Sulla strada
Il ragazzino mi guardò con un misto di eccitazione e incredulità. Era un giovane Marine, il cui entusiasmo era stato un po’ temperato da una settimana di battaglia.
«Vuoi fare lo sniper?» gli chiesi. «Adesso?»
«Cazzo, sì!» rispose.
«Bene» replicai, porgendogli il mio MK-11. «Dammi il tuo M-16 e prendi il mio fucile. Io vado dentro.»
Detto questo, mi diressi verso la squadra con cui stavamo lavorando e dissi che li avrei aiutati ad assaltare le case.
Negli ultimi giorni i ribelli avevano smesso di uscire all’aperto per combattere. Il numero di bersagli durante i turni di sorveglianza era calato: i cattivi erano tutti rintanati. Sapevano che, se fossero usciti, gli avremmo sparato.
Ma non rinunciarono. Presero posizione dentro le case, tendendo imboscate ai Marine e combattendo tra stanzette e minuscoli corridoi. In quei giorni vidi molti dei nostri portati fuori ed evacuati con l’eliambulanza.
Da un po’ rimuginavo sull’idea di scendere in strada, poi finalmente mi decisi a farlo. Presi uno dei soldati semplici che stavano supportando il gruppo degli sniper: mi pareva un bravo ragazzo con un potenziale notevole.
Andai là fuori, un po’ perché ero annoiato, e soprattutto perché pensavo di riuscire a proteggere meglio i Marine rimanendo con loro. Entravano dalle porte di quegli edifici e si facevano ammazzare. Io li vedevo andar dentro, sentivo i colpi, poi qualcuno usciva in barella perché gli avevano sparato. E m’incazzavo.
Amo i Marine ma, a dire il vero, a quei ragazzi nessuno ha mai insegnato a bonificare stanze come a me: quella non è una loro specialità. Combattevano tutti con coraggio, ma sulla guerra urbana avevano molto da imparare. In gran parte si trattava di cose semplici: come tenere il fucile quando entri in una stanza in modo che sia difficile strappartelo di mano, da che parte andare una volta entrato, come combattere a trecentosessanta gradi in una città, tutte cose che i SEAL imparano al punto da riuscire a farle anche dormendo.
Nella squadra non c’era un ufficiale; il sottufficiale di grado più alto era un sergente maggiore, un E6 dei Marine, mentre io ero un E5, quindi un suo sottoposto, ma non ebbe il minimo problema a lasciarmi il controllo degli assalti. Lavoravamo insieme già da un po’ e probabilmente mi ero conquistato un certo rispetto. E non voleva che i suoi si facessero sparare.
«Senti, io sono un SEAL, tu un Marine» dissi al ragazzo. «Non sono migliore di te. La sola differenza fra noi è che io mi sono specializzato e addestrato più a lungo. Lascia che ti aiuti.»
Ci addestrammo un po’ durante la pausa. Diedi alcuni dei miei esplosivi a un membro della squadra che già ne aveva una minima esperienza, e ripassammo insieme come far saltare una serratura. Fino a quel momento avevano ricevuto pochissimo esplosivo, tanto che sfondavano spesso le porte: questo, naturalmente, faceva perdere tempo e li rendeva più vulnerabili.
Finita la pausa, cominciammo gli assalti.
Dentro
Presi la guida.
Mentre aspettavo fuori dalla prima casa, pensai ai ragazzi che vedevo uscire in barella.
Non volevo essere uno di loro, ma avrei potuto esserlo.
Era difficile togliermi quell’idea dalla testa. Sapevo anche che se mi avessero ferito mi sarei trovato in un mare di casini: dal punto di vista ufficiale, almeno, io non avrei dovuto trovarmi giù in strada. Quello che facevo, o meglio quello che sentivo di dover fare, era decisamente giusto, ma avrebbe fatto incazzare come iene quelli dello stato maggiore.
Certo, se mi avessero sparato, sarebbe stato il problema minore, o no?
«Andiamo!» dissi.
Facemmo saltare la porta. Entrai per primo, e l’addestramento e l’istinto presero il sopravvento. Bonificai la stanza all’ingresso, mi misi di lato e cominciai a dirigere il traffico. Un ritmo veloce, automatico. Appena iniziammo, qualcosa scattò dentro di me: non pensavo più al rischio di perdere qualcuno dei nostri; non pensavo più a niente che non fossero la porta, la casa, la stanza, e quelle tre cose erano più che sufficienti.
Quando entravi in un edificio non sapevi mai cosa ti saresti trovato di fronte. Anche se bonificavi senza problemi le stanze al pianoterra, non potevi dare per scontato il resto. Magari, salendo al primo piano, potevi avere la sensazione che le stanze fossero vuote o che sarebbe andato tutto liscio, ma era una sensazione pericolosa. Non si sa mai. Ogni singola stanza va bonificata, e anche dopo devi sempre stare in guardia. Molte volte, dopo aver messo in sicurezza una casa, ci sparavano addosso o ci lanciavano granate da fuori.
Molte case erano piccole e anguste ma, con l’avanzare della battaglia, giungemmo in una zona ricca della città. Lì le strade erano asfaltate e, da fuori, le case sembravano regge in miniatura. Se però andavi oltre la facciata e guardavi nelle stanze, il caos e le macerie regnavano sovrani. Tutti gli iracheni che avevano abbastanza denaro da permettersi case simili erano fuggiti oppure erano stati uccisi.
Nei momenti di pausa accompagnavo fuori i Marine e li facevo esercitare, insegnando loro tutto quello che avevo imparato su come bonificare le stanze.
«Guarda che non voglio perdere nemmeno un uomo!» urlavo. E su quello non ero disposto a discutere. Li portavo in giro spaccandogli il culo, mentre avrebbero dovuto riposare. I Marine, però, sono fatti così: li massacri, loro tornano e ne vogliono ancora.
Facemmo irruzione in una casa con un grande salotto, cogliendo gli occupanti assolutamente di sorpresa.
Rimasi sorpreso anch’io: appena entrato, vidi un gruppo di ragazzi in piedi con la mimetica da deserto, la vecchia chocolate-chips retaggio di Desert Storm, la prima guerra del Golfo. Erano attrezzati di tutto punto. Caucasici, un paio con i capelli biondi, evidentemente non iracheni né arabi.
Che cazzo…?
Ci squadrammo. Una lampadina mi si accese nel cervello, e tirai il grilletto del mio M-16, falciandoli.
Ancora un istante di esitazione e su quel pavimento a sanguinare ci sarei finito io. Si scoprì poi che erano ceceni musulmani, pare, reclutati per la guerra santa contro l’Occidente (dopo aver perquisito la casa, trovammo i loro passaporti).
Il vecchio
Non ho idea di quanti isolati, per non dire di quante case, abbiamo assaltato. I Marine seguivano un piano accuratamente elaborato: ogni giorno, all’ora di pranzo, dovevamo trovarci in un certo posto, poi raggiungere un altro obiettivo al calar della notte. L’intera forza d’invasione si spostava per la città come secondo una coreografia, accertandosi che non vi fossero falle o punti deboli che i ribelli potessero utilizzare per aggirarci e attaccarci alle spalle.
Di tanto in tanto ci imbattevamo in un palazzo ancora abitato da qualche famiglia ma, in gran parte dei casi, le sole persone che vedevamo erano i ribelli.
Facevamo sempre una perquisizione completa. Una volta, scendendo in una cantina, sentimmo dei lamenti, deboli. Trovammo due uomini legati al muro con delle catene. Uno era morto, l’altro quasi. Entrambi erano stati barbaramente torturati con scosse elettriche, e Dio sa che altro. Iracheni, tutti e due, sembravano mentalmente ritardati: i ribelli volevano essere certi che non parlassero con noi, ma avevano deciso di divertirsi un po’.
Il secondo uomo morì mentre il paramedico si stava occupando di lui.
Sul pavimento c’era una bandiera nera, come quelle che i fanatici amavano mostrare nei video quando decapitavano un occidentale. C’erano brandelli di carne e più sangue di quanto sia possibile immaginare.
E un odore terribile.
Dopo un paio di giorni uno sniper dei Marine decise di scendere con me per le strade, ed entrambi cominciammo a guidare le DA.
Prima prendevamo una casa sul lato destro della strada, poi attraversavamo e prendevamo quella di fronte. Avanti e indietro, avanti e indietro. Un lavoro che richiedeva parecchio tempo. Dovevamo aggirare i cancelli, arrivare alle porte, farle saltare e precipitarci all’interno. I bastardi all’interno avevano tutto il tempo di prepararsi. Per non dire che, nonostante il mio contributo, stavamo per finire gli esplosivi.
Un blindato dei Marine lavorava con noi, spostandosi al centro della strada man mano che avanzavamo. Aveva come arma una calibro .50, ma la sua vera carta vincente erano le dimensioni: nessun muro iracheno poteva resistergli quando gli andava addosso a tutto gas.
Andai dal comandante.
«Senti, ecco cosa vorrei che tu facessi» gli dissi. «Siamo a corto di esplosivi. Spianami quel muro davanti alla casa e piazza cinque colpi con la .50 sulla porta d’ingresso. Poi arretra che ci pensiamo noi.»
Cominciammo a fare così, risparmiando esplosivi e muovendoci molto più velocemente.
Correre su e giù per le scale, irrompere sul tetto, scendere, passare alla casa successiva: arrivammo ad assaltare da cinquanta a cento case al giorno.
I Marine ansimavano appena, ma io persi quasi dieci chili nel mese e mezzo circa a Falluja. Gran parte era sudore. Era un lavoro sfiancante.
Tutti i Marine erano molto più giovani di me, alcuni adolescenti. Probabilmente avevo ancora una faccia da ragazzino perché, quando dicevo la mia età, mi fissavano sorpresi: «Sei così vecchio?».
Avevo trent’anni. A Falluja ero un vecchio.
È solo un altro giorno
Mentre l’avanzata dei Marine si avvicinava al confine meridionale della città, le azioni a terra nella nostra sezione cominciarono a esaurirsi. Tornai sui tetti e ricominciai i turni di sorveglianza pensando che, da lì, avrei potuto scovare più bersagli. Il corso della battaglia era cambiato. Gli americani avevano strappato ai ribelli il controllo di gran parte della città, era ormai solo questione di tempo prima che smettesse ogni resistenza. Io, però, dal cuore dell’azione non potevo dirlo con sicurezza.
I rib...