Superate questa linea
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Saggi e articoli 1992-2002

  1. 490 pagine
  2. Italian
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Saggi e articoli 1992-2002

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Attraversare una frontiera, fare anche un solo passo oltre quella linea immaginaria che segna la fine di un mondo e l'inizio di un altro, significa venire trasformati nel profondo. La frontiera, il limite, il confine risvegliano le nostre coscienze. Sono il luogo in cui non possiamo sfuggire alla verità: ci spogliamo dei panni comodi della nostra esistenza quotidiana che nascondono gli aspetti più brutali della realtà, per osservare le cose come sono. In questa raccolta di saggi e articoli Salman Rushdie attraversa molte frontiere e invita a superare i confini di una ristretta visione del mondo sulla politica, la letteratura e la cultura, a cavallo tra XX e XXI secolo. In questi scritti, che toccano una grande varietà di argomenti, dal Mago di Oz agli U2, dagli scrittori indiani alla morte della principessa Diana, dal calcio alla lotta contro la fatwa iraniana, dal Kosovo al rapporto tra Islam e Occidente prima e dopo l'11 settembre, Rushdie si mostra incisivo, acuto, ironico. Anche quando parla della propria vita braccata dagli integralisti religiosi, è sempre intelligente e originale, confermandosi come uno dei più importanti intellettuali contemporanei.

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Informazioni

Parte prima

SAGGI

Lontano dal Kansas

La mia prima storia la scrissi a Bombay all’età di dieci anni e si intitolava Over the Rainbow. Si trattava di una dozzina di pagine o poco più, diligentemente battute a macchina dalla segretaria di mio padre su carta scadente, che andarono perdute chissà dove nel corso del labirintico peregrinare della mia famiglia tra India, Inghilterra e Pakistan. Poco prima di morire, nel 1987, mio padre mi disse di averne trovato una copia ammuffita in un vecchio raccoglitore, ma nonostante le mie ripetute richieste non me la inviò mai, e nessun altro sembra saperne nulla. Ho riflettuto spesso su questo piccolo incidente. Chissà, forse mio padre in realtà non l’aveva mai trovata per davvero, quella storia, e aveva semplicemente ceduto al richiamo irresistibile della fantasia, raccontandomi l’ultima delle sue innumerevoli favole; oppure l’aveva trovata realmente e se l’era tenuta stretta come un talismano o un ricordo di tempi più semplici, un tesoro più suo che mio – la sua pentola ricolma di un oro nostalgico e paterno.
Non ricordo granché di quella storia. Parlava di un ragazzino decenne di Bombay che un bel giorno si ritrova ai piedi di un arcobaleno, luogo vago almeno quanto quello della pentola d’oro, e altrettanto gravido di promesse. L’arcobaleno era largo, più o meno dell’ampiezza di un marciapiede, ed era fatto come una grande scalinata. Ovviamente il ragazzino cominciava a salire. Non ricordo quasi nulla delle sue avventure, a parte un incontro con una pianola parlante la cui personalità era un improbabile ibrido di Judy Garland, Elvis Presley e le cantanti in playback dei film indiani, molte delle quali sarebbero in grado di far passare Il Mago di Oz per un’opera neorealista.
La mia pessima memoria, che mia madre definirebbe “dimenticheria”, è probabilmente tale e quale. Mi ricordo solo l’essenziale. Ricordo ad esempio che Il Mago di Oz (il film, non il libro, che non lessi da bambino) fu la mia prima influenza letteraria. O meglio: mi ricordo che quando mi venne ventilata la possibilità di andare a scuola in Inghilterra, l’idea mi sembrò entusiasmante come un viaggio oltre l’arcobaleno. Mi rendo conto che è difficile a credersi, ma l’Inghilterra mi parve allora una prospettiva meravigliosa almeno quanto il mondo di Oz.
Il Mago tuttavia si trovava proprio lì a Bombay. Mio padre, Anis Ahmed Rushdie, a tutti gli effetti un genitore fatato per i suoi bambini, era però come lui incline a improvvise esplosioni, collere travolgenti, inaspettati fulmini di emotività, sbuffi di fumo degni delle fauci di un drago, e altre diavolerie del genere di quelle praticate dal grande e terribile Oz, il Mago per eccellenza. E quando il velo cadde e la sua progenie crescendo scoprì, proprio come Dorothy, la verità sull’impostura degli adulti, fu facile pensare, esattamente come Dorothy, che il nostro Mago dovesse essere un uomo davvero malvagio. Mi ci volle metà dell’esistenza per capire che l’apologia pro vita sua del Grande Oz si adattava magnificamente anche a mio padre, e che anche mio padre era un uomo buono almeno quanto era un pessimo mago.
Ho esordito con questi ricordi personali perché Il Mago di Oz è un film la cui forza propulsiva è proprio l’inadeguatezza degli adulti, anche di quelli buoni, e il fatto che la loro debolezza obbliga i bambini a prendere in mano il proprio destino e, ironicamente, a crescere da soli. Il viaggio dal Kansas a Oz è un rito di passaggio da un mondo in cui zia Em e zio Henry, ossia i sostituti dei genitori di Dorothy, si rivelano incapaci di aiutarla a mettere in salvo il suo cagnolino Totò dalla rapace Miss Gulch, a un altro in cui tutti sono a misura di Dorothy e in cui lei stessa non è mai trattata da bambina, bensì come un’eroina. È senz’altro vero che raggiunge tale status per caso, dato che non ha avuto nessun ruolo nella decisione della sua casa di schiacciare la Strega Malvagia dell’Est; alla fine della sua avventura, però, è cresciuta abbastanza da indossare con disinvoltura simili panni, o meglio, simili scarpette rosse. «Chi si sarebbe mai immaginato che una ragazzina come te avrebbe potuto distruggere la mia splendida malvagità?» si lamenta la Strega Malvagia dell’Ovest mentre si dissolve – adulta che diventa più piccola della bambina, a cui del resto cede il passo. Man mano che la Strega decresce, si vede Dorothy crescere. Questa, a mio parere, è una spiegazione assai più convincente del suo potere sulle scarpette rosse, rispetto alle ragioni sentimentali offerte dall’ineffabilmente svenevole Glinda, la Strega Buona, e persino dalla stessa Dorothy, in una conclusione stucchevole che io trovo del tutto inautentica rispetto allo spirito anarchico del film (sul quale mi dilungherò più avanti).
La debolezza di zia Em e di zio Henry di fronte al desiderio di Miss Gulch di far fuori il cagnolino Totò conduce Dorothy a pensare in modo infantile, ossia a scappare di casa, a fuggire lontano. Ecco perché, quando il tornado si abbatte, lei non si trova assieme agli altri al sicuro nel rifugio e viene letteralmente soffiata verso una via di fuga che altrimenti mai sarebbe stata in grado di immaginare. Più avanti, tuttavia, quando si trova alle prese con la debolezza del Mago di Oz, non fugge, anzi si getta nella mischia, dapprima contro la Strega, e poi contro il Mago stesso. L’inefficacia del Mago è una delle numerose simmetrie del film, e fa il paio con la debolezza della famiglia di Dorothy; il punto nodale, però, è la differente reazione di Dorothy nell’uno e nell’altro caso.
Il bambino di dieci anni che guardava Il Mago di Oz al Bombay Metro Cinema sapeva ben poco di paesi esotici e ancor meno di diventare grandi. Sapeva tuttavia sul cinema fantasy molto più di qualunque ragazzino occidentale della stessa età. In Occidente quel film era una bizzarria, un tentativo di fare una specie di versione dal vivo di un cartone animato della Disney, in opposizione alla nozione acquisita all’interno dell’industria cinematografica che i film fantasy fossero sistematicamente un flop. Non c’è dubbio che l’eccitazione messa in moto da Biancaneve e i sette nani spiega la decisione della Metro Goldwyn Mayer di procedere senza indugi a lavorare all’adattamento di un libro vecchio di trentanove anni. E non si trattava nemmeno della prima versione cinematografica. Non ho avuto modo di vedere la versione muta del 1925, ma non gode di una reputazione particolarmente buona, anche se vi faceva la sua apparizione Oliver Hardy nei panni dell’Uomo di Latta.
Anche il film non incassò granché prima dei passaggi televisivi, che avvennero svariati anni dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche, anche se mi sembra doveroso aggiungere a discolpa dell’opera che uscire pochi giorni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale di certo non aiutò le sue possibilità di successo. In India, a ogni modo, la pellicola rientrava perfettamente in quello che era e tutt’oggi resta uno dei principali filoni della cosiddetta “Bollywood”.1
È sin troppo facile ridicolizzare i film indiani. Nel film di James Ivory Bombay Talkie, una giornalista (l’ormai anziana, toccante Jennifer Kendall) fa visita a uno studio e osserva un incredibile numero di danza costituito da un gruppo di ragazze succintamente vestite che saltellano sui tasti di una gigantesca macchina da scrivere. Il regista spiega che la macchina da scrivere è in realtà la «macchina da scrivere della vita» e che «noi tutti danziamo al ritmo delle nostre storie» su quella grande macchina. «È molto, come dire, simbolico» azzarda lei. Il regista replica con un «grazie» piuttosto lezioso.
Macchine da scrivere della vita, dee del sesso avvolte in sari madidi (l’equivalente indiano della T-shirt bagnata), divinità che discendono dai cieli per interferire nelle vicende umane, superuomini, pozioni magiche, supereroi, malvagi demoniaci, e così via, sono da sempre la dieta del cinefilo indiano. La bionda Glinda in arrivo al paese dei Mastichini nella sua bolla magica poteva ragionevolmente indurre Dorothy a qualche commento relativo alla rapidità e alla stranezza dei mezzi di trasporto in uso a Oz, mentre per il pubblico indiano la fata semplicemente arriva come qualunque divinità dovrebbe arrivare: ex machina, cioè in virtù di un suo personale marchingegno. Proprio come i superbi sbuffi di fumo arancione della Strega Malvagia dell’Ovest erano del tutto consoni al suo status di supercattiva. Va da sé comunque che, a dispetto delle somiglianze, tra il cinema di Bombay e film come Il Mago di Oz esistevano differenze significative. Le fatine buone e le streghe cattive potevano sì ricordare superficialmente le divinità e i demoni del pantheon indù, ma in realtà uno degli aspetti più intriganti della visione del mondo espressa nel Mago di Oz è il suo gioioso e quasi totale secolarismo. La religione viene menzionata solamente una volta nel film, ossia quando zia Em, fremente di rabbia nei confronti di Miss Gulch, afferma che da anni non vede l’ora di dirle cosa pensa di lei ma, aggiunge, «dato che sono una buona cristiana non posso farlo». A parte questo momento, in cui la carità cristiana serve al massimo a prevenire qualche antiquata espressione un po’ più esplicita della norma, il film per il resto è ariosamente privo di divinità. Nella stessa Oz non v’è traccia di religione; le streghe cattive sono temute e quelle buone sono amate, senza per questo essere santificate; e mentre il Mago di Oz è ritenuto un essere dai poteri quasi assoluti, nessuno pensa di farne un oggetto di culto. Una tale assenza di valori alti accresce di parecchio il fascino del film, e si rivela un aspetto di grande importanza al fine di ricreare un mondo in cui nulla è ritenuto più importante dell’amore, della cura e dei bisogni degli esseri umani (e, ovviamente, di quelli di paglia e di latta, dei leoni e dei cani).
L’altra fondamentale differenza è di più ardua definizione, perché alla fin fine attiene a una questione di qualità. La sola definizione che si adatti alla maggior parte dei film indiani, ieri come oggi, è quella di film spazzatura. Il piacere che si può trarre da film del genere (e alcuni di essi sono estremamente godibili) è paragonabile a quello che si prova nel mangiare patatine e merendine. I classici filmetti di Bombay si servono di sceneggiature di una banalità sconcertante che conferiscono loro un aspetto dozzinale o volgare, quando non entrambe le cose, e per fare presa sul pubblico contano sul fascino invalso degli attori e dei numeri musicali che vi compaiono. Il Mago di Oz ha le sue stelle e i suoi numeri musicali, ma è anche decisamente un bel film, che allo stile fantasy alla Bombay aggiunge alti costi di produzione e qualcos’altro, qualcos’altro che non così di frequente si trova al cinema. Chiamiamola verità immaginativa. Chiamiamola (mettete pure mano alle pistole, se volete) arte.
Se Il Mago di Oz è un’opera d’arte è oltremodo difficile stabilire chi sia l’artista. La creazione stessa di Oz è avvolta nella leggenda, e il suo autore, L. Frank Baum, battezzò il suo magico regno con le lettere O-Z che siglavano una cartelletta dell’ultimo cassetto del suo archivio. Baum ebbe una vita bizzarra e piena di alti e bassi. Nato ricco, ereditò dal padre una catena di piccoli teatri che perse uno dopo l’altro a causa della sua pessima amministrazione. Fu autore di un’opera di successo e di una serie di flop clamorosi. I libri di Oz lo resero uno dei più rinomati autori per ragazzi, ma i suoi romanzi fantasy successivi furono un vero disastro. Il meraviglioso Mago di Oz, seguito da un adattamento musicale per la scena, riassestò temporaneamente le sue finanze, ma un catastrofico tentativo di tour di promozione americano con un “prologo fatato” di diapositive e film lo condussero alla bancarotta nel 1911. Dopo di che trascorse il resto dei suoi giorni mantenuto dalla moglie nella sua residenza di “Ozcot” a Hollywood, allevando polli e vincendo concorsi floreali. Il modesto successo raggiunto con un musical di Oz intitolato The Tik-Tok Man of Oz contribuì a migliorare la sua situazione finanziaria, che pensò bene di compromettere nuovamente con la decisione di mettere in piedi la propria compagnia cinematografica, la Oz Film Company, e con il tentativo fallimentare di adattare per lo schermo e distribuire i libri di Oz. Dopo due anni di grave malattia, eppure, a quanto è dato sapere, vissuti con grande ottimismo, morì nel maggio del 1919. La sua redingote, come vedremo, godette però di una curiosa immortalità.
Il meraviglioso Mago di Oz, pubblicato nel 1900, contiene parecchi ingredienti della pozione magica – tutti i personaggi e gli avvenimenti principali ci sono già, come ci sono i luoghi più importanti: dal Sentiero Dorato, al mortifero campo di papaveri, alla Città di Smeraldo. La resa cinematografica del Mago di Oz rappresenta però uno di quei rari casi in cui un film migliora un libro già buono. I cambiamenti includono l’espansione della parte ambientata nel Kansas, che nel romanzo occupa precisamente due pagine all’inizio, prima dell’arrivo del ciclone, e nove righe alla fine; una certa semplificazione della trama nella sezione di Oz (tutte le sottotrame vennero alleggerite, tra cui le visite agli Alberi Guerrieri, al Grazioso Paese di Porcellana e alla terra dei Quadling, che arrivano nel romanzo immediatamente dopo l’acme drammatico dell’annientamento della Strega, distruggendo lo slancio narrativo del libro). Ci sono poi due ulteriori cambiamenti, ancor più rilevanti: la Città di Smeraldo di Frank Baum era verde solo perché tutti i suoi abitanti dovevano indossare occhiali dalle lenti verde smeraldo, mentre nel film tutto è di un futuristico verde clorofilla, a eccezione si intende del cavallo multicolore… esso infatti cambia colore a ogni nuova inquadratura, mutamento raggiunto mediante la copertura del suo manto con una gran varietà di polveri impiegate per la preparazione di gelatine alimentari.2
L’ultimo e più importante di questi cambiamenti è infine rappresentato dalle scarpette rosse. Esse infatti non erano un’invenzione di Frank Baum, che le aveva originariamente chiamate «scarpette d’argento». Noel Langley, il primo dei tre sceneggiatori ufficiali, originariamente seguì l’idea di Baum. Nella quarta sceneggiatura del maggio 1938 però, nota anche con il nome di sceneggiatura “niente cambiamenti”, le rumorose, metalliche e tutt’altro che mitopoietiche calzature d’argento vennero messe da parte, e per la prima volta nella storia furono introdotte le immortali scarpe gioiello, precisamente, come ci spiega Harmetz, nell’inquadratura numero 114: «le scarpette rosse appaiono ai piedi di Dorothy, splendenti e luccicanti alla luce del sole».
Vi sono altri scrittori che hanno dato contributi significativi alla sceneggiatura finale. Florence Ryerson e Edgar Allan Woolf sono probabilmente responsabili per la battuta «Nessun posto è bello come casa mia», che, come mi sforzerò di dimostrare, è l’assunto meno convincente del film (un conto è che Dorothy desideri tornare a casa, un altro è che esprima tale desiderio magnificando il Kansas come lo Stato ideale che ovviamente non è).3 Anche su questo punto tuttavia non c’è certezza: una comunicazione interna parrebbe indicare il produttore associato Arthur Freed come l’inventore del grazioso slogan. E, dopo interminabili...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Superate questa linea
  4. Parte prima. SAGGI
  5. Parte seconda. NOTIZIE DAGLI ANNI MALEDETTI
  6. Parte terza. RUBRICHE
  7. Parte quarta. SUPERATE QUESTA LINEA
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright