Italiani voltagabbana
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Italiani voltagabbana

Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica sempre sul carro dei vincitori

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Italiani voltagabbana

Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica sempre sul carro dei vincitori

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Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852058820
IX

Le donne di Renzi conquistano il Palazzo

Maria Elena Boschi, la più sexy e la più tosta

«Finisce che non ti sposi…» sospirano i genitori di Maria Elena Boschi quando, qualche fine settimana fa, la ministra è tornata al suo paese, Laterina, 3500 abitanti, a 23 chilometri da Arezzo. Non è stato facile per il presidente del Consiglio Matteo Renzi trovare otto donne a cui affidare otto dei sedici ministeri del suo governo. La lunga tradizione politica italiana è sempre stata declinata al maschile. Poche le donne nei posti di responsabilità, pochissime le ministre (è dura per uno come me, formatosi in altri tempi, usare questa parola al femminile: e, infatti, il protocollo dice ancora «ministro»). Ma il premier è un testone e, alla fine, la quadratura del cerchio gli è riuscita. Otto ne voleva, e otto ne ha fatte nominare dal presidente Napolitano.
Le altre sette si sono subito rassegnate: il simbolo del governo Renzi è la Boschi. Giovane, bella, intelligente, tenace. La persona più vicina al presidente, insieme a Luca Lotti. La sola che gli dia (dolcemente, ma decisamente) sulla voce anche in pubblico (Lotti, invece, lo fa in privato). Il 22 febbraio 2014, quando il governo giurò al Quirinale, fotografi e telecamere impazzivano dietro il suo tailleur pantalone blu elettrico su scarpe rosa tacco dodici. Qualcuno impazzì a tal punto che, un mese dopo, mise in rete un fotomontaggio che mostrava in trasparenza un tanga mentre la Boschi si chinava per firmare il verbale del giuramento. («Se questo svolge una funzione sociale, se aiuta cioè qualcuno che ha bisogno di queste cose…» ironizzò l’interessata al tavolo di Lilli Gruber a «Ottoemezzo». «Ma io ho imparato a ignorare le cose ridicole e assurde. Al governo ci sono donne giovani che lavorano seriamente.»)
«Non avevo pensato al vestito» mi dice il bel ministro nel suo ufficio di largo Chigi «e meno che mai al colore. L’ho comprato in cinque minuti da Zara [la popolare griffe spagnola ha un grande negozio proprio sotto il suo ufficio]. Vado nei negozi dove vanno i ragazzi della mia età. “Addosso a te sta bene tutto” mi dice nonna Giuliana, che mi segue con tanto affetto in televisione…»
La segue Giuliana, la nonna materna; la segue Gianna, la nonna paterna; la seguono tutti gli anziani che si riuniscono la domenica pomeriggio al bar del circolo annesso alla parrocchia, «dove facevo – gratis, ovviamente – la barista per le persone d’età che giocano a carte» aggiunge. «Quando li incontro alla messa della domenica vorrebbero che mi arrabbiassi di più. E io rispondo che non c’è bisogno. Orgogliosi? Be’, sì: una di Laterina che diventa ministro… Ma in famiglia tutti hanno vissuto questo primo anno di governo con assoluta normalità.»
Nonne a parte, la famiglia Boschi è composta da papà Pier Luigi, 66 anni, ex dirigente Coldiretti e oggi vicepresidente di Banca Etruria, e da mamma Stefania, 57 anni, insegnante e già vicesindaco di Laterina, che ha rinunciato a candidarsi a sindaco alle elezioni comunali del 2014. Entrambi sono iscritti al Pd, come gli altri loro due figli: Pier Francesco, appena laureatosi in ingegneria, ed Emanuele, plurimaster in economia e un impiego in banca. (Il 28 giugno Emanuele ha sposato Eleonora Falsinelli nella cattedrale di Arezzo, ma tutti gli occhi erano puntati sull’abito di seta turchese intenso dell’importante sorella di lui, che faceva da testimone.)
«Finisce che non ti sposi…» sospirano i genitori di Maria Elena. «Non sono del tipo “Quando mi dai i nipotini?”, però sono giustamente preoccupati perché non ho tempo per me. Perciò gli farebbe piacere se mi sposassi. Ma la mia storia più importante è finita nel 2013, dopo quattro anni. [Andrea Bruno Savelli, attore e regista fiorentino. “Bello e in gamba, vota Pd” dice di lui la Boschi, con la quale è rimasto in buoni rapporti. Motivo della rottura? “La gelosia di lui” scrisse il settimanale “Oggi”.] La mia vita privata è fortemente limitata. Vado a cena fuori non più di due giorni a settimana. Difficile ora andare a cinema e a teatro, mentre prima avevo l’abbonamento. Al tempo del liceo mi piaceva ballare, andavo in discoteca tutte le settimane. Adesso? Mai. Giusto due serate alla Capannina di Forte dei Marmi durante le vacanze. Il mondo del gossip? Me ne sono fatta una ragione, vivo i pettegolezzi con molta serenità, non li leggo più nemmeno dal parrucchiere. Quanti parlamentari mi hanno invitato a cena? Qualcuno, ma mai per cene a due. Il bacio sulle guance con un ragazzo che ha fatto il giro della rete? È un amico spagnolo, passato alla Festa dell’Unità. D’altra parte, sono riusciti ad armare un pettegolezzo anche sul bacio che mi sono scambiata con il sottosegretario Delrio dopo l’approvazione in Senato di un emendamento su province e città metropolitane…»
Prima dell’estate, la Boschi è andata al mare solo una volta con le amiche, nel riserbo più assoluto. Ma in agosto si è presa qualche giorno di vacanza «in pubblico» e sulla spiaggia i fotografi si sono scatenati, misurando di qua e di là, lato A e lato B…
«Non possiamo farci cambiare la vita dalla politica» mi dice, ricevendomi in jeans e camicetta al ministero. «La mia famiglia va da trent’anni allo stesso “bagno” di Marina di Pietrasanta, sotto lo stesso ombrellone. Per una settimana sono stata il bersaglio dei fotografi. Vedere la radiografia del mio fisico sui settimanali fa parte degli inconvenienti del mestiere. Poi, me ne sono andata per un’altra settimana in Croazia con le mie due amiche di sempre (una di Laterina e una con la quale dividevo la casa durante il periodo dell’università a Firenze) e non mi ha beccato nessuno.»
D’altra parte, anche quando si è presentata in abito da sera (nero) a Napoli per il centenario del famoso stilista delle cravatte Marinella e (rosso fuoco) all’inaugurazione del nuovo teatro dell’Opera di Firenze, i suoi décolleté hanno fatto furore. «La mia taglia è 40» precisa «e ci mancherebbe se a 33 anni mi preoccupassi di non stare perfettamente a posto…»

«Le nottate imposte da Grillo? Tanto, la sera non esco»

Maria Elena Boschi è probabilmente il ministro più impegnato del governo. Ha tre deleghe che, un tempo, venivano distribuite fra i ministri esclusi dalla lista degli incarichi più importanti. Renzi, invece, le ha scaricate tutte su di lei: i Rapporti con il Parlamento, un compito che presuppone la fiducia assoluta del presidente del Consiglio e richiede un delicatissimo lavoro di mediazione, vista l’effervescenza della minoranza Pd e dei grillini; l’Attuazione del programma di governo, che, nel caso di Renzi, è la scommessa della vita, per sfatare il «dici dici e poi non fai» e quella che viene da lui stesso definita la «sindrome dell’annuncite»; e, infine, le Riforme istituzionali, un ministero solo coreografico quando si sapeva che le riforme non si sarebbero fatte, ma esplosivo adesso che le riforme – di dritto o di rovescio – si stanno facendo.
La riforma più grossa è quella del Senato. Al posto dei 315 senatori eletti dai cittadini ci saranno soltanto 95 senatori, scelti tra i consiglieri regionali (74) e i sindaci (21), e quindi già retribuiti, e 5 senatori a vita, scelti dal presidente della Repubblica, anch’essi non retribuiti. («Si risparmiano 315 stipendi, che non è poco» afferma la Boschi.) Potranno legiferare soltanto su leggi costituzionali o attinenti agli enti locali, su diritti fondamentali come salute e famiglia, su referendum e trattati internazionali. La riforma del famigerato Titolo V della Costituzione – approvata nel 2001 dalla sinistra con tre voti di maggioranza per ingraziarsi l’elettorato leghista, con un costo enorme per lo Stato e una conflittualità infinita tra Stato e regioni – è stata finalmente ribaltata, restituendo allo Stato centrale competenze su infrastrutture, energia, promozione turistica. «E il fatto che le regioni siano largamente rappresentate nel nuovo Senato, che eserciterà la funzione di controllo sulle leggi statali, ne rafforza il potere di codecisione» puntualizza il ministro.
Per arrivare all’approvazione in prima lettura l’8 agosto 2014, Renzi e la Boschi hanno dovuto battersi duramente con una parte del Pd che non accettava – come molti altri parlamentari – la fine dell’elezione diretta dei senatori. «Invocare l’obiezione di coscienza per la riforma del Senato» mi dice la Boschi «mi è parsa un’esagerazione. Questo può valere per i temi etici o quando si decide sulla vita delle persone, non per una norma del genere. Se stai in un gruppo politico, hai diritto di confrontarti in tutti i modi. Noi l’abbiamo fatto per mesi. Il 70 per cento di chi ha votato per Matteo Renzi alle primarie lo ha fatto su un programma di questo genere. Il voto si è ripetuto in segreteria e, poi, in assemblea.» E, alla fine, il governo l’ha spuntata.
Le faccio osservare che, dopo il gran rumore sull’abolizione delle province, tra il 28 settembre e il 12 ottobre – sia pure con elezioni di secondo livello e senza indennità – si è votato per 64 consigli provinciali e per 8 consigli metropolitani, che nelle grandi città sostituiranno quelli provinciali. (Fra l’altro, per 986 posti senza stipendio aggiuntivo e con pochissimo potere, al posto dei 2500 precedenti, si è scatenata ovunque una bagarre degna della lotteria di Capodanno.) «Un risparmio di 116 milioni all’anno e la soppressione di migliaia di seggi di consigliere e assessore provinciale non mi pare poco» sostiene il ministro. «Quando la riforma costituzionale sarà completata, le province scompariranno del tutto, il personale che si occupa di strade e di scuole verrà trasferito a regioni e comuni, e anche allo Stato, grazie alla legge Madia che consente spostamenti fino a 50 chilometri dalla residenza. Così, forse, risolveremo anche la cronica carenza di organici degli uffici giudiziari.»
La nuova legge elettorale, invece, si barcamena come al solito tra le esigenze dei partiti più piccoli e di quelli più grandi (Forza Italia contro Ncd, ma non solo) e si dovrà aspettare la primavera del 2015.
Come ministro per l’Attuazione del programma, la Boschi è orgogliosa del ritmo con il quale si procede all’emissione dei «decreti attuativi» senza i quali le leggi non valgono niente. «Ne abbiamo ereditati 889 dai governi Monti e Letta, a metà ottobre 2014 ne erano stati attuati 462, più della metà. Confrontando gli stessi mesi di governo, la nostra produttività è del 42 per cento maggiore di quella del governo Letta.»
E le minacce dei grillini che, dopo la kermesse del Circo Massimo, hanno promesso di moltiplicare l’ostruzionismo notturno? «Per me nessun problema» mi risponde placida. «Tanto, la sera non esco…»

Marianna Madia: «C’è un momento in cui la storia sceglie per te»

«Chi l’avrebbe detto che un giorno tu mi avresti intervistato?» Marianna Madia è più bella quando sorride, anche se così perde un po’ della somiglianza con la Venere di Botticelli, rilanciata in modo impressionante da Maurizio Crozza nell’autunno del 2014. Già, chi l’avrebbe detto?
Per noi di «Porta a porta», Marianna è la figlia di Stefano, un nostro collega bello, bravo e sfortunato, morto nel 2004 a 49 anni, quando lei ne aveva 24. Stefano, collaboratore esterno della Rai, aveva diritto a essere assunto e io testimoniai in tribunale in suo favore. Fu l’unico, tra quelli nelle sue condizioni, a perdere in primo grado. Walter Veltroni gli garantì uno stipendio facendolo eleggere consigliere comunale e Stefano morì durante la consiliatura. («Ma sai che ho vinto l’appello della causa nel 2012, otto anni dopo la sua morte?» mi confida Marianna. «Adesso la Rai ha dovuto fare ricorso in Cassazione…») Ai funerali del padre, la ragazza pronunciò parole di ricordo che impressionarono tutti, anche Veltroni, che però non si fece vivo subito con lei. Marianna (studi al liceo Chateaubriand, laurea con lode in scienze politiche, dottorato di ricerca in economia del lavoro) si presentò a Enrico Letta e venne presa per uno stage all’Arel, l’istituto di studi economici fondato da Beniamino Andreatta.
Nel 2008 Veltroni si ricordò di lei e delle sue parole al funerale del padre («Io le avevo dimenticate») e la candidò alla Camera. «Walter fu un innovatore, perché aveva capito che il Pd doveva essere fatto soprattutto da “nativi democratici” più che da ex Ds ed ex Margherita. Nel 2007, senza essere iscritta al Pd, avevo fatto campagna per Enrico Letta alle primarie per la segreteria del partito, vinte poi da Veltroni. Mi iscrissi soltanto nel 2008, quando fui candidata. Alle primarie del 2012 non votai per Renzi. Lo conoscevo soltanto attraverso le interviste e mi sembrava solo un guastatore. Non avevo capito che cosa c’era dietro. Matteo, in realtà, ha sviluppato il concetto di Walter sul Pd come partito a vocazione maggioritaria. Dopo le elezioni del 2013, il rinnovamento nel gruppo parlamentare del Pd fu profondo. Legai con due persone: Alessia Rotta, di Verona, responsabile comunicazione del partito, e Antonio Decaro, sindaco di Bari. Insieme a loro, nella tarda primavera chiesi un incontro a Renzi e fu l’unico, prima che mi chiamasse a far parte della segreteria dopo essere arrivato alla guida del Pd. Non ero della sua corrente? Mi dicono che appartengo a tutte le correnti, perché non appartengo a nessuna. Prendi Renzi: io non faccio assolutamente parte di quello che viene chiamato il “giglio magico”. Ma lui mi affidò la responsabilità del lavoro e ci siamo sempre scambiati opinioni in assoluta libertà. Lui ti ascolta, sempre. Poi, se non lo convinci, fa tranquillamente il contrario di quello che gli hai detto. E, alla fine, ha voluto affidare a due giovani donne, a me e alla Boschi, due riforme cruciali, la Costituzione e la pubblica amministrazione.»
Prosegue: «Quando mi chiese di fare il ministro della Riforma della pubblica amministrazione, non dissi immediatamente di sì. Non perché avessi dei dubbi sulla straordinaria importanza della scommessa, o perché dubitassi del fatto che Renzi rappresenta il vero cambiamento dell’Italia. Il fatto è che ero incinta di otto mesi (Margherita) e avevo un bambino di due anni e mezzo (Francesco). Non volevo essere il simbolo che una donna può fare tutto. Poi pensai che, in quel momento, si offriva a una generazione di giovani donne l’opportunità di assumersi enormi responsabilità e accettai di mettermi in gioco. Mancava una settimana al parto e, una settimana dopo la nascita della bimba, ero qui al ministero».
Me la ricordo, Marianna, entrare nello studio di «Porta a porta» con il pancione, festeggiata dalle mie colleghe, che lo sono state anche di suo padre.
«C’è un momento in cui la storia sceglie per te,» dice il ministro «ma non vorrei che passasse il messaggio, anche culturalmente sbagliato, che la maternità non ha bisogno dei suoi tempi. Adesso devo riconoscere che mi è mancato un pezzo di maternità di Margherita. Mi hanno aiutato molto mio marito Mario [produttore cinematografico] e una nonna a tempo pieno, come lo fu con Francesco, anche lui bambino senza nido.»
Faccio notare a Marianna che fu Alcide De Gasperi al suo settimo governo, nel 1950, giusto trent’anni prima che lei nascesse, a nominare il primo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con l’incarico di riformare la pubblica amministrazione. Era Roberto Lucifredi, enfant prodige del diritto amministrativo a Genova durante il fascismo. Ma il ministro per eccellenza che ha attraversato i solenni corridoi del cinquecentesco palazzo Vidoni è il mio conterraneo abruzzese Remo Gaspari, che ha svolto le funzioni di Marianna Madia in sette governi nell’arco di trent’anni. «È lui che mi ha portato qui» ricorda il commesso che mi accompagna. «Stavo alle Poste, e Gaspari, alle Poste, contava molto…»

«Se sei bravo, puoi arrivare subito in vetta»

In oltre sessant’anni si sono cavati pochissimi ragni dal buco, dico alla mia giovane amica, e tu ti trovi a guidare il ministero con la più alta probabilità d’insuccesso. Ma ci vuole altro per scoraggiare Marianna Madia, perfettamente a suo agio nel saloncino dove si vuole che Carlo V abbia tenuto udienza durante un breve soggiorno romano. «Qui non conta approvare le norme» puntualizza. «Conta attuarle. Ci siamo dati mille giorni per fare tutto? Bene, entro tre anni tutti gli italiani avranno la cittadinanza digitale…»
A proposito, sai che in una Camera di commercio mi hanno rifiutato la firma digitale? Ho dovuto firmare l’originale con la penna blu… «Non mi meraviglio. Finora ogni amministrazione è andata avanti da sola, senza una visione comune. Più che una resistenza all’innovazione, c’è deficit di leadership. Il raffronto con il privato, dove ogni cosa avviene in Internet, è impietoso. La cittadinanza digitale non arriverà tutta insieme, ma alla fine dei mille giorni ognuno di noi potrà accedere online ai servizi essenziali». Che sarebbero? «Fisco, casa, salute, disabilità. Si comincia nel 2015 con la dichiarazione dei redditi precompilata.»
Altra novità: il concorso unico. «Non ci saranno più concorsi per le singole amministrazioni, ma solo per lo Stato, prevedendo osmosi con gli enti locali e il mondo privato. Puoi fare anche un’esperienza nel mondo privato, ma se hai fatto prima il concorso pubblico, resti dirigente della Repubblica.»
E come si farà a premiare il merito, grande tabù dell’amministrazione pubblica? «Oggi i dirigenti sono divisi tra quelli scelti con lo spoil system (arriva il nuovo ministro e si porta i suoi, che vanno via con lui) o quelli entrati per concorso. In questo caso, tutto è regolato da meccanismi automatici. Se sei un dirigente di seconda fascia e sei bravissimo, per essere promosso in prima devi aspettare che si liberi il posto. Se sei un dirigente somaro di prima fascia, puoi non fare niente, ma hai la garanzia di non retrocedere. Con il ruolo unico del dirigente dello Stato, puoi essere chiamato di volta in volta a ricoprire incarichi di maggiore o minore responsabilità. Perciò puoi salire, ma anche scendere. E se non sei chiamato perché non servi, puoi essere licenziato. Vorremmo riuscire a imporre il criterio per cui la valutazione fa parte della carriera.»
Già, ma chi valuta? «Una commissione super partes, senza politici e senza sindacalisti, fornisce al capo dipartimento della pubblica amministrazione una rosa tra cui scegliere. Quando il prescelto cesserà dal suo incarico, tornerà nel ruolo unico e verrà valutato di nuovo.»
Come l’hanno presa i dirigenti? «I giovani, bene. Con la riforma, un giovane dirigente molto bravo potrà avere subito incarichi di vertice.»
E la riforma territoriale? Che fine fanno i prefetti? Quanti ne resteranno? Si è detto che da 105 scenderanno a una quarantina. «Sul numero non siamo rigidi. Possono restarne 40 o salire a 60. Non vogliamo meno Stato, ma uno Stat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Italiani voltagabbana
  4. Introduzione. Un uomo solo al comando
  5. I. «Vincete le guerre con i soldati degli altri»
  6. II. «In nome di Roma: guerra!»
  7. III. Tutti fascisti, tutti antifascisti
  8. IV. I voltagabbana dell’8 settembre
  9. V. La Repubblica di Tarzan
  10. VI. Quando un solo voto ti salva la vita
  11. VII. La scalata al governo di quattro amici al bar
  12. VIII. «Undici milioni di voti per fare la rivoluzione»
  13. IX. Le donne di Renzi conquistano il Palazzo
  14. X. Giornalisti vil razza dannata
  15. XI. Berlusconi risorto, tra patti e tradimenti
  16. XII. Il «grande complotto» e l’amore per Francesca
  17. XIII. Grillo e Salvini divisi su tutto, ma uniti contro clandestini ed euro
  18. Postfazione. Anche i grandi artisti voltano gabbana
  19. Volumi citati
  20. Copyright