Tornando nella nostra sala comune soffocai un lungo sbadiglio mentre toglievo il giubbotto inzuppato di sudore e sporco di polvere. Ero stanco perché non ero più sotto l’effetto dell’adrenalina del combattimento e sentivo l’amarezza di aver mancato l’obiettivo.
Ci radunammo in sala riunioni vicino al centro operativo nell’Afghanistan orientale. Era l’estate del 2010. Il caldo era opprimente e ci imponeva di portare con noi in missione molta più acqua. Il lato positivo era che, bevendola quasi tutta, rientravo molto più leggero.
Vedevo il sole spuntare da dietro le montagne. Era stata una lunga nottata e già sapevo che quel rapporto di fine missione, quello che noi per brevità chiamiamo AAR, sarebbe stato difficile.
Stavamo dando la caccia a un comandante talebano poco a nord di Khost. La valle era uno dei molti rifugi dove nascondevano armi ed esplosivi. Cominciammo a sorvegliarlo via ISR, un’abbreviazione per Intelligence, Surveillance and Recognition – intelligence, sorveglianza e identificazione –, il modo in cui noi chiamiamo i droni. Quando alla fine i talebani avevano smesso di spostarsi da un villaggio all’altro e si erano fermati in un gruppo di compound in fondo alla vallata, avevamo lanciato l’operazione.
Dopo essere atterrati subito fuori dalla portata degli RPG, ci erano arrivati diversi rapporti a proposito di persone che fuggivano dai compound. Le avevamo inseguite per ore, ma l’obiettivo ci era sfuggito. Di ritorno alla base sapevo che ci avrebbero fatto un mucchio di domande dirette per sapere cosa diavolo fosse successo e perché il nemico fosse riuscito a scappare. Noi vogliamo fare il nostro lavoro nel modo più pulito e perfetto possibile, ma le regole di ingaggio ci avevano legato le mani e avevamo perduto il bersaglio. Una cosa era fare irruzione in un covo vuoto, ma questa volta sapevamo che lui era lì e non eravamo riusciti né a ucciderlo, né a catturarlo. Non rischiamo la vita per fallire.
Per essere sincero, alla fine di una lunga missione, quando sei cotto, frustrato e incazzato per aver fallito, stare lì seduto a parlarne è spesso l’ultima cosa che hai voglia di fare. Però in anni di carriera avevo visto come funzionava l’AAR e sapevo che era una parte importantissima della nostra cultura.
L’AAR è uno dei sistemi per correggere gli errori, un momento per porre domande e assicurarci di aver fatto bene il nostro lavoro. Gli AAR possono diventare momenti commoventi, frustranti, logorroici e persino noiosi, ma non importa cosa ne pensano i ragazzi perché sono assolutamente fondamentali.
Io credevo di aver fatto la cosa giusta in funzione della situazione sul terreno e delle regole di ingaggio. Eravamo tutti d’accordo che l’infiltrazione verticale per questa operazione fosse la scelta corretta, ma evidentemente ci eravamo sbagliati. A rischio di ammaccare malamente più di un ego, la cosa importante era esaminare a fondo perché la nostra operazione era fallita. Dovevamo rimediare e gli AAR più importanti sono anche i più difficili. Immaginate se non avessero tenuto un AAR dopo l’operazione Eagle Claw, il fallito tentativo di incursione del 1980 per liberare gli ostaggi americani in Iran.
Le indagini che seguirono a quell’operazione disastrosa indicarono le falle nella progettazione, dalla mancanza di coesione fra servizi alla necessità di un equipaggiamento migliore. Proprio grazie a quel fallimento, oggi
ha successo.
Un AAR è una situazione nella quale si apprendono lezioni e si modificano o si accantonano politiche, e ha lo scopo di migliorare il team. Questo genere di dialogo assicura la partecipazione e il sostegno sia della parte alta che di quella bassa della catena di comando: il segreto è riunire il maggior numero possibile di persone. L’unico modo in cui un AAR può essere efficace è che ognuno metta da parte il proprio ego e sia disposto ad accettare critiche sincere.
Andando alla riunione incontrai il mio compagno Walt. Walt era piccolo, non mi arrivava neppure alle spalle, ma compensava con la grinta, impudente con una punta di spavalderia. Aveva in buona misura il complesso dell’altezza ed era peloso come una scimmia. Era uno dei miei migliori amici e, quando si trattava di esprimere un’opinione, andava sempre dritto al punto.
Walt era coperto di fango dalla testa ai piedi, tanto da non riuscire a passargli un pettine nella barba. Nel vederlo sorrisi, e lui rispose con un lieve sogghigno che gli increspò appena le labbra. Si vedevano a malapena i denti sbucare dall’ammasso di peli sporchi che aveva intorno alla bocca.
«Non dire una parola» disse. «È stata una stronzata e dobbiamo capire il perché. Non possiamo continuare ad arrivare in elicottero indicando così la nostra posizione. Soprattutto se non ci lasciano sganciare bombe.»
I comandanti talebani dovevano aver sentito la turbolenza dei rotori riecheggiare nella valle qualche minuto prima che atterrassimo. Una specie di campanello di allarme: quando sentivano gli elicotteri, infatti, scappavano.
Walt e i suoi compagni avevano cercato di catturare i combattenti mentre fuggivano dai compound, ma li avevano persi fra le montagne. Tutti quelli che arrivavano al briefing avevano l’aria demoralizzata, arrabbiata e frustrata. In quella stanza non c’erano due SEAL uguali: ognuno aveva un’uniforme diversa, spesso con i pezzi abbinati a casaccio; alcuni avevano la barba, altri i capelli lunghi. Tutti stavamo bevendo qualcosa: caffè, acqua, integratori energetici. Sarebbe stata una chiacchierata lunga.
Walt e io prendemmo due sedie e ci raggiunse anche uno dei compagni di team di Walt, che portava una T-shirt nera con il logo dei Van Halen anziché quella mimetica. Il logo bianco dei Van Halen era immacolato perché era rimasto coperto dal giubbotto antiproiettile. Per il resto, come Walt, era coperto di fango.
«Ti dona» gli dissi sorridendo.
Non ricambiò il sorriso.
Nessuno di noi voleva rischiare la vita soltanto per fallire. Se dovevamo fare il nostro lavoro, dovevamo anche trovare un modo di agire nel rispetto delle regole di ingaggio perché anche i talebani le conoscevano e le usavano contro di noi. I talebani sapevano perfettamente che se lasciavano cadere le armi e fuggivano noi non potevamo sparargli. Sapevano che, mescolandosi alla popolazione civile, sarebbero riusciti a squagliarsela. Se si fosse trattato soltanto di sganciare bombe o sparare ai cattivi, la guerra sarebbe stata molto più facile. Detto ciò, anche se non è questo il punto, nessuno di noi era lì per sparare a civili inermi. Senza contare che se uscivamo anche di poco dal seminato, una schiera di almeno trenta avvocati al servizio degli alti gradi della catena militare era pronta a farcelo notare.
Merda, nel mio ultimo assegnamento mancava poco che non potessimo nemmeno entrare in una struttura o in un edificio in Afghanistan senza previa approvazione dall’alto. Tutto questo rendeva quasi impossibile combattere una guerra.
Walt e io fummo fra gli ultimi ad arrivare all’AAR. Prima dell’inizio mi presi un minuto per concentrarmi e calmarmi, lasciando scivolare via la frustrazione per aver visto i nemici fuggire. Durante l’AAR non c’era spazio per l’emotività: rischiava di intralciare le comunicazioni. Feci due respiri profondi e lasciai che il pensiero del fallimento mi uscisse di testa. Ero diventato bravissimo a suddividere le cose e sapevo di aver bisogno di una mente libera per quella conversazione.
Attaccato al telo della tenda c’era un pezzo di carta delle dimensioni di un manifesto con la checklist per l’AAR.
Pianificazione missione
Infiltrazione
Azioni su obiettivo
TQ [domande tattiche]
Esfiltrazione
Comms [comunicazioni]
Intelligence
HQ [catena di comando]
Ciascuno di noi, a turno, parlò del proprio ruolo nella missione. Come caposquadra avrei preso la parola per il mio team e i miei ragazzi sarebbero intervenuti se avessero avuto qualcosa da aggiungere. Non solo tutti erano liberi di parlare, ma venivano sollecitati a farlo.
Il capo diede il via discutendo la pianificazione della missione. Da quel punto cominciammo a parlare rivedendo ogni parte dell’operazione, a partire dall’infiltrazione. Eravamo arrivati su due elicotteri CH-47 con la strategia chiamata «infiltrazione verticale».
Quell’infiltrazione non era stata diversa dalle missioni precedenti. Non appena iniziammo l’atterraggio, cominciarono ad arrivare via radio, una dopo l’altra, segnalazioni di uomini in fuga. Scendendo dalla rampa ero subito dietro il mio uomo di testa e mi spostai immediatamente sul fianco della formazione all’estrema destra per avere un buon angolo visivo sui compound.
Sentii via radio Steve, il caposquadra di Walt, comunicare l’okay per dare la caccia ai fuggiaschi, e i ragazzi seguirono l’indicatore laser del drone oltre gli edifici e su per le colline. Attesi l’ordine per dare il via all’assalto verso i compound. I diversi team cominciarono subito a sparpagliarsi per prendere posizioni di fiancheggiamento e fornire un supporto di fuoco.
«Okay» disse il capo alla radio. «Andiamo a prenderli.»
Ci avviammo verso l’obiettivo. Vidi gli altri team e i commando afghani sparire in un labirinto di compound. Il mio circondò un edificio e si fermò. Davanti alla porta provammo ad aprirla: non era chiusa a chiave. L’uomo di punta la spinse, aprendola.
La casa era nell’oscurità più completa, ma grazie ai visori notturni vedevamo abbastanza bene. C’erano una grande stanza e una cucina in un angolo. Il luogo era deserto: niente combattenti, niente armi, niente esplosivi, niente.
Fuori vidi i commando afghani sorvegliare alcune donne e dei bambini. Dalla radio seppi che Steve stava ancora inseguendo i fuggiaschi. Riuscivo a vedere il laser del drone in lontananza sulla collina. Steve e il suo team erano parecchio indietro rispetto ai fuggiaschi e vedevo le luci stroboscopiche a infrarossi lampeggiare sugli elmetti mentre salivano la collina a zigzag per guadagnare tempo.
«Che rottura» dissi a un compagno che li stava osservando insieme a me. «Sembra un postaccio, speriamo che li prendano.»
Steve stava chiedendo via radio un supporto aereo ravvicinato. Voleva che la cannoniera AC-130 aprisse il fuoco, ma non riuscì a ottenere il consenso. Finalmente, dopo oltre un’ora di inseguimento sul fianco della montagna, inoltrandosi sempre più in territorio sconosciuto, il comandante e il capo dichiararono conclusa la missione. Non aveva senso continuare, considerando soprattutto che il nostro team non stava guadagnando terreno e non aveva ottenuto nemmeno l’okay per poter sganciare bombe.
Il comandante chiese l’esfiltrazione e il primo elicottero atterrò dietro il gruppo di case. Salimmo sulla rampa e ci accasciammo sugli strapuntini arancioni. Pochi secondi dopo sentii l’elicottero decollare e dirigersi verso la base.
L’altro elicottero doveva andare a recuperare il team di Steve, compreso Walt. Erano troppo lontani per tornare indietro a piedi e non avevamo il tempo di aspettare che scendessero dalla montagna. Poi non si trattava certo di dolci colline tonde...