Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo
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Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo

  1. 658 pagine
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Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo

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Inviato dal Congresso degli Stati Uniti per cercare di "capire qualcosa" nella convulsa realtà politica europea, nel 1806 sbarca ad Amsterdam un giovane gentiluomo americano. Mr. Pyle, questo il suo nome, punta veloce verso la Prussia, perché è alla corte di Federico Guglielmo che si decideranno le sorti del mondo diviso tra le ambizioni napoleoniche, i timori dell'Inghilterra e le minacce della Russia. Questo libro è il diario del suo viaggio e delle sue avventure di galante spia ante litteram, scritto sui tavoli delle osterie o nei palazzi dei principi, o anche per strada e persino sul campo di battaglia di Jena, tra i mille incontri con personalità del calibro di Goethe e Fichte e un'indimenticabile folla di personaggi, ragazze da bordello, contadini, soldati. Vincitore del premio Strega nel 1996, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo è un libro pieno di echi storici e letterari, da Casanova a Sterne a Goldoni, che mantiene intatta la vivacità, l'arguzia e l'autenticità di un diario scritto con lo sguardo inedito di un indimenticabile personaggio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852059063

Domenica, 13 luglio

Ieri sono sbarcato ad Amsterdam, dopo sei settimane di viaggio. Andar per mare m’è riuscito quanto mai penoso: la calura era soffocante; il vitto, pessimo; l’acqua, salata; e come se non bastasse, si son contati diversi morti a bordo, di malattia. Negli ultimi giorni a questi flagelli si è aggiunta la minaccia delle fregate inglesi, che corrono la Manica e sequestrano imparzialmente le navi di qualsiasi nazionalità, purché sospettate di commerciare con la Francia o con la Prussia. Il nostro capitano, Mr. Pemberton, dell’Alabama, mi aveva avvertito che se un bastimento inglese ci avesse abbordati, e gli ufficiali avessero preteso di arruolare a forza qualcuno dei nostri marinai, secondo la loro usanza, egli avrebbe fatto tirare freddamente su di loro; né avevo potuto in alcun modo dissuaderlo da quei propositi bellicosi, benché mi affannassi a spiegargli la mia situazione; ma la buona sorte ci ha permesso di toccar terra senza cattivi incontri. I doganieri olandesi, saliti a bordo con una barca, hanno frugato senza fretta i miei bagagli, e ho dovuto lasciarli fare, riflettendo in cuor mio sulla durezza dei tempi: poiché prima della Rivoluzione, a quanto ricordo, l’ingresso in Olanda era del tutto libero, e si paragonava favorevolmente con le mille noie delle dogane inglesi.
All’arrivo, dopo aver trovato alloggio il più possibile lontano dal traffico del porto, sono entrato in un caffè e ho mandato a cercare i giornali. La serva, cui mi ero rivolto nella mia lingua, è subito ritornata con una pipa, la prima cosa cui un olandese pensa entrando in una taverna; è risultato che essa non parlava neppure una parola d’inglese, e ho durato non poca fatica per farle comprendere che cosa desideravo, ma mi è parsa comunque assai sorpresa che avessi rifiutato la pipa. Ad Amsterdam si vendono soltanto gazzette francesi, senza contare quelle olandesi: i giornali inglesi non passano da quando Bonaparte ha proibito qualsiasi commercio con l’Inghilterra e il nuovo re d’Olanda, suo fratello, si è visto costretto a seguirne l’esempio, fingendo di ignorare il malcontento del suo popolo. Da questa lettura ho appreso che Pinkney, partito da Baltimora una settimana dopo di me, è già sbarcato a Liverpool; che il desiderio di pace è universale in Europa, e che il ritorno in patria dell’armata francese è questione di poche settimane. Il tono dei giornali non permette di comprendere se Bonaparte sia davvero sazio delle sue conquiste o non stia semplicemente tentando di abbagliare il mondo con belle parole, come credo più probabile. La stampa francese osserva la più grande cautela nel menzionare le azioni o i disegni del governo; ciò offre un piacevole contrasto con l’eccessiva libertà di stampa prevalente in America, dove ogni provvedimento governativo e ogni personaggio pubblico sono attaccati nei giornali con indiscriminata acrimonia. In ogni caso il “Moniteur” non mente quando afferma che il desiderio di pace è universale, anche se, come spesso accade, la gente tende a scambiare i propri desideri per la realtà: due commercianti francesi, seduti al tavolo vicino al mio, giudicavano che la Russia e l’Inghilterra concluderanno al più presto un accordo con la Francia, assicurando finalmente la tranquillità dell’Europa. Quanto alla guerra della Prussia contro l’Inghilterra, non se ne parla affatto, e sebbene non sia stato firmato un trattato di pace, tutto lascia pensare che nessuna delle due parti abbia alcuna intenzione di prenderla sul serio: non il re di Prussia, che ha perduto nei primi giorni di guerra tutte le sue navi e il suo commercio, e neppure il gabinetto inglese, che preferirebbe senza dubbio tornare in possesso dell’Hannover in modo più pacifico. Ma ecco un esempio del credito che conviene dare alle indiscrezioni dei giornali: i fogli francesi pretendono di sapere per certo che Mr. Fox non è affatto in via di guarigione, come ripete la stampa inglese, ma al contrario peggiora di giorno in giorno, tanto che i suoi medici hanno rinunciato alla speranza di salvarlo; gli ultimi giornali inglesi che ho avuto occasione di vedere in America prima di imbarcarmi sostenevano, non meno sicuri di sé, che al contrario è Bonaparte a trovarsi in punto di morte, per effetto degli stravizi cui si è abbandonato nel fasto della sua nuova corte. Per quanto mi riguarda dovrà passare ancora molto tempo prima che possa permettermi qualche piacevole eccesso: stasera per la prima volta ho potuto prendere un po’ di brodo, ma il mio stomaco non si è ancora del tutto rimesso dai patimenti del viaggio.

Lunedì, 14 luglio

Amsterdam è ancor sempre la grande città che ricordavo, ma il porto è in disarmo; sui canali si affolla una moltitudine di piccole imbarcazioni, ma la vista di un bastimento a tre o quattro alberi che passa a vele spiegate in mezzo alle case è diventata rara. Il paese è impoverito dalle enormi esazioni che gravano sugli abitanti per il mantenimento dell’armata francese; mentre a causa del bando imposto al commercio inglese i traffici non sono mai stati così scarsi. L’antica intraprendenza degli olandesi ha lasciato il posto a un torpore cui contribuisce, a mio giudizio, l’abuso del tabacco: ogni bocca è provvista di una pipa, e persino il facchino che ha trasportato i miei bauli in un carretto non poteva mettersi in cammino prima di accenderla. Mynheer,1 considerato che il tè, il cotone e le spezie non profittano più come una volta, investe il suo capitale in sovrane d’oro, le nasconde nella stufa e se ne sta placidamente a fumare contemplando il suo canale preferito, le cui acque ristagnano al pari dei suoi pensieri. Il re Luigi nomina ogni giorno generali, accademici e ciambellani, i cui nomi sono doverosamente riportati dalle gazzette ufficiali, e sono quasi tutti nomi francesi. Per il resto, si assicura ch’egli vorrebbe guadagnare il favore del popolo, e a questo scopo ha fatto istituire nel suo palazzo dell’Aja un gabinetto da fumo, dove si ritira per ore a fumare la pipa, nella speranza di assomigliare ai suoi sudditi; costoro, tuttavia, non sembrano disposti a dimenticare che il re è pur sempre uno straniero, imposto dalle baionette di suo fratello. Molte merci importate dall’Inghilterra cominciano a essere difficili da trovare; tuttavia nei caffè si beve una cioccolata eccellente, che sta lentamente rimettendo in sesto il mio stomaco.
Grazie ai buoni uffici del nostro console generale in Olanda, Wyeth, che sono andato a trovare stamane, ho acquistato una vettura quasi nuova, una carrozza da viaggio a quattro cavalli, che mi è costata cinquecento fiorini, pari se ho fatto bene i conti a centonovantacinque dollari; molto meno, cioè, di quanto mi sarei aspettato. Partirò dunque domattina alla volta di Berlino, per Münster, Hannover e Brunswick, invidiato da Wyeth, che trova detestabile la birra olandese e sta meditando da tempo di rassegnare le dimissioni e ritirarsi a vita privata nella natìa Virginia. Nel pomeriggio avrei voluto andare a spasso, ma il cattivo tempo me l’ha impedito; in un medesimo giorno abbiamo avuto il caldo, il freddo, l’acqua, il sole e la tempesta, e Will, che ho spedito a fare diversi acquisti indispensabili per il viaggio, è tornato all’albergo fradicio come un ranocchio. Benché gli abitanti siano avvezzi a questo bel clima e naturalmente robusti, i reumi, i catarri, le podagre e i mali di petto debbono essere le malattie più alla moda da queste parti.
Solo verso sera, quando la pioggia ha smesso di cadere e il sole si è mostrato per un istante fra le nubi, ho arrischiato una breve passeggiata, mentre i miei bagagli venivano caricati in carrozza. Non oserei raccomandare Amsterdam a chi viaggia in cerca di bellezze architettoniche; e tuttavia non manca di luoghi dove prendere il fresco. Gli edifici sono di mattoni, alti tre o quattro piani, e per lo più d’apparenza insignificante, ma gli alberi che costeggiano i canali coprono col loro verde il cattivo gusto dell’architettura; le ombre che proiettano sulle facciate e i riflessi delle loro foglie nell’acqua ingannano l’occhio e il giudizio dello spettatore, offrendo un piacevole contrasto con la monotonia delle costruzioni. La pulizia immacolata che regna dappertutto, nelle strade come nelle case, supera qualunque immaginazione e non finisce di sorprendere considerando il carattere degli abitanti; gli olandesi infatti sono assai sudici nella persona, sicché ha forse ragione Wyeth quando afferma che il lindore delle loro case non deriva affatto da un gusto proprio della nazione, ma solamente dalla necessità. «L’umidità esalata dai canali» sostiene «è tale che se questa gente trascurasse di lavare le mura delle case, in pochi giorni il salnitro le ricoprirebbe di muffa.» È vero che l’ossessione della pulizia si è talmente radicata nel carattere della nazione da perdurare, per generazioni, anche dopo il trapianto in un paese e un clima completamente differenti, come abbiamo modo di sperimentare ogni giorno fra gli olandesi d’America. In ogni caso si tratta di un’abitudine assai scomoda: più di una volta ho rischiato di essere inzuppato da donne di servizio impegnate a lavare e rilavare finestre su cui non si scorgeva la più piccola traccia di polvere.
Benché fosse ancora giorno, la città pareva addormentata e pochi negozi erano aperti; solo davanti alla Borsa alcuni commercianti ritardatari animavano col loro brusio il silenzio delle strade circostanti. Nella bottega di un ebreo, rivenditore di libri usati, ho trovato un’operina curiosa: si tratta, o almeno così pretende l’editore, delle memorie della margravia di Bayreuth, sorella del gran Federico, contenenti i più straordinari pettegolezzi sulla vita privata della corte di Berlino. Il volume non porta né la data d’impressione né il nome dello stampatore; l’ebreo mi ha assicurato che la bottega che ha stampato l’opera è fallita dopo averne tirate pochissime copie, e che il manoscritto si trova ora a Parigi, dove Bonaparte intende procurarne quanto prima la stampa e la diffusione, al fine di gettare il discredito sulla casa di Prussia. Osservando il mio interesse per queste materie, il libraio ha aperto un cassetto chiuso a chiave, e ne ha estratto un opuscolo scandaloso sugli amori del defunto re di Prussia Federico Guglielmo II, uscito ad Amsterdam dieci anni fa, e intitolato graziosamente Saul II, detto il Re Grasso di Kanonenland, e le sue amanti; benché mi assicurasse che il libro era proibito, e che egli correva un rischio personale a tenerlo in negozio, gli ho detto che due fiorini mi parevano troppi, e me l’ha lasciato per uno. Frugando negli scaffali ho inoltre scovato una traduzione francese dei viaggi di Sir John Moore, stampata a Ginevra nel 1781, e il primo volume della Descrizione statistico-topografica di tutta la Marca di Brandeburgo del Bratring, uscito a Berlino nel 1804; insieme all’Itinéraire des routes les plus frequentées2 del Dutens, che ho acquistato a New York prima d’imbarcarmi, questi volumi costituiranno un viatico adeguato per la mia spedizione.
Con i miei acquisti sotto il braccio sono andato alla ricerca del teatro olandese, della cui esistenza ero stato reso edotto da Wyeth. Già pregustavo il divertimento che avrei provato vedendo qualche grasso attore olandese, con la pipa in bocca, recitare l’amante perduto nel sentimento, o spirare nobilmente in tutto il pathos della tragedia; disgraziatamente, invece, il teatro era chiuso. In compenso, oggi per la prima volta ho cenato in modo passabile, anche se l’albergatore si è messo a ridere quando gli ho chiesto un beef-steak o almeno un roast-beef, poiché questi piatti sono ormai divenuti introvabili in Olanda. Niente vino per ora, finché le conseguenze del maledetto viaggio per mare non saranno scomparse. Si dice che gli olandesi siano grandi mangiatori, ma i tempi sono tristi: all’albergo, che del resto è quasi vuoto, ero l’unico a cenare, gli altri si sono accontentati di un caffelatte.

Martedì, 15 luglio

Il passaporto, che mi era stato promesso per ieri sera, e che ho mandato a prendere fin dall’alba, non è stato rilasciato che in tarda mattinata, sicché quando sono partito batteva già il mezzogiorno. Su Amsterdam regnava un caldo afoso, che è poi durato per tutta la giornata, appena alleviato, verso sera, da qualche spruzzata di pioggia; a causa dell’umidità non ho mai visto il sole, ma soltanto un cielo plumbeo che impediva il respiro, tanto da farmi quasi rimpiangere l’aria del mare. La carrozza non è delle più comode, e l’imperiale è eccessivamente carico di scatole e bauli, che minacciano di rovinar giù alla prima curva un po’ stretta. Forse dovevo prendere una berlina; ma in quel caso non avrei potuto viaggiare con meno di sei cavalli, e poi una vettura più leggera mi servirà meglio a Berlino, giacché di solito nelle città del continente non si trovano se non miserabili carrozze da nolo. Will viaggia a cassetta a fianco del postiglione, con cui non può scambiare neppure una parola, con suo grande malumore, perché nessuno dei due intende la lingua dell’altro. La posta olandese è orribilmente cara; non si paga a tratte, ma a ore, e ogni cavallo costa tre fiorini all’ora. Le strade in compenso sono comode, poco polverose, e per lunghi tratti corrono sopraelevate sulle dighe, ciò che offrirebbe un bel colpo d’occhio sulla pianura se l’afa non soffocasse la vista. In tutti i villaggi sono accantonate truppe francesi, che la fanno da padrone e che gli abitanti sono obbligati ad alloggiare e nutrire a proprie spese; in tutta la giornata non ho veduto neppure un soldato olandese, sebbene mi abbiano assicurato che il re d’Olanda sta arruolando senza pietà, per non scontentare suo fratello. Nel pomeriggio abbiamo perso tempo al cambio dei cavalli, sicché siamo arrivati alla locanda troppo tardi per cenare, e ho dovuto ridurmi anch’io al caffelatte. L’albergo, per fortuna, era assai decente e pulito; il pavimento ricoperto di sabbia fresca, i cristalli e le porcellane allineati sulla credenza, e soprattutto l’immancabile scopa di saggina appesa sulla parete al posto d’onore, mi hanno ricordato certe locande di campagna, tenute da olandesi, dello stato di New York. Non posso purtroppo lodarmi altrettanto dell’oste, il quale come tutti i suoi compatrioti non esita a fumare la pipa anche al chiuso e in faccia ai forestieri, ignorando tranquillamente le loro smorfie; sicché l’Olanda è forse il solo paese al mondo in cui non si affumicano soltanto l’aringa e il porco, ma anche il pane, il latte e in genere tutti i commestibili serviti ai viaggiatori.

Mercoledì, 16 luglio

Ho viaggiato per tutto il giorno in una pianura monotona e scarsamente popolata. Ogni tanto la strada costeggia una comoda casa di campagna, circondata da siepi e fossati che testimoniano la natura nient’affatto ospitale dei proprietari; e sono quasi gli unici segni della presenza umana in questo paese sterile e desolato. Anche oggi il cambio dei cavalli, grazie alla flemma degli stallieri olandesi, ha portato via più tempo del previsto; al calar del sole eravamo ancora in strada, e non siamo arrivati all’albergo molto prima delle dieci. Il mastro di posta mi ha consigliato di viaggiare di notte, ma la vettura è troppo scomoda perché sia possibile fare a meno di un letto dopo quindici o sedici ore di viaggio. L’albergo è in realtà una minuscola locanda col tetto di paglia, dove ho occupato l’unica stanza disponibile, mentre Will ha dormito nel granaio; peraltro le lenzuola sapevano di spigo, e non ho trovato pulci. All’arrivo ero ben deciso a mettere a sacco la cucina fino a farne saltar fuori, nonostante l’ora, almeno un piatto di carne fredda, ma ogni insistenza è stata vana; e anziché l’inevitabile caffelatte, ho preferito cenare con un po’ di pane e formaggio. In compenso stasera ho bevuto vino, per la prima volta dalla partenza, e senza conseguenze negative; però il vino in Olanda è carissimo, anche se i vignaioli francesi, come si può immaginare, non riservano certo il loro prodotto migliore per il palato di Mynheer.
Fino ad oggi non avevo registrato alcun incontro capace di scuotere il mio inveterato pregiudizio in favore delle ragazze americane; allontanandomi dal mare, tuttavia, ho osservato che la natura si dimostra più benigna col bel sesso, e comincia a dotarlo di quelle attrattive di cui le donne olandesi, parlo naturalmente di quelle di condizione volgare, sono raramente beneficate. Non s’incontrano più tante figure contraffatte fra le serve delle locande, né quell’inutile eccesso di sottane e corsetti con cui esse finiscono di sfigurarsi fino a non aver più forma né attrattiva, come tante modelle di Rubens. Stasera ho scherzato con la ragazza venuta a prepararmi il letto, che per via del caldo portava la camicia slacciata sul petto, e lavorando si alzava volentieri il lembo della gonna per fare aria, “scortillum”, come avrebbe detto il buon Catullo, “non sane inlepidum neque invenustum”:3 era, a dire il vero, più grassa di quel che avrei desiderato, ed era impossibile guardarla senza pensare a tutto il latte, il burro e il lardo che doveva aver consumato quella macchina in diciotto o diciannove anni di vita e di lavoro; tuttavia mi accorgevo di non provare affatto, in sua presenza, quella ripugnanza che altre volte mi ispirano le femmine troppo grasse, e avrei volentieri proseguito l’assedio fino a far cadere la fortezza, se la stanchezza non mi avesse sopraffatto. Quando mi sono accorto che il sonno rischiava di raffreddare le mie artiglierie, e il vino mi aveva bagnato le polveri, ho preferito rinunciare all’operazione; e ho chiamato dentro Will a cavarmi gli stivali, per poi buttarmi a dormire in solitudine.

Giovedì, 17 luglio

A mezzogiorno ho passato la frontiera fra il regno d’Olanda e la provincia di Westfalia, di cui il re di Prussia si è impadronito pochi anni or sono, come si sa, con qualche pretesto che ora mi sfugge. Il posto di confine era servito da doganieri olandesi, ma a pochi passi da lì uno squadrone di cavalleria francese faceva l’esercizio, ciò che senza dubbio permetteva all’ufficiale di tener d’occhio senza parere quel che avveniva alla frontiera; i cavalleggeri, nelle loro sgargianti divise, formavano un curioso contrasto col verde smorto del paesaggio, in cui non si scorgevano, a perdita d’occhio, se non armenti di vacche e contadini in zoccoli intenti a falciare il fieno. Superata la sbarra di confine, un soldato prussiano col moschetto in spalla mi ha accompagnato dal suo comandante, che ha sfogliato le mie credenziali con visibile diffidenza. Mi avevano ben avvertito che in Prussia avrei avuto facilmente delle noie grazie allo zelo eccessivo della polizia, e che occorre aver sempre alla mano le proprie carte e parlare speditamente la lingua del paese se si vogliono evitare inconvenienti; ma nulla mi aveva preparato a una conversazione come quella che è seguita. «Stati Uniti d’America? Mai sentiti nominare» dichiarò sospettosamente l’ufficiale, alzando gli occhi dal passaporto. «Può darsi» ribattei, cercando di mantenere il buonumore, «che la nostra posizione nel concerto degli stati sia piuttosto oscura, tuttavia le assicuro che gli Stati Uniti d’America esistono, e io indegnamente li rappresento.» L’uomo mi soppesò con lo sguardo, e quel che vide non dovette piacergli, perché tornò a sfogliare le mie carte senza perdermi d’occhio; sembrava temere che mi sarei dato alla fuga da un momento all’altro. Per fortuna il suo sergente, che stava rispettosamente in piedi dietro di lui, intervenne in mia difesa. «Se il signor tenente permette» disse, «mi pare di aver sentito dire che effettivamente di là dal mare c’è un paese simile.» «Sicuro che c’è» ribatté il tenente «ma non è forse una colonia inglese?» «Col permesso del signor tenente» lo corresse il suo subordinato, «mi pare che sia un paese indipendente.» L’ufficiale, che doveva essere abituato a fidarsi del sergente in questioni così spinose, sospirò e scarabocchiò un visto sul passaporto, dopodiché mi trattò con modi un po’ più educati; credo tuttavia che non me la sarei egualmente cavata a buon mercato, senza la previdenza di cui ho dato prova prima di partire. Ad Amsterdam, infatti, ho mandato una lettera al governatore della Westfalia, generale von Blücher, preavvisandolo del mio arrivo; e mentre sedevo nella baracca del posto di guardia, compilando il modulo interminabile che per ordine del ministro di polizia si fa sottoscrivere a chiunque attraversi la frontiera del regno, ho avuto la soddisfazione di veder arrivare una squadra di ussari mandati dal governatore a scortarmi, e ho potuto partire senz’altro indugio.
La posta in Germania è meno cara che in Olanda: viaggiando a quattro cavalli si pagano quattro fiorini a tratta, ovvero due talleri e sedici soldi, in moneta prussiana; sicché facendo cinque poste al giorno verrò a spendere sedici talleri e un fiorino, pari a circa tredici dollari. Viaggiare non è davvero un divertimento a buon mercato, e quasi mi pento di aver voluto arrivare a Berlino con una carrozza di proprietà, anziché accontentarmi della posta; è vero che qui avrei dovuto pagare per me, per il domestico e per i bagagli, senza contare il tempo perduto. Anche così, le lungaggini della frontiera mi hanno impedito di raggiungere stasera Münster, come mi ero ripromesso; sicché ho dovuto acconciarmi a pernottare alla stazione di posta precedente. L’oste era appena salito in camera mia, col berretto in mano, a chiedermi che cosa doveva preparare per cena, quando il luogotenente che aveva comandato la scorta è venuto a invitarmi a cenare con gli ufficiali del suo squadrone, che era acquartierato proprio in quel villaggio. Mi sono affrettato ad accettare, poiché quel che avevo veduto della cucina, entrando nell’albergo, mi aveva fatto passare l’appetito; ma dalla faccia soddisfatta dell’oste ho capito che non avevo motivo di rallegrarmi, poiché quella era l’unica locanda del paese, e gli ufficiali non potevano fare a meno di approfittare della sua tavola.
Quando sono sceso, ho trovato ad aspettarmi cinque o sei di quei signori, in magnifiche giubbe scarlatte, ornate di alamari dorati, e tutti quanti muniti di lunghi baffi neri; un ornamento più adatto a Tamerlano che a un europeo di questo secolo civilizzato. Era la prima volta che incontravo degli ufficiali prussiani, e ho trovato in loro un aspetto più brigantesco e uno spirito più grossolano rispetto agli ufficiali inglesi che ho conosciuto in passato; direi anzi che in Germania la differenza fra gli ufficiali e i semplici soldati non è così profonda come in Inghilterra, ciò che non può sorprendere se si pensa che quasi sempre essi non hanno ricevuto altra educazione se non quella militare. Uno dei commensali era così giovane che i suoi baffi dovevano essere sicuramente posticci; del resto erano neri, spalmati credo col lucido da scarpe, mentre il loro proprietario era biondo. Ma gli altri erano uomini già avanti negli anni, grandi e grossi, col viso congestionato e lo sguardo vuoto, in conseguenza della troppa birra tracannata prima di cena; credo che se in quel momento fosse arrivato l’ordine di partire per la guerra, avrebbero durato fatica a salire a cavallo. L’oste ci ha servito un cosciotto di vitello ben annaffiato di vino locale, non in grado di competere, purtroppo, con i vini ungheresi su cui il comandante dello squadrone, capitano von Krockow, mi ha erudito per quasi tutta la serata. Per quanto ho potuto giudicare, costui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo
  3. Prologo
  4. Domenica, 13 luglio…
  5. Epilogo
  6. Note
  7. Copyright