoluzione delle relazioni commerciali sino-americane, perché, secondo alcune stime presentate dal «Wall Street Journal», potrebbero pagare severamente gli effetti di dazi imposti alla Cina. Infatti, il prezzo per ogni punto in meno di crescita del PIL cinese sarebbe una riduzione per Seul dello 0,5 per cento e per Tokyo dello 0,25 per cento dei propri tassi di crescita.
Si apre dunque una fase di grandi negoziazioni, in cui le dirigenze della Corea del Sud e del Giappone dovranno fare i conti con la volontà americana di ottenere ritorni economici in diversi settori, da quello commerciale a quello della sicurezza. A quest’ultimo fronte appartiene la questione della Corea del Nord. Nel corso del 2016 la dirigenza di Pyongyang ha notevolmente alzato il livello dello scontro, effettuando in rapida successione due dei cinque test fin qui condotti dall’avvio del programma missilistico nucleare. La posizione espressa da Trump in campagna elettorale è stata piuttosto netta: la Corea del Nord è un problema cinese ed è Pechino che lo deve risolvere. Si incrociano qui ancora una volta diversi aspetti del profilo del neopresidente. Se questa affermazione esprime tendenze isolazioniste, per un altro verso rappresenta probabilmente l’avvio di un processo di negoziazioni con la Cina in cui si intrecciano aspetti economici e di sicurezza. Nel breve periodo, tuttavia, è possibile che questo atteggiamento spinga Corea del Sud e Giappone a cercare di trovare soluzioni di protezione autonome, probabilmente rinforzando la propria capacità militare e ricercando anche accordi tra di loro. In questo senso, la firma di un protocollo di condivisione di intelligence militare sulla minaccia nordcoreana, avvenuta il 23 novembre 2016, potrebbe rappresentare un esempio della futura cooperazione tra Seul e Tokyo in un contesto di ridefinizione dell’impegno americano.

Commercio e sicurezza: sfida alla Cina?

Sebbene, come nel resto del mondo, l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti sia giunta largamente inaspettata, è difficile affermare quale dei due candidati alla presidenza incontrasse maggiormente il favore della dirigenza di Pechino. Nel confronto Clinton-Trump, infatti, molti commentatori hanno sottolineato come la mancata prima presidente donna avrebbe garantito un atteggiamento più prevedibile, e dunque più stabile – concetto sempre caro ai cinesi – ma al tempo stesso più risoluto, soprattutto su temi come i diritti umani. Di contro, Trump è stato presentato come imprevedibile e artefice di un indebolimento progressivo degli Stati Uniti a causa della sua propensione all’isolazionismo, che la dirigenza cinese avrebbe preferito per i maggiori spazi di manovra che questo lascerebbe loro nella regione. L’obiettivo del presidente cinese Xi Jinping, dunque, è di ricercare con la presidenza Trump una linea di dialogo che assicuri stabilità ma non intacchi gli interessi cinesi, particolarmente prima del XIX congresso del Partito comunista che si terrà a Pechino nell’autunno 2017 per definire la leadership per il quinquennio successivo.
In generale, rileggendo e riascoltando le dichiarazioni di Trump sulla Cina, pronunciate in campagna elettorale, emergono due profili solo parzialmente complementari che determineranno le relazioni fra Cina e Stati Uniti nel corso del prossimo quadriennio. Da un lato, infatti, vi è il Trump che si richiama a parole chiave reaganiane, dall’altro vi è l’irrituale background da uomo d’affari che si manifesta in un deciso carattere da deal maker, per cui tutto è negoziabile o rinegoziabile. La politica estera cinese non si basa su relazioni personali, ma Trump potrebbe cercare e trovare un accordo con Xi Jinping sulla base di vincoli alle esportazioni cinesi e continui acquisti di titoli di Stato americani per sostenere un’espansione...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mondo secondo Trump
  4. Introduzione di Paolo Magri
  5. ‘Come cambia l’America’ di Mario Del Pero
  6. ‘Europa e Russia: con chi starà Trump?’ di Giancarlo Aragona
  7. ‘Il puzzle mediorientale’ di Armando Sanguini
  8. ‘Dal secolo americano al secolo asiatico?’ di Alessandro Pio
  9. ‘Il presidente che nessuno voleva. L’effetto Trump in America Latina’ di Loris Zanatta
  10. ‘Commercio e clima: multilateralismo al capolinea?’ di Lucia Tajoli
  11. Gli autori
  12. Copyright