Quando si vuole indicare il corpo dei carabinieri basta definirlo semplicemente «l’Arma». Tutti capiscono, perché nell’immaginario collettivo la denominazione è divenuta qualificativa per antonomasia.
Un altro appellativo entrato nel lessico comune è quello di «Benemerita». Gli studiosi del mondo militare fanno risalire la sua nascita a un intervento che l’onorevole Serafino Soldi,1 relatore della commissione Affari Interni della Camera dei deputati, svolse il 24 giugno 1864 in occasione della discussione del disegno di legge «sull’aumento della forza dell’Arma dei carabinieri», presentato dal governo Minghetti per fronteggiare le esigenze di pubblica sicurezza del paese. In quella circostanza, in merito ai motivi per i quali a suo parere si rendeva necessario accrescerne di 1340 unità la forza organica, il parlamentare espresse la convinzione che
l’interesse che tutti prendono perché l’Arma dei Reali Carabinieri – parte eletta dell’Esercito – proceda di bene in meglio è in ragione appunto del pregio in cui essa è tenuta e degli indefessi e segnalati servizi che la rendono dovunque benemerita del Paese.
Il termine «Benemerita», in verità, era stato già utilizzato nel 1860 da Bettino Ricasoli, governatore della Toscana (era il periodo delle annessioni plebiscitarie), in una sua lettera indirizzata al ministro degli Affari Interni del Piemonte, quando si dichiarò convinto che
è impossibile che l’Arma Benemerita si attiri in questi nostri paesi non che il culto, neppure un ordinario rispetto finché il Paese non si senta tutelato e ben servito. Questi fattori si rammentano da me per dichiarare che i carabinieri in Toscana ben lungi dall’essere invisi sono anzi certi di avere l’opinione a favore.2
La circostanza che due differenti uomini politici, in diversi momenti e realtà territoriali, Torino e Firenze, si esprimano nello stesso modo circa l’Arma dei carabinieri, definendola «Benemerita», dimostra che già da qualche tempo quell’appellativo era entrato nel sentire della gente. E, altrettanto chiaramente, ciò va interpretato come un’attestazione di stima e di rispetto che da parte di tutte le classi sociali è stata tributata ai carabinieri per i servizi resi ai cittadini e allo Stato. Si tratta di un riconoscimento maturato nel tempo, un patrimonio di fiducia e consenso accumulato grazie a piccole e grandi prove di quotidiano impegno e di affidabilità, professionale e morale, che hanno finito per costituire la cifra distintiva dell’essere carabiniere.
Questa caratteristica, l’attitudine dell’Arma a provvedere, oltre che alla sicurezza, anche ai bisogni della gente – una caratteristica mostrata sin dai primi anni dalla sua fondazione – si è potuta concretizzare attraverso il dispiegamento di un aderente dispositivo territoriale, capace di intercettare le istanze delle comunità. Ciò ha consentito anche di far maturare quella che diventerà un’altra peculiare caratteristica del corpo dei carabinieri: il richiamo al senso di appartenenza e ai valori dell’etica professionale, incentrati sul significato concreto e morale del servizio, che vuol dire servire la gente, essere utili alla popolazione. Ancora oggi il termine «servizio» è comunemente utilizzato, cosicché un carabiniere difficilmente dirà «oggi sono al lavoro», ma «oggi sono di servizio». Un servizio inteso nel suo più pieno significato, spesso ampliato rispetto al quotidiano ambito lavorativo in cui il militare è impiegato.
L’accostamento in maniera disinteressata alle vicende del paese, da parte di chi sempre più spesso registra comportamenti giuridicamente e socialmente negativi, porta a disillusione e scoraggiamento, specie quando queste condotte riprovevoli sono messe in atto da uomini e donne delle istituzioni. In una società in cui la ricerca della ribalta diviene per molti il mezzo principale attraverso cui raggiungere i propri obiettivi, e dove – almeno apparentemente – chi vive di furberie si avvantaggia su chi si dimostra onesto, leale, capace di mantenere la parola data, tendono a diffondersi il disorientamento e la diffidenza verso il prossimo.
Su questo tema, particolarmente delicato, anche il sociologo Francesco Alberoni è intervenuto di recente:
Perché dobbiamo essere onesti, quando la disonestà, il malaffare, il vivere sul filo della legalità, pagano in termini economici, di carriera, di posizione sociale? … Coloro che hanno la bussola dell’integrità morale come possono operare in un mondo dove ci sono tanti spregiudicati?3
La risposta è che l’onesto tende a ispirare fiducia e quindi a ottenere credito. In sintesi, quando devi fidarti di qualcuno, devi rivolgerti a lui. Su questa considerazione, valida in tutti gli ambienti sociali e territoriali, si è incentrata la costruzione del rapporto tra Arma e società civile.
Una liaison che nel tempo si è consolidata e infittita, frutto di innumerevoli comportamenti, di molteplici eventi e situazioni spesso non sempre nettamente percepibili nella loro complessità, e che ha finito per rivelarsi necessaria, se non addirittura indispensabile, nell’ambito del generale assetto dei rapporti tra istituzioni e cittadini.
Il processo di riconoscimento verso un’istituzione da considerare affidabile, e perciò insostituibile per il bene della comunità, è stato per molti lati tortuoso, legato essenzialmente al modo in cui i carabinieri, in varie epoche e in differenti situazioni, hanno interpretato la loro delicata quanto difficile missione di custodi dello Stato e tutori dell’ordine, della legge e dei cittadini. Un modo di porgersi che ha fatto costante riferimento a un animus particolare, quello assunto nell’espletamento del servizio, imperniato su una presenza attenta, discreta e a volte eroica. Da Scapaccino ai tempi odierni, il fil rouge è costante. Si cambiano le procedure tecniche e le apparecchiature, si migliora la professionalità, ma il modo di presentarsi alla popolazione è pressoché immutato.
Non a caso la domanda di carabinieri è sempre altissima, anche all’estero. L’allora ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, nell’intervento alla Festa dell’Arma del 5 giugno 2012, ha tenuto a sottolineare come durante i suoi viaggi istituzionali nei teatri delle missioni internazionali, l’opera del personale dell’Arma non solo sia richiesta – «Give me more carabinieri!» sono state le parole del generale John Allen, comandante dell’ISAF (International Security Assistance Forces) – e apprezzata, ma sia assunta da molti governi come modello di riferimento per riprodurla nei propri paesi.
I carabinieri, però, «non si improvvisano», l’abbiamo già sentito affermare in un altro periodo storico; perché il loro modo di essere – non vedere necessariamente tutto bianco o nero, ma adattare tonalità e sfumature d’intervento secondo le situazioni, le culture e le usanze – è il frutto di un vissuto trasmesso ai più giovani nel solco delle esperienze e delle tradizioni, quasi si trattasse di un fattore genetico, una propria non replicabile formula molecolare che si ritrova puntualmente in ogni contesto, in ogni vicenda, in ogni fase storica che ha legato i carabinieri al non sempre agevole processo di crescita e coesione della nazione.
Nelle grandi calamità, in ogni vicenda bellica, nella lotta alla criminalità, nei periodi bui della storia nazionale, nell’ordinaria quotidianità, il carabiniere svolgerà correttamente il ruolo assegnato di garanzia e imparzialità, finendo spesso per rappresentare una delle poche certezze, un valido punto di riferimento per il paese, sia nelle grandi aree urbane sia nelle più periferiche località territoriali.
Una delle tappe più significative del complesso e graduale processo di riconoscimento del ruolo dell’Arma «Benemerita» si delineò nei primi difficili anni del nuovo Regno d’Italia, duramente impegnato contro il brigantaggio meridionale. In quei tempi era iniziata una vera e propria campagna militare disposta da Cavour per neutralizzare le spinte legittimiste a sostegno dell’ex sovrano Francesco II che, subito dopo il suo esilio a Roma, si erano fortemente acuite. L’atteggiamento intransigente e miope dei piemontesi, che si era evidenziato subito dopo l’impresa dei Mille, favorì l’insorgere nel Mezzogiorno di agguerrite formazioni di rivoltosi già appartenenti al disciolto esercito borbonico e di banditi. Una miscela altamente esplosiva, coagulata dall’insofferenza e dalla sete di vendetta nei confronti di quello che era percepito come l’oppressore straniero. Intere comunità, con in testa i parroci, vicini all’ambiente legittimista, si opposero senza mezzi termini alle truppe del generale Enrico Cialdini, che a sua volta non esitò a far fucilare sul posto i contadini trovati in possesso di armi. Intere famiglie vennero punite per responsabilità anche di uno solo dei componenti, molti villaggi vennero saccheggiati e incendiati. Una campagna feroce e senza tregua, né onore.
Nel dicembre 1862 il Parlamento italiano nominò una commissione d’inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio e chiarire eventuali errori e abusi commessi dall’esercito. La conseguente relazione evidenziò la necessità di sviluppare, accanto all’azione militare, interventi più soft che mostrassero alle popolazioni locali gli indubbi vantaggi che sarebbero loro derivati dal nuovo Stato, incoraggiandone così la prospettiva di un futuro migliore. In ogni caso, nell’agosto 1863, fu approvata una legge speciale incentrata sulla repressione più rigorosa.
Nella campagna contro il brigantaggio fu utilizzata la metà dell’esercito, mentre i carabinieri impegnati furono 4733, provenienti in prevalenza dalle legioni di Chieti, Salerno, Napoli, Bari e Catanzaro. Sommati ai 2144 uomini di stanza in Sicilia, portarono a quasi 7000 le unità dislocate nel Meridione, più di un terzo dell’organico complessivo. Un dato indicativo della centralità del ruolo dei carabinieri, impegnati soprattutto in perlustrazioni e servizi d’intelligence, le attività tradizionali dell’Arma, è fornito dalle decorazioni al valor militare ricevute durante la campagna: 1 medaglia d’oro, 531 d’argento, 4 croci e 478 menzioni, pari a un quarto delle ricompense complessivamente assegnate, sebbene il numero dei carabinieri fosse appena un ventesimo della forza impiegata dall’esercito nelle operazioni.4
Le condizioni nelle quali si trovarono a intervenire i carabinieri risentirono di difficoltà legate all’esigenza da un lato di sconfiggere le bande di briganti, andandole a snidare nelle loro basi operative, dall’altro di proteggere i centri abitati da eventuali incursioni. Costretti a muoversi in drappelli di pochi uomini, i militari dell’Arma dovettero affrontare forze spesso soverchianti. Accadde a Casoli, in Abruzzo, dove due carabinieri tennero testa a una banda di venticinque briganti e si batterono strenuamente sino alla fine delle munizioni; a Sulmona, dove un brigadiere e quattro componenti della stazione si opposero a oltre quindici briganti uccidendone tre; a Barletta, dove un giovane ufficiale e quattro carabinieri assalirono dodici malfattori che avevano catturato un soldato, traendoli in arresto dopo un conflitto a fuoco; a Genzano di Lucania, invece, cinque effettivi della stazione di Acerenza, sorpresi dalla banda Ninco Nanco, circondati e assaliti, si difesero strenuamente ma tre di essi persero la vita.
Nell’azione di contrasto dell’Arma al brigantaggio, condotta con fermezza ma con umanità verso le popolazioni, spicca la figura leggendaria di Chiaffredo Bergia, chiamato giustamente «l’eroe degli Abruzzi». Nacque a Paesana, una piccola località vicina a Saluzzo, in provincia di Cuneo, da genitori tutt’altro che agiati, i quali lo educarono come meglio poterono. Non volendo seguire la vita dei campi o della pastorizia, da ragazzo emigrò in Francia in cerca di lavoro e, dopo una serie di avventure, tornò in patria per arruolarsi nell’Arma. Subito assegnato alla stazione di Scanno, in provincia di Chieti, una zona infestata da briganti, ebbe modo di mettersi in luce ottenendo due menzioni onorevoli e una medaglia d’argento al valor militare, dopo uno scontro a fuoco con la banda Tamburrino che aveva sequestrato due guardie nazionali. Promosso vicebrigadiere, venne assegnato al comando della stazione di Campotosto, e anche lì si segnalò catturando un ricercato per omicidio dopo averlo neutralizzato con una sassata in fronte.
La vita professionale di Chiaffredo Bergia si snoda attraverso innumerevoli azioni coraggiose, che gli valsero decorazioni e promozioni. Una delle più significative riguarda la banda di Giuseppe Pomponio, un pericoloso rapinatore e assassino su cui pendeva una taglia governativa di tremila lire. Della banda facevano parte altri esponenti criminali di rilievo, che terrorizzavano i villaggi con rapine ed estorsioni. Ma l’ennesimo sequestro ai danni di un ricco possidente rappresenterà il loro drammatico appuntamento con il destino: Bergia, per avere libertà d’azione, fa circolare la notizia di essere stato trasferito in un’altra zona; poi, al comando dei quattro uomini che gli sono stati assegnati, si mette alla caccia dei criminali, uccidendoli. Nei mesi seguenti si dedica a regolare i conti con i fiancheggiatori e i finanziatori occulti della malavita, spesso cittadini al di sopra di ogni sospetto, assicurandone alla giustizia ben quarantadue. I comuni di Dogliola e Lentella gli offrirono, oltre ai riconoscimenti ufficiali, sostanziosi premi in denaro. Chiaffredo non era ricco, ma rifiutò, devolvendo il denaro in opere di beneficenza. Accettò solo gli encomi ufficiali e una medaglia d’oro al valor militare.
La provincia dell’Aquila non era però del tutto liberata dalla presenza dei briganti. Uno dei più pericolosi era il capobanda Croce di Tola, un vero tormento per la zona di Sulmona. Anche questa volta Bergia riuscì a neutralizzare i malviventi con un coraggio e un carisma assolutamente eccezionali, guidando i propri (pochi) uomini con autorevolezza e capacità, ottenendo così l’apprezzamento della cittadinanza di Scanno che gli offrì una medaglia d’oro. Il sovrano, a sua volta, gli tributò la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia. Promosso maresciallo, verrà trasferito in località più tranquille come Torino e Milano, ma la sua tenacia e la sua determinazione non verranno mai meno: Chiaffredo Bergia riuscì infatti a salire la scala gerarchica fino al grado di capitano. In quel periodo Bergia sposerà la sedicenne Claudina Borghese, figlia di un suo superiore, dalla quale avrà quattro figli. Morirà a Bari, per una polmonite, il 2 febbraio 1892, a soli cinquant’anni.
L’incessante attività dell’Arma contro le formazioni criminali si dispiegò anche in Sardegna, dove sulla fine dell’Ottocento si era registrata una notevole recrudescenza del banditismo. Nel quadriennio 1890-94 l’isola condivideva infatti con la Sicilia e la Calabria il triste primato degli omicidi. A differenza delle regioni meridionali, però, non si trattava di brigantaggio con connotazioni politico-sociali, ma di delinquenza comune che agiva in prevalenza nell’ambito agro-pastorale. Le cause principali del banditismo sardo vanno ricercate essenzialmente nella cultura isolana, dove l’interpretazione tradizionale di costumi e regole della società locale (per esempio il codice barbaricino) viene contrapposta all’ordinamento giuridico proprio di uno Stato lontano (che sia Torino, Firenze, Roma) percepito come oppressore, oltre che nell’arretratezza economica e nel profondo divario fra mondo cittadino e mondo rurale.
Negli ultimi dieci anni di fine secolo l’Arma attuò una serie di operazioni in Sardegna (che tra l’altro costarono la vita a ventinove carabinieri), tra cui vanno ricordate quelle condotte dal capitano Giuseppe Petella, dal brigadiere Lussorio Cau e dal carabiniere Lorenzo Gasco. Proprio Cau, figlio di un contadino di uno sperduto paesino del Nuorese, rappresenta appieno tutti i militari dell’Arma che affrontarono con grande impegno la dilagante criminalità di quei territori. L’avventura umana di quest...