Giovanna la Pazza
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Giovanna la Pazza

Una regina ribelle nella Spagna dell'Inquisizione

  1. 300 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Giovanna la Pazza

Una regina ribelle nella Spagna dell'Inquisizione

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Figlia di Ferdinando d'Aragona e di Isabella di Castiglia, Giovanna (1479-1555) È uno tra i personaggi più rilevanti della storia non solo spagnola. Fu madre dell'imperatore Carlo V e alla morte dell'amatissimo marito Filippo il Bello cadde in una profonda depressione che la portò alla follia. L'opera di una biografa di grande prestigio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852058110
Argomento
History
Categoria
World History
V

Primi lutti famigliari

Qualcosa di strano era accaduto intorno a Giovanna già nel corso dei festeggiamenti di nozze. Una mattina, la sposa del Bello si era trovata una sconosciuta a fianco del letto. Senza avvertirla, Filippo aveva provveduto a rimandare in Spagna gran parte delle signore del seguito, sostituendole con Madame de Halevin, la nobildonna che lo aveva allevato come una madre, e il suo stuolo di squisite fiamminghe. La Halevin era stata incaricata di introdurre la giovane granduchessa negli artificiosi labirinti dell’etichetta della corte di Borgogna. Soprattutto, doveva suggerirle come pettinarsi, truccarsi, ingioiellarsi e vestirsi. «Sarebbe un onore, per me, aiutarvi a risplendere come deve risplendere una vera regina quale voi siete» le aveva detto. Aveva modi suadenti, il suo lignaggio era altissimo. «Voi siete la donna che il nostro principe ha scelto» insinuava. «La donna che lui ama e desidera. Perché non dimostrarlo?» La presenza di Madame de Halevin non l’aveva contrariata. Giovanna non aveva mai sopportato le spagnole, e la loro costante aria di impettita disapprovazione stampata fra naso e bocca davanti alle feste, ai balli, alle bevute e alle ininterrotte baldorie della galante, piccante corte borgognona. Le faceva bene avere vicino una donna che le suggerisse come migliorare non soltanto la qualità delle scarpe e degli abiti, ma anche il suo atteggiamento verso la vita. Alla corte di Bruxelles, si parlava molto di felicità. Argomento che invece mai si toccava in Spagna dove, piuttosto, la regina indirizzava la conversazione e la riflessione sul lavoro, l’impegno, il dovere. Dal canto suo, Filippo aveva fatto capire alla moglie di non sopportare le ancelle moresche. Provava disgusto alla sola vista di una pelle scura, sosteneva. Era sicuro che puzzassero di caprone. Con mille moine, Giovanna era riuscita a trattenerle con sé. Non si sarebbero mai viste fuori del suo appartamento, aveva promesso. Non avrebbero disturbato gli occhi e il naso dei fini fiamminghi. Erano una mezza dozzina, tutte insieme stavano umilmente e silenziosamente in due stanze, e non costavano quasi nulla. La servivano durante la toilette più intima, e nessuna meglio di loro sapeva farle massaggi tanto lievi, lavarle e profumarle i capelli, lisciarle le mani e i piedi con unguenti balsamici, suonare e cantare mentre leggeva, o si addormentava.
L’azione di allontanamento degli spagnoli dalla corte fiamminga non si era fermata alle donne. Bruscamente, Filippo aveva cambiato intorno a Giovanna anche un gruppo considerevole di cavalieri. Il maggiordomo maggiore, don Rodrigo Manrique, era stato sostituito dal portoghese Cristóbal de Barro. Il cavallerizzo maggiore don Francisco Luján, da Charles de Lautrec. Don Martín de Tavaro e don Fernando de Quesada, che dovevano occuparsi dei suoi servizi, dall’intraprendente principe di Chimay. Eliminato, fra lo sgomento della regina Isabella, anche il consigliere spirituale. D’ora innanzi la principessa si sarebbe confidata e confessata in francese, mentre uno di quei sottili ed eleganti monaci provenienti dall’università della Sorbona di Parigi l’avrebbe guidata negli studi di teologia e filosofia. Era evidente che Filippo intendeva sottrarla all’influenza del paese dov’era nata e cresciuta. I cortigiani spagnoli non erano stati cacciati oltre il confine. Piuttosto, essendo stati esentati dal servizio della figlia dei Re Cattolici, non avevano più diritto allo stipendio. In poco tempo, più di cinquecento persone si erano trovate disoccupate ed estromesse dalla corte, senza un tetto dove alloggiare e senza soldi per tornare a casa.
Ancora prima di rendersene conto, Giovanna era rimasta completamente isolata, e anche lei aveva problemi di denaro. Alle dame e ai cavalieri licenziati che le avevano chiesto aiuto, aveva fatto rispondere, mentendo, che non era compito suo mantenerli. In realtà il signore de Moxica, il tesoriere che Ferdinando aveva dotato di un robusto forziere perché provvedesse a ogni necessità della principessa, le contava anche le monetine, sostenendo che non poteva allargare i cordoni della borsa fino a quando Filippo non gli avesse consegnato i ventimila ducati dell’appannaggio.
Le notizie che giungevano a Isabella e Ferdinando erano sempre più sconvolgenti. Da quel che sembrava, la loro figlia era capitata in un ambiente di sfrenati gaudenti, dove il sacrificio e il lavoro non avevano alcun significato. In tre mesi, Giovanna non aveva ancora inviato una lettera personale alla madre, costretta a implorare notizie dai mercanti del Nord per sapere se era almeno arrivata viva in Fiandra. La regina scriveva invece con regolarità, tenendola ordinatamente al corrente di tutto ciò che accadeva in Spagna. Ed era inevitabile che, con entusiasmo, annunciasse a sua figlia che Gonzalo Fernández de Cordoba era stato nominato gran capitano, titolo elevatissimo guadagnato in Italia, dove aveva mostrato grande intelligenza nella conduzione dell’esercito e nella disposizione degli accampamenti. Persuasa che Giovanna avesse tanta influenza a corte da parlarne anche al marito e ai suoi consiglieri, Isabella aveva allegato persino i disegni dei campi costruiti in forma di parallelepipedi, dentro i quali erano disposti i fanti, i capitani, gli addetti alla giustizia e all’amministrazione, e la tenda del generale, al centro di tutto. Nel corso della lunga e dettagliatissima lettera, Giovanna aveva notato che non una volta sua madre aveva nominato Filippo.
Le incomprensioni e gli equivoci fra i re spagnoli e la figlia lontana, travolta e annebbiata dal lusso della corte fiamminga, si andavano moltiplicando. Preoccupata per un ambiente così poco spirituale, Isabella aveva pregato frate Andrea, il vecchio confessore spagnolo di Giovanna, perché la scongiurasse di tener fede agli antichi principi, esortandola a convincere anche Filippo a fare altrettanto. Doveva persuadersi che il giusto veniva dagli insegnamenti materni e paterni, le aveva scritto il frate. C’era di mezzo l’inferno, andava minacciando. Lo sfarzo smodato di Bruxelles rappresentava un pericolo per l’anima. Il lusso era una tentazione del diavolo, tuonava; un buon cristiano doveva vivere nella penitenza continua. E benché, garantiva, fosse dovere di una moglie obbedire al marito, era necessario si mettesse in mente che al marito si poteva anche disobbedire, quando c’era di mezzo la salvezza dell’anima.
Per quanto cercasse di non dare ascolto alle voci che la ossessionavano dalla Spagna, la rigida educazione ricevuta dai genitori produceva su Giovanna un effetto di perpetuo sbandamento. Era rimasta letteralmente abbagliata dalle sete, dal fasto, dalla musica, dalle feste fiamminghe. Il consigliere spirituale di lingua francese, al quale aveva confidato il proprio turbamento giungendo al punto da confessargli, con mezze e impacciate parole, che l’ombra della madre piissima era tornata a terrorizzarla come quando era bambina, aveva risposto con un garbato sorriso mondano. Non è peccato abbandonarsi ai piaceri della vita e dei sensi, le aveva spiegato. «Anzi. Peccato, per voi, sarebbe ritrarsi, sottrarsi alle esigenze, alle voglie, alle fantasie del sovrano vostro marito e signore.» Marito e signore che altrimenti, aveva insinuato maliziosamente, per saziare la sua vitalità e il suo istinto non avrebbe esitato a cercare altrove la sua soddisfazione. «Allora sì, che sareste colpevole» la minacciava. «Sareste voi, la responsabile dei suoi peccati.» C’erano giorni in cui, nemmeno per un istante, Giovanna riusciva a trovare se stessa. «Divertiti» tagliava corto il marito. «Finché sei giovane, finché sei bella, finché sei amata.» Mascherando allegramente il suo passo incerto le piroettava intorno come un cucciolo, desideroso di trasmetterle la sua smisurata gioia di vivere. Spariva molto spesso. A caccia. In missione a Gand, ad Anversa, a Bruges, in Austria, in Germania. E sempre meno di frequente la portava con sé. Giovanna aveva capito alla svelta che l’amore non era tutto, per il principe. Si sforzava di assecondarlo, di essere gaia e brillante, cercando di tagliare i ponti col proprio passato, di scordare la Spagna. A corte non voleva più sentir parlare castigliano. Non rispondeva più alle lettere dei genitori. Negava udienza agli ambasciatori del padre. «Che mi lascino in pace» faceva rispondere.
Isabella viveva in una costante angoscia. Sua figlia, in Fiandra, non rappresentava soltanto la famiglia. Giovanna era la Spagna. Occorreva provvedere alla sua salvezza spirituale, non c’era tempo da perdere. In novembre, dopo un viaggio spaventoso, giungeva a Bruxelles il vescovo di Catania, don Juan Daza. Era stato incaricato dai Re Cattolici di indurre Filippo a sborsare la rendita promessa alla moglie, e di ricondurre in patria la servitù spagnola abbandonata a se stessa. Il prelato era stato ricevuto con tante belle feste. Ma non era riuscito a ottenere un incontro col Bello, impegnato a visitare le sue diciassette province. In dicembre, era arrivato anche don Gómez de Buytrón, in sostituzione dell’ammiraglio Enríquez gravemente ammalato. Aveva l’ordine tassativo di organizzare al più presto la partenza di Margherita. Ferdinando giustificava la premura di riportare in patria le navi spagnole col pretesto che gli servivano per andare a Napoli. Era morto il suo reggente, il regno era in balia dei francesi. La realtà era un’altra. Filippo si comportava con loro in modo offensivo. Letteralmente, li ignorava. Le relazioni fra le Fiandre e la Spagna erano ormai tesissime. Prima si concludevano le nozze fra l’Infante Giovanni e Margherita, meglio era.
Nei primi giorni di gennaio del 1497, la sposa di Giovanni era partita per la Spagna. E il viaggio di ritorno del corteo nuziale era stato peggiore di quello di andata. Salpata da Flussing, la flotta era stata travolta da uno spaventoso uragano lungo le coste inglesi. Tutti erano ormai certi di sprofondare in mare, mentre Margherita aveva avuto modo ancora una volta di mostrare spirito e intelligenza anche nell’affrontare un mortale pericolo. Durante l’uragano che squassava la nave, aveva afferrato carta e penna scrivendo in rima l’epitaffio che avrebbe voluto per la sua tomba: «Qui giace Margot, principesca fanciulla, che ebbe due sposi eppure morì vergine». Avvolti in un fazzoletto, chiusi in un sacchetto di cuoio e legati intorno al polso i versetti e i gioielli, si era preparata ad affondare con somma e regale imperturbabilità. La futura regina di Spagna si era salvata e, dopo una sosta a Southampton per rimettere in sesto le imbarcazioni danneggiate, nei primi giorni di marzo del 1497 era sbarcata nell’aspro porto asturiano di Santander. Accompagnato dal padre, Giovanni si era incontrato con lei a Toranzo, vicino a Reinosa. Neppure Margherita aveva resistito all’invito di sollevare il velo che doveva celare il volto allo sposo fino alla solenne benedizione nuziale. E neppure loro avevano avuto la pazienza di aspettare le nozze ufficiali. Alloggiati nel castello di Villasevil, si erano fatti benedire da un prete rimasto ignoto, e avevano trascorso da soli la loro luna di miele.
Isabella aspettava Giovanni e Margot nella verde e ventosa città di Burgos. Com’era solita, preferiva i palazzi ai castelli e abitava la casa del Cordón, residenza del connestabile di Castiglia. Sconvolta dalle notizie del matrimonio affrettato di Giovanna, ignara dell’impetuoso incontro sul mar cantabrico fra suo figlio e la nuora, aveva disposto che, almeno in tale occasione, fossero strettamente applicati i protocolli della Castiglia. Era vietato agli sposi parlarsi fino alla consacrazione in chiesa delle loro nozze; dovevano «limitarsi a cortesi riverenze: e senza mai sfiorarsi, neppure con una mano. Come invece erano usi fare i principi di casa d’Austria», aveva polemicamente sottolineato.
Terminata la quaresima, il 3 aprile 1497, Giovanni e sua moglie avevano raggiunto Burgos. Le disposizioni della pudica e spartana regina erano state applicate con rigore. Diretti alla cattedrale, i due sposi avanzavano in corteo senza tenersi per mano. Anche Isabella, incontrando Margherita, si era limitata a «cortesi riverenze». Con solennità estrema, l’arcivescovo di Toledo aveva celebrato le nozze alla presenza di tutti i Grandi di Spagna, gli ambasciatori stranieri, i delegati aragonesi, la nobiltà castigliana. Durante le feste, peraltro magnifiche, tre avvenimenti funesti avevano gettato un’ombra di cattivo auspicio sul futuro della coppia. Subito dopo la firma sulla relazione ufficiale del matrimonio, il principe ereditario era stato colpito da violentissime febbri, probabilmente vaiolo, che lo avevano ridotto a un sudaticcio relitto. Durante un torneo in loro onore, il compagno di giochi e di studio di Giovanni, don Alfonso Gutiérrez, figlio del comandante e stretto consigliere e amico della regina, era caduto da cavallo morendo sul colpo. Infine, Isabella era stata improvvisamente costretta a partire, per raggiungere la madre moribonda.
Sopraffatta da una malinconia inconsolabile, la vedova di Giovanni II di Castiglia, Isabella, si era rinchiusa da quarant’anni dentro il rosso castello di Arévalo, costruito per sovrastare un suggestivo ammasso di chiese romaniche circondate all’infinito da campi di grano e pasture per le pecore. La tetra e bella regina era stata affidata dalla figlia al toledano don Diego Rodríguez, un fisico illustre e ben pagato. Isabella, che la venerava, dopo aver lasciato precipitosamente le feste di Burgos non l’aveva abbandonata fino al 15 agosto 1497, giorno della sua morte. E nell’attesa che fosse ultimato il sepolcro che l’avrebbe unita al marito, ne aveva disposto la sepoltura nella cappella del palazzo reale di Madrigal.
Alle regali esequie erano seguite altrettanto principesche nozze. Immolandosi stoicamente alla ragione di Stato, la sorella maggiore di Giovanna finalmente accettava di risposarsi col re del Portogallo. Appellandosi alla clausola del precedente contratto matrimoniale che, nel caso don Alfonso fosse deceduto, prevedeva secondi sponsali col suo successore, il cugino del morto, Emanuele di Braganza, aveva insistito per sposare la vedova. Dicevano che si fosse invaghito di lei fin da quando, coetanei, avevano giocato insieme nel monastero portoghese dove Isabella era stata mandata ancora bambina per essere educata come una regina. Dicevano, infine, che non si fosse mai più separato dalla sciarpa rossa che la principessa castigliana gli aveva donato a Siviglia, dopo la vittoria riportata nel favoloso torneo celebrato in onore suo e dello sfortunato Alfonso. Sette anni aveva implorato il paziente sovrano, finché la pia principessa non aveva ceduto. In cambio della figlia, la regina Isabella aveva preteso dal genero un immediato e radicale impegno a convertire al cristianesimo gli ebrei rifugiati in territorio portoghese dopo la cacciata dalla Spagna. Emanuele aveva eseguito gli ordini. E tanti ebrei era riuscito a battezzare sulle pubbliche piazze, che i preti erano stati costretti a usare una sola spruzzata di acqua benedetta ogni cento, duecento persone. L’ansia redentrice della sovrana spagnola era però inesauribile. Una sull’altra, le sue lettere soffocavano Emanuele perché proseguisse nella caccia spietata. Finché: «Maestà, non ci sono più ebrei sulla mia terra: e mandatemi finalmente la sposa» aveva risposto senza più alcuna pazienza il re del Portogallo.
Era stato stabilito che le nozze avessero un tono sommesso. Fin troppo, secondo la parca Isabella, era stato fatto in occasione del primo matrimonio della figlia. Come risarcimento dei gravissimi danni arrecati al Portogallo durante l’interminabile guerra per il possesso della corona di Castiglia, l’Infanta aveva portato ad Alfonso una dote così ingente da costringere la regina a trasgredire alle leggi da lei stessa prescritte contro il lusso e gli sprechi. La somma superava di cinquecento marchi d’oro e mille d’argento quella abitualmente assegnata agli Infanti della Castiglia. Il solo guardaroba in abiti, soprabiti e pellicce era stato valutato in centoventimila fiorini d’oro. E mercanti fatti venire apposta dall’Andalusia, da Lucca, Venezia, Milano, Genova e dall’Africa avevano fornito il meglio delle loro sete, pizzi, ricami, pietre, cuoio, damaschi, bottoni cesellati d’oro e d’argento. Il matrimonio fra la mesta principessa e il generoso pretendente era stato celebrato in settembre a Valencia di Alcántara. E già stavano per terminare le scarne, malinconiche feste, quando un messaggero proveniente da Salamanca aveva portato la notizia che, il primo di ottobre, l’erede al trono Giovanni era stato colto da febbri violentissime e stava ormai per morire.
A quel tempo, Salamanca era la città più dotta della Castiglia. L’arcivescovado e l’università, fondata nel 1218 da Alfonso IX di León, e arricchita di privilegi fino a raggiungere l’alto e universale prestigio di quelle di Parigi, Oxford e Bologna, ne avevano determinato l’ingrandimento e l’importanza. Ospitava più di settemila studenti, provenienti dalla Spagna e da altri paesi europei. La bellezza della sua cattedrale, fondata nel XII secolo dal conte Raimondo di Borgogna e da sua moglie, donna Urraca, il cui retablo sull’altar maggiore narrava in cinquantatré tavole dipinte la vita di Gesù e della Vergine, non aveva eguali nei regni di Castiglia, Aragona e León. Prediletta dai Re Cattolici, che alla magnifica università avevano concesso alti privilegi, si adagiava lungo la riva del placido e verdissimo Tormes, con grandi piazze per i giochi e i tornei, biblioteche preziose, palazzi e chiese adorne dello stile traforato come un pizzo a tombolo soprannominato «isabellino», perché fiorito sotto il patrocinio della regina. Molti erano gli amici dei re che vivevano nella città costruita con una pietra così tenera che si tramutava in oro antico al tramonto, stagliandosi magicamente contro l’argento del cielo. Il dottor Arias Maldonado de Talavera, membro del consiglio reale, abitava con la moglie Giovanna Pimentel, contessa di Benavente, nella Casa de las Conchas, all’esterno fittamente costellata di grosse conchiglie; mentre all’interno, lungo gli archi del delicatissimo chiostro, lungo i soffitti delle stanze e sulle inferriate dei balconi aperti sul giardino interno scorrevano gli intarsi eleganti dei cinque fiordalisi dello stemma di famiglia. Il dottor Alvarez Abarca, medico personale della regina, abitava una casa dai soffitti scolpiti e dipinti, le cui piccole stanze avevano porte basse e profonde finestre coi sedili di legno affacciate sul minuscolo patio arricchito da file ininterrotte di scudi padronali. La sua fiabesca collezione di quadri fiamminghi era meta abituale di Isabella, che degli artisti del Nord amava il gusto per il dettaglio, i visi delicati come miniature, le luci di perla che scolpivano le vesti di broccato e d’oro, gli immobili e nebbiosi paesaggi. Don Diego de Deza, gran sostenitore di Colombo e capo dei tutori di don Giovanni, nominato arcivescovo di Salamanca, viveva invece nel palazzo accanto alla cattedrale dall’incantevole, incomparabile facciata «isabellina». Era stato lui, a scrivere ai genitori di Giovanni. «Io gli sono accanto. Non appena ho saputo della sua malattia, l’ho fatto venire nella mia dimora. Quando l’ho accolto, già non si reggeva in piedi. Ho saputo che aborriva il cibo, i medici sostengono che stia morendo d’inedia. Suo unico nutrimento, ormai, è il succo di arancia che gli passiamo sulle labbra riarse dalla febbre.»
L’erede al trono e sua moglie erano andati in visita a Salamanca lasciando a metà i festeggiamenti in onore di Isabella ed Emanuele del Portogallo. Ospiti dei Maldonado, molto omaggiati dalla popolazione, il primo giorno avevano visitato l’università, alla quale Giovanni, dopo un discorso pronunciato in uno sbalorditivo e fluente latino, aveva donato il purpureo stendardo della Castiglia sormontato da una gran croce gotica ricamata col filo d’oro. Il principe non pareva sofferente, tuttavia era pallido ed emaciato. Il secondo giorno, era stato colto da una debolezza che non gli permetteva neppure di star seduto nel letto. Il dottor Abarca gli aveva prescritto il solito brodo corroborante di tartaruga. Il terzo giorno, il dottor Gutiérrez de Toledo aveva consigliato salassi e bagni freddi. Giovanni perdeva i sensi, sudava e vaneggiava, facendosi ancora più leggero e più bianco. Da Ávila, per un consulto, stava arrivando a cavallo un altro luminare, certo dottor Merlino. La situazione era disperata. «Sarò io a somministrargli i santissimi sacramenti» prometteva ai Re Cattolici l’arcivescovo. Aggiungendo che l’Infante, ormai rassegnato al volere di Dio, nei momenti di lucidità non faceva che pregare.
Impietrita da un violento dolore alle reni, Isabella aveva implorato il marito perché partisse immediatamente. Era disperata. Per giungere fino a Salamanca, sarebbero occorsi tre giorni di cavallo. «E in tre giorni, il mio angelo muore» singhiozzava. Il 4 ottobre 1497, Ferdinando varcava la porta dell’arcivescovado. Lo aspettava, già in lutto, don Diego de Deza. Giovanni era spirato all’alba fra le sue braccia. Dopo avergli impartito l’estrema unzione, non aveva potuto far altro che chiudergli gli occhi.
Sulla morte del principe serpeggiavano illazioni maliziose. I medici sostenevano che Giovanni era stato vittima del vaiolo, che già lo aveva aggredito con febbri altissime durante le nozze a Burgos e dal quale non si era più riavuto. Ben presto, però, aveva preso il sopravvento la voce che il gracile Giovanni, sposato all’insaziabile Margot e divenuto schiavo di un’inesauribile passione d’amore, ne fosse stato rapidamente consumato. Imbarazzati, perplessi, i responsabili dell’incolumità dell’erede avevano riferito già da tempo alla regina Isabella che i giovanissimi sposi non dormivano mai separati. Che la raffinata Margherita era, in tutto e per tutto, all’altezza della leggendaria voracità degli Asburgo. E che anche l’Infante, dietro l’aspetto mite e gentile, aveva rivelato un temperamento ardente, ai limiti della morbosità. Preoccupati per la sua salute, già da tempo i medici avevano chiesto l’intervento della regina. «Ciò che Dio ha unito, non sarà diviso dagli uomini» aveva invece decretato Isabella, abbandonando la coppia nelle mani di Dio, e in balia dei propri sensi sfrenati. Il matrimonio era durato sette mesi. Margot era incinta, e avrebbe partorito a dicembre.
La notizia della morte di Giovanni era stata immediatamente portata alla regina, e tale era stata la confusione dei messaggeri che lei, per un poco, aveva capito che fosse morto Ferdinando. La corte aveva preso un lutto strettissimo e, per ordine di Isabella, per la prima volta l’abito nero avrebbe sostituito quello bianco, finora considerato il colore della morte per le classi sociali più abbienti. Il nero con cui vestiva la povera gente, aveva sostenuto la sovrana, era più «sofferto», più consono al suo sconfinato dolore. E mentre il cronista di corte Pietro Martire aveva scritto che «la morte dell’erede al trono aveva distrutto ogni speranza nella nazione», tutte le attività, in ogni parte della Castiglia e dell’Aragona, erano state sospese per quaranta giorni.
Costretta a letto da una malattia che sempre più si aggravava, Isabella si era abbandonata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Giovanna la Pazza
  4. I. Prologo
  5. II. Al seguito di una madre battagliera
  6. III. Politica matrimoniale e guerra religiosa
  7. IV. Le nozze di Giovanna
  8. V. Primi lutti famigliari
  9. VI. La tentazione francese di Filippo
  10. VII. Giovanna ostaggio in casa propria
  11. VIII. Lo scontro fra una madre regina e una figlia innamorata
  12. IX. La scomparsa di Isabella
  13. X. La regina, il reggente e l’usurpatore
  14. XI. Giovanna e Filippo re di Spagna
  15. XII. La morte di Filippo di Borgogna e la pazzia di Giovanna
  16. XIII. Verso Tordesillas
  17. XIV. La regina imprigionata
  18. XV. Madre e figlio
  19. XVI. I comuneros liberano Giovanna
  20. XVII. La morte di Giovanna
  21. XVIII. L’enigma continua
  22. Bibliografia
  23. Copyright