Papillon
eBook - ePub

Papillon

  1. 644 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Accusato di un omicidio che non ha commesso, Henri Charrière, detto Papillon per la farfalla tatuata sul torace, venticinquenne, viene condannato all'ergastolo. Non fa tragedie, non denuncia nessuno. Non ricorre neppure in appello. La sua sola speranza è la fuga. Quello che sembra avere tutte le caratteristiche di un fantasioso romanzo d'avventura è invece una straordinaria storia vera: le vicende narrate dall'autore e protagonista sono in realtà ricordi di trent'anni trascorsi nelle peggiori galere del mondo, tra la Caienna e l'Isola del Diavolo, dove il sole brucia tutto e l'oceano si perde all'orizzonte. Anni consumati nella fatica di sopravvivere e in tentativi di fuga sempre più rocamboleschi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852057656
Quinto quaderno

Ritorno alla civiltà

Prigione di Santa Marta

Non è difficile venir fuori dal territorio della Guajira india, e superiamo senza problemi i posti di frontiera di La Vela. A cavallo, abbiamo potuto percorrere in due giorni lo stesso spazio che ci aveva preso tanto tempo quando l’avevo fatto con Antonio. Ma di estremo pericolo non ci sono soltanto quei posti di frontiera, c’è anche una frangia di più di cento chilometri fino a Rio Hacha, il villaggio dal quale sono evaso.
Con Zorrillo vicino ho fatto la prima esperienza di conversazione in una specie di albergo dove si vende da bere e da mangiare, con un cittadino colombiano. Non me la sono cavata male e balbettare molto contribuisce a nascondere l’accento e il modo di parlare.
Siamo ripartiti fino a Santa Marta. Zorrillo deve lasciarmi a metà strada e tornerà indietro stamattina.
Zorrillo mi ha lasciato. Abbiamo deciso che avrebbe portato il cavallo con sé. Infatti, avere un cavallo significa avere un domicilio, appartenere a un determinato villaggio e quindi rischiare di essere costretti a rispondere a delle domande imbarazzanti: “Conosce il tale? Come si chiama il sindaco? Che cosa fa la signora X? Chi conduce la ‘fonda’?”.
No, è meglio che continui a piedi, che viaggi in camion o in bus e, dopo Santa Marta, in treno. Devo essere per tutti un forastero, che lavora chissà dove e fa non si sa cosa.
Zorrillo mi ha cambiato tre monete d’oro di cento pesos. Mi ha dato mille pesos. Un buon operaio guadagna dagli otto ai dieci pesos al giorno, quindi con questi soldi posso mantenermi bene. Sono salito su un camion che va molto vicino a Santa Marta, un posto molto importante a circa centoventi chilometri da dove mi ha lasciato Zorrillo. Questo del camion va a prendere delle capre o dei capretti, non ho ben capito.
C’è sempre una taverna, ogni sei o dieci chilometri. L’autista scende e mi invita. E ogni volta beve cinque o sei bicchieri di un alcool che brucia. Io faccio finta di berne uno. Dopo aver percorso una cinquantina di chilometri, è ubriaco come una vacca. È talmente cotto che sbaglia strada ed entra in un sentiero fangoso dove il camion s’impantana, e non se ne può uscire più. Il colombiano non se la prende: si corica nel camion, dietro, e mi dice di dormire nella cabina. Non so che fare. Devo fare ancora una quarantina circa di chilometri verso Santa Marta. Stare con lui mi evita di venire interrogato se incontriamo qualcuno, e nonostante le numerose fermate si va più veloci che non a piedi.
Quindi, verso il mattino decido di dormire. Il giorno è alto, sono quasi le sette. Arriva un carretto tirato da due cavalli. Il camion ostruisce il passaggio. Qualcuno viene a svegliare l’autista, credendo che sia io, dal momento che ero nella cabina. Balbettando, faccio la parte dell’uomo addormentato che, svegliato all’improvviso, non sa bene dove si trova.
L’autista si sveglia e discute con il carrettiere. Non si riesce, nemmeno dopo diversi tentativi, a far uscire il camion. È nel fango fino alle sponde, niente da fare. Nel carretto ci sono due suore vestite di nero, con le loro cuffie, e tre bambinette. Dopo molte discussioni i due uomini si mettono d’accordo di spianare una parte della boscaglia per consentire al carretto, con una ruota sulla strada e l’altra sulla parte spianata, di superare questa brutta striscia di terra di venti metri circa.
Ognuno con il proprio “macete” (un lungo coltello per tagliare la canna da zucchero, strumento che chi viaggia porta sempre con sé), tagliano tutto ciò che può dar fastidio e io lo sistemo sul sentiero per diminuire il dislivello e per proteggere il carretto che rischia di affondare nella melma. Dopo due ore circa il passaggio è pronto. A questo punto le suore, dopo avermi ringraziato, mi chiedono dove vado. Dico: «Santa Marta».
«Ma allora lei non è sulla strada giusta, deve tornare indietro con noi. La porteremo molto vicino a Santa Marta, a otto chilometri.»
Non posso rifiutare, non sarebbe normale. D’altra parte avrei voluto dire che restavo con il camionista per aiutarlo, ma di fronte alla difficoltà di dover parlare a lungo, preferisco dire: «Gracias, gracias».
E mi sistemo dietro, nel carretto, con le tre ragazzine; le due suore sono sedute sulla panca vicino al carrettiere.
Si parte, e a dire la verità andiamo abbastanza alla svelta per uscire dai quattro o cinque chilometri fatti per sbaglio con il camion. Una volta sulla strada giusta, ce ne andiamo abbastanza rapidamente e verso mezzogiorno ci fermiamo a un albergo per mangiare. Le tre bambine e il carrettiere a un tavolo, e le due suore e io a uno vicino. Le suore sono giovani, avranno venticinque o trent’anni. La loro pelle è bianca. Una è spagnola, l’altra irlandese. L’irlandese, piano piano, mi fa delle domande:
«Lei non è di qui, non è vero?»
«Sì, sono di Baranquilla.»
«No, lei non è colombiano, i suoi capelli sono troppo chiari e il suo colore è scuro solo perché ha preso molto sole. Da dove viene?»
«Da Rio Hacha.»
«Che ci faceva?»
«L’elettricista.»
«Sì? Ho un amico alla Compagnia elettrica, che si chiama Perez, è spagnolo. Lo conosce?»
«Sì.»
«Mi fa piacere.»
Verso la fine della colazione, si alzano per andare a lavarsi le mani, e l’irlandese torna da sola. Mi guarda e poi mi dice, in francese:
«Non la tradirò, ma la mia compagna dice di aver visto la sua foto in un giornale. Lei è il francese che è evaso dalla prigione di Rio Hacha, non è vero?»
Negare sarebbe ancora più grave.
«Sì, sorella. La prego, non mi denunci. Non sono il cattivo soggetto che è stato detto. Amo Dio e lo rispetto.»
Viene la spagnola, l’altra le dice: «Sì». Risponde molto in fretta qualcosa che non capisco. Hanno l’aria di riflettere, si alzano e vanno di nuovo al gabinetto. Durante i cinque minuti della loro assenza, reagisco rapidamente. Devo andarmene prima che tornino? devo rimanere? Se pensano di denunciarmi, è la medesima cosa, perché se scappo mi ritrovano piuttosto alla svelta. Questa regione non ha una boscaglia molto fitta e gli accessi alle strade che portano alle città vengono di sicuro sorvegliati immediatamente. Mi devo rimettere al destino che fino a questo momento non mi è stato contrario.
Tornano sorridenti, l’irlandese mi chiede come mi chiamo.
«Enrique.»
«Bene, Enrique, lei verrà con noi fino al convento dove ci rechiamo, che è a otto chilometri da Santa Marta. Con noi sul carretto non deve aver paura di niente. Non parli, e tutti crederanno che lei è uno che lavora per il convento.»
Le suore pagano per tutti. Acquisto una stecca di dodici pacchetti di sigarette e un accendino. Partiamo. Durante tutto il viaggio le suore non mi rivolgono più la parola, e io gliene sono molto grato. Così il carrettiere non si rende conto che io parlo male la lingua. Verso la fine del pomeriggio ci fermiamo a un grande albergo. C’è un autobus sul quale leggo: “Rio Hacha – Santa Marta”. Ho una gran voglia di prenderlo. Mi avvicino alla suora irlandese e le dico della intenzione di usare quel bus.
«È molto pericoloso» mi risponde. «Perché prima di arrivare a Santa Marta ci sono almeno due posti di blocco della polizia dove ai passeggeri viene chiesta la cédula [carta d’identità], ciò che con la carretta non succederà.»
La ringrazio molto vivamente, e quindi l’angoscia che avevo da quando mi hanno scoperto, svanisce del tutto. Anzi, era per me una bella fortuna aver incontrato quelle buone suore. In realtà, verso notte arriviamo a un posto di blocco della polizia (in spagnolo, alcabale). Un autobus che proveniva da Santa Marta ed era diretto a Rio Hacha, viene ispezionato dalla polizia. Sono coricato di schiena sul carretto, con il cappello di paglia sul volto, facendo finta di dormire. Una bambina di circa otto anni ha la testa appoggiata alla mia spalla e dorme davvero. Quando la carretta passa il carrettiere ferma i cavalli proprio tra l’autobus e il posto di blocco.
«Cómo están por aquí? [E qui come va?]» chiede la suora spagnola.
«Muy bien, Hermana [Benissimo, sorella].»
«Me alegro, vamonos muchachos [Me ne compiaccio, andiamocene, figlioli]» e partiamo, tranquilli.
Alle dieci di sera un altro blocco, molto illuminato. Due file di veicoli di ogni genere sono in attesa. Una viene da destra, la nostra da sinistra. Aprono le valigie che ci sono sulle macchine e i poliziotti ci guardano dentro. Vedo una donna costretta a scendere, che fruga nella sua borsa. Viene portata dentro il posto di polizia. Forse non ha la cédula. In questo caso non c’è niente da fare. I veicoli passano uno dopo l’altro.
Siccome ci sono due file non si può avere un passaggio di favore. Per mancanza di spazio bisogna rassegnarsi, e aspettare. Mi vedo perduto. Davanti a noi c’è un piccolissimo autobus sovraccarico di passeggeri. In alto, sul tetto, delle valigie e dei grossi pacchi. Anche dietro c’è una specie di grande rete con dei pacchi. Quattro poliziotti fanno scendere i passeggeri. L’autobus ha soltanto una porta sul davanti. Uomini e donne scendono. Donne con i bambini in braccio. Risalgono uno alla volta.
«Cédula! Cédula!»
E tutti scendono e mostrano una carta con la fotografia.
Zorrillo di questo non me ne ha mai parlato. Se l’avessi saputo forse avrei potuto cercare di procurarmene una falsa. Penso che se riesco a passare questa volta, pagherò qualsiasi somma, ma mi procurerò una cédula prima di viaggiare da Santa Marta a Baranquilla, importantissima città sulla costa atlantica: duecentocinquatamila abitanti, dice il vocabolario.
Dio mio, come è lunga l’operazione di questo autobus. L’irlandese si gira verso di me: «Non si preoccupi, Enrique». Proprio non mi è piaciuta, per questa frase imprudente, che il carrettiere ha certamente sentito.
Quando è il nostro turno il carretto procede in quella luce abbagliante. Ho deciso di sedermi. Coricato mi sembra di dare l’impressione che intendo nascondermi. Sono appoggiato con la schiena contro le assi a vista del carretto e guardo le suore da dietro. Non possono vedermi che di profilo e ho il cappello piuttosto abbassato, ma senza esagerare.
«Cómo están todos por acquí? [E qui come va?]» ripete la suora spagnola.
«Muy bien, Hermanas. Y cómo viajan tan tarde? [Benissimo, sorelle. Come mai siete in viaggio a quest’ora?]»
«Por una urgencia, por eso no me detengo. Somos muy apuradas [Per una cosa urgente, vi prego di non farci tardare ancora di più. Abbiamo fretta].»
«Vayanse con Dios, Hermanas [Andate con Dio, sorelle].»
«Gracias, hijos. Que Dios les proteges [Grazie, figlioli. Che Dio vi protegga].»
«Amén» dicono i poliziotti.
E passiamo tranquillamente senza che nessuno ci dica niente. Le emozioni di questi minuti hanno fatto sicuramente venire il mal di pancia, alle suore, perché dopo cento metri fanno fermare il carretto, scendono e vanno un momento nel bosco. Ripartiamo; mi metto a fumare. Sono così contento che quando l’irlandese risale, le dico: «Grazie, sorella».
Mi dice: «Non c’è di che, ma abbiamo avuto così paura che abbiamo il ventre in disordine».
Verso mezzanotte arriviamo al convento. Un gran muro, una gran porta. Il carrettiere è andato a sistemare cavalli e carretto e le tre ragazzine vengono introdotte all’interno del convento. Sulla soglia del cortile si svolge una veemente discussione tra le due suore e la suora portinaia. L’irlandese mi dice che non vuole svegliare la madre superiora per chiederle l’autorizzazione di farmi dormire in convento. Qui, ho mancato di decisione. Avrei dovuto approfittare subito dell’incidente per ritirarmi e partire verso Santa Marta, dal momento che sapevo che c’erano soltanto otto chilometri da fare.
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Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Papillon
  4. Primo quaderno. La “strada della putredine”
  5. Secondo quaderno. Verso il bagno
  6. Terzo quaderno. Prima evasione
  7. Quarto quaderno. Prima evasione. (seguito)
  8. Quinto quaderno. Ritorno alla civiltà
  9. Sesto quaderno. Le Îles du Salut
  10. Settimo quaderno. Le Îles du Salut. (seguito)
  11. Ottavo quaderno. Ritorno all’Isola Reale
  12. Nono quaderno. L’Isola San Giuseppe
  13. Decimo quaderno. L’Isola del Diavolo
  14. Undicesimo quaderno. Addio al bagno penale
  15. Dodicesimo quaderno. Georgetown
  16. Tredicesimo quaderno. Il Venezuela
  17. Copyright