La foiba grande
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La foiba grande

  1. 280 pagine
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La foiba grande

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Informazioni sul libro

Le tragiche vicende vissute dai popoli della ex Jugoslavia sul finire del Novecento richiamano alla memoria la tragedia che travolse gli italiani d'Istria durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Una pagina oscura della storia che Carlo Sgorlon riporta alla luce narrando le vicende di Benedetto e della gente di Umizza. Un dramma umano, familiare, corale, in cui l'odio cancella l'amicizia, la paura annulla la fiducia. È l'incubo della morte nelle buie profondità delle foibe, il dramma dell'esilio forzato da una terra amatissima. Tra leggenda e verità, un romanzo indimenticabile, un omaggio forte e struggente ai morti e ai sopravvissuti di una guerra dimenticata.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852058851
XVII

Il calendario

Giusto Stefanèl diceva invece esattamente il contrario. Lui aveva il cuore in Italia e non ce la faceva a resistere sotto gli slavi e le loro ambiguità. Lui, soltanto vedendo i cartelli con il nome mutato dei paesi e delle città, si sentiva stringere le tempie in una morsa. Non sopportava l’idea che i suoi figli sarebbero dovuti andare in una scuola croata. Detestava i nuovi padroni, anche perché rappresentavano un cambiamento, e lui i mutamenti li odiava, come Filomena. Per Giusto, quando una legge cambiava o una tradizione svaniva, il mondo diventava più povero, ed era come se gli astri fossero usciti dalla loro orbita, lasciando dietro di sé scie di bruciato nel cielo. Ogni variazione era una profonda lesione dello spirito. La fine della presenza italiana in Istria per lui era paragonabile al crollo dell’Impero romano. Tutto quello che stava avvenendo nella nostra penisola aveva una valenza luttuosa. Ripensava alle grandi tragedie istriane del passato, come la distruzione di Nesazio. Nelle parole di Giusto sembrava che quei tempi si fossero ripresentati, sul davanzale della storia, e che fosse venuta l’epoca di vestirsi a lutto e di fuggire subito dal paese.
Perché Giusto non se ne andava per conto suo? Chissà. Pareva che non volesse farlo da solo, che desiderasse continuare a convincere tutti a venirsene via.
Vera da parte sua cercava di sdrammatizzare le cose con il suo gusto d’inventare la vita ogni giorno. E infatti, dato che era il periodo delle feste di Natale, il primo dopo la fine della guerra, all’Epifania si truccò da Befana, con abiti da centenaria. Si gettò una manciata di cenere nei capelli, disegnò le rughe con un carboncino nero, s’impegolò il viso con qualche sconosciuta poltiglia. I bambini risero con autentico divertimento. Vera sembrava più vecchia della vecchiaia, però continuava ad avere una vivacità da giovane.
Alla sera, un’ora dopo la discesa del buio, appena fuori del paese, sul confine del bosco la strega di paglia e stracci, confezionata con sapienza da Vera, fu bruciata di fronte a tutta la popolazione. La gente del paese con quel falò si sentì come liberata di qualcosa. Il fuoco fu un segno di lietezza e di affrancamento, anche se si trattava di una recita contadina, pagana e religiosa insieme.
Chi invece si sentì incrinare dalla malinconia, quella sera, fu Vera. Perché? Che era successo? Ecco. Vera, poco prima del bruciamento della strega, si era guardata a lungo nello specchio, eterno rito del suo narcisismo, e con una certa sorpresa si era vista come sarebbe stata da vecchia, moltissimi anni dopo. Con l’abile travestimento aveva anticipato di parecchi decenni la sua decrepitezza. Si era veduta all’improvviso come se, con la mascherata, avesse evocato da sola una verità ancora lontanissima, e si era proiettata alle soglie della morte. Così, davanti allo specchio, si sentì come se la sua vita fosse già passata, e lei si trovasse già con un piede dentro la fossa. Si tolse il trucco e il mascheramento, in tutta fretta, e tornò a essere se stessa. Durante la festa della Befana tutti pensarono che l’Epifania, il Natale, il Capodanno e tutte le feste religiose erano state abolite dalle autorità. In quei giorni si andava a lavorare, come fossero feriali. Era lo stato che decideva quali erano le feste vere e quelle da eliminare. Le domeniche non esistevano più e i lavoratori nelle fabbriche facevano un giorno di vacanza ogni dieci, a turno.
Festa era il giorno della “liberazione” dell’Istria da parte dell’esercito dei boschi. Le feste del nuovo stato erano quelle legate ai fatti storici del comunismo, alla vita e al ricordo dei grandi personaggi, ossia feste di natura e sostanza politica. Gli eroi del popolo, della giustizia e della libertà, questi avevano una reale consistenza e importanza. Quelle religiose invece erano state tutte cancellate dal calendario, senza esitazione, perché celebrative di personaggi inesistenti, o di fatti che non appartenevano alla realtà, bensì alla leggenda e al mito. A Natale perciò era giusto andare a scuola, negli uffici, nelle fabbriche, in tutti i posti statali. Tutti a Umizza erano rimasti come storditi da questo fatto.
Che si doveva fare? Nulla. Inghiottire il rospo o fuggire, come tanti avevano cominciato a fare.
Benedetto disse che un giorno il compleanno di Tito sarebbe stato dimenticato, perché possedeva una suggestione infinitamente meno forte del Natale cristiano. Un giorno il cristianesimo avrebbe ripreso tutta la sua vitalità, perché faceva tuttuno con la cultura istriana, e con quella di buona parte del mondo.
Ma Giusto Stefanèl era furibondo. Questi pazzi volevano riformare il calendario, ce ne rendevamo conto? Credevano di eliminare il passato, di modificare il mondo e di cominciare un’epoca nuova. Volevano cancellare i santi e sostituirli con eroi comunisti, liquidare san Giuseppe e sostituirlo con il nome di un partigiano che aveva scannato un numero cospicuo di nemici. Ma ci rendevamo conto?
«È sempre stato così, nella storia» disse Benedetto.
«Cosa vuoi dire?»
«Tutti i rivoluzionari hanno creduto di cancellare il passato e di cominciare un’epoca nuova. Tutti i rivoluzionari, o quelli che si credevano tali, hanno inventato un nuovo calendario.»
L’avevano fatto i liberali della rivoluzione francese, i comunisti con la rivoluzione di ottobre. L’avevano fatto anche i fascisti, ma solo a metà, un calendario a mezzadria con quello della chiesa, perché evidentemente alla propria rivoluzione credevano soltanto al cinquanta per cento. Ma tutte le rivoluzioni e i calendari da esse creati avevano sempre avuto una durata limitata nel tempo, poi il passato e la tradizione finivano per risorgere e riacquistare l’importanza perduta. Benedetto pensava a questa cosa con la pazienza di un pescatore seduto sulla riva di un fiume, presso canne di erbe acquatiche. Ma Giusto aveva assai meno pazienza di lui nella sua bisaccia, e non si dava pace per questo nuovo stato delle cose, che stava ribaltando le situazioni più consolidate e più antiche. Illusi, prepotenti, traditori! La soppressione delle feste religiose, per lui, era un attentato dinamitardo, una superbia assurda contro la storia, compiuta all’interno del recinto delle cose intoccabili. Un colpo di mano di insolenza inaudita. La Passione dell’Istria continuava, anzi era appena incominciata. Aveva ragione barba Michele e quelli che la pensavano come lui. Chissà quante stazioni restavano ancora! Lo sfascio dell’Istria era cominciato, era entrato senza bussare, e stava sconvolgendo tutti gli ordini esistenti. L’Istria e la sua storia erano svendute come si fa con i fondi di magazzino nelle liquidazioni estive, e perciò restare in Istria diventava insensatezza.
Poco dopo essersi tolta la mascheratura da Befana, Vera dovette mettersi a letto perché le vennero gli orecchioni. La sua faccia si gonfiò, divenne una caricatura di se stessa, perché somigliava al recipiente tondo, di terracotta che i contadini riempivano di vino e si portavano dietro quando andavano a falciare nei prati lontani da casa, le mattine d’estate. Vera chiese a sua madre:
«Ma non ho già avuto gli orecchioni, da bambina?»
«No. Me par de no» fece Maddalena.
«Non è vero. Li ho già avuti. Questa è la seconda volta!»
Convinse tutti in casa che era come diceva lei, e questo creò un certo scompiglio. Ognuno la guardava come un fenomeno, perché non era mai avvenuto in tutto il mondo che ad uno venissero gli orecchioni per la seconda volta. Vera pretese che Maddalena portasse via tutti gli specchi, per non avere neppure lei informazioni sopra la sua attuale bruttezza. Nell’immaginazione le pareva di essere come la contessa di Castiglione, che aveva fatto fare la medesima cosa, quando aveva smesso di usare la sua bellezza per fini patriottici.
Tutti quelli di Umizza andarono a trovarla, ma lei li cacciò via, specialmente gli uomini, perché non ammetteva di esser vista in quello stato. Il pandemonio attorno alla sua persona diventò tre volte tanto quando Vera cominciò a dire a Maddalena il suo timore che la malattia danneggiasse i suoi “organi delicati”. Maddalena aveva tanto temuto le sue corse e i suoi salti da capra, ed ecco che invece il pericolo veniva da una fonte diversissima, una malattia clandestina e anomala, se ci si poteva esprimere così, perché l’aveva già avuta da bambina, e non sarebbe dovuta ritornare. Ma era poi vero che gli orecchioni facevano quell’effetto? Tutti furono d’accordo nel dire che per gli uomini il pericolo era concreto, ma la stessa cosa non valeva per le donne.
La povera Maddalena era fuori di sé.
«Ti me fa dar i numeri» disse alla figlia.
«Non io. La malattia, cioè il destino» rispose Vera.
Finalmente la ragazza guarì, ma era ancora turbata, e pareva cercasse uno con cui far l’amore al più presto, per verificare se gli orecchioni le avevano lasciato quel terribile regalo, e soltanto dopo la prova del parto si sarebbe potuta mettere l’anima in pace.
«Vera, smettila!» disse Maddalena.
«Forse non diventerai mai nonna» fece lei.
«Pasiensa. Restarò quel che son.»
Ma Vera continuava con le sue lamentele e i suoi timori chimerici, finché tutti non ebbero cose più serie a cui pensare.
Chi temeva che dalla dominazione slava sarebbero venute altre sorprese, ebbe ragione, perché si seppe che altra gente era sparita. Si cominciò anche a parlare di persone arrestate in casa senza accuse definite, e portate via nella notte. Si diceva ci fossero dei camion carichi di armati che circolavano nel buio e facevano irruzione nelle case. Gli arrestati venivano fatti salire con l’accusa di essere nemici del popolo e della rivoluzione, una cricca antinazionale, fascisti senza tessera, e portati chissà dove. Molti riferivano di aver sentito il rombo del camion nella notte. Esso era stato sentito in tanti posti diversi che la gente già parlava di un “camion della morte”, perché le persone sequestrate non erano più ricomparse.
Le donne del paese subito si spaventarono, ma gli uomini furono poco inclini a credere a questa storia, e preferivano ritenere che fossero fandonie nate dalla paura. Benedetto apprese che era sparito un suo amico di Pisino che aveva scritto un articolo su di lui sul «Giornale alleato» di Trieste.
La diceria continuava e si rassodava. Uno era scomparso, un altro era stato sequestrato, e non s’era più visto. A un certo punto diventò molto difficile dubitare che della gente fosse sparita per davvero, perché la voce non solo non cessava, ma al contrario diventava sempre più consistente. Tutto come a Trieste…
Perché la gente svaniva? Cosa ne facevano? Dove la portavano? La sbattevano in galera senza processo? La trasferivano in campi di concentramento? La spedivano in Russia? La Russia suscitava molte ansie. Stalin aveva sempre eliminato nei modi più spicci i nemici politici. Da quando era cominciata la spedizione dell’ARMIR e la campagna di Russia, e soprattutto da quando le cose della guerra avevano cominciato a mettersi male per l’Italia, era circolata la notizia che bambini delle zone occupate dagli Alleati venivano presi e spediti in Russia per essere allevati come fedelissimi del comunismo. Si ripeteva cioè la stessa storia dei giannizzeri, che erano bambini cristiani rapiti alle famiglie e allevati nelle caserme dei turchi e nella fede di Allah. L’URSS spaventava anche perché era immensa, e sparire nel suo territorio sterminato era non solo possibile, ma addirittura probabile. Forse gli scomparsi finivano davvero così, lassù. Ma se uno aveva le mani sporche perché non lo processavano regolarmente? Invece alcuni di quelli che erano stati fascisti adesso non avevano proprio niente da temere, perché s’erano fatti comunisti accesi, passionali e intransigenti.
Tra costoro non erano soltanto i soliti mutabandiera, che sono sempre esistiti, e stanno in eterno dalla parte di chi vince. V’erano anche molti diventati tali per convinzione profonda, perché gli uomini seguono sempre l’onda della storia, che è il dio dei nostri tempi, ha sempre ragione ed esercita su di loro un’enorme attrattiva. Gli scomparsi pareva avessero oltrepassato la soglia misteriosa dell’altro mondo, a giudicare da come se ne parlava. La gente cercava con ostinazione di dimostrare a se stessa che gli scomparsi avevano qualcosa sulla coscienza, perché altrimenti non sarebbero stati sequestrati. Per brutale che fosse la procedura, essa aveva, doveva avere, qualche basamento e qualche motivazione, perché gli umizzani, come tutti gli uomini di questo mondo, avevano bisogno di capire e di dare una spiegazione al fenomeno degli scomparsi. Non potevano accettare l’idea che i rapimenti e le sparizioni avvenissero senza alcun principio di causa e di responsabilità. In genere gli slavi dicevano che gli scomparsi erano dei fascisti.
La parola “fascismo” era una specie di arma universale per colpire chiunque, un’accusa generica a vastissimo orizzonte. Chi non era filoslavo e di sinistra diventava, automaticamente, uno sporco nazionalista. Per mettersi al riparo da questa accusa bisognava passare nel grande ovile comunista, che accettava subito a braccia aperte tutti i ravveduti. Infatti ex gerarchi giravano armati e frequentavano i luoghi del potere, il municipio, l’ex dopolavoro, la kulturnj dom, e così via.
Forse i sequestrati avevano delle colpe segrete, sconosciute a tutti, per esempio avevano fatto le spie durante la guerra, o i profittatori, o il mercato nero, affamando la gente, o comunque si erano macchiati di qualche colpa grossolana e volgare. Pensando a queste cose, tutti erano convinti di avere razionalizzato il fenomeno delle sparizioni. Ma ogni volta che se ne verificava un’altra ci si rendeva conto che non era così. Sempre i conoscenti, gli amici e i parenti dello scomparso cadevano dalle nuvole, perché il sequestro non aveva alcuna motivazione fondata. Scomparve un giovane che aveva occupato e presidiato Lubiana, e allora la gente sussurrò che in questo caso il motivo c’era, chiaro e sonoro, anche se il poveraccio era stato obbligato a fare il servizio militare. Ma poi scomparve anche uno che aveva fatto il partigiano assieme agli sloveni, nel Nono Corpus. Sparì un anziano di Pisino che aveva avuto due figli morti nei campi di concentramento tedeschi. E allora? Perché? Per quale misterioso motivo lo avevano rapito? Sembrava di dover concludere che si trattava di una sorta d’inaudito gioco dell’oca. A chi toccava toccava, come la peste nei Promessi sposi. Era come se gli scomparsi fossero stati colpiti da una malattia segreta, o come se contro di loro agisse un tribunale oscuro, che emetteva inappellabili ed enigmatiche sentenze.
Finché spariva gente di città o cittadine lontane, come Koper o Rijeka, la cosa non fece troppa impressione su quelli di Umizza. Molta più paura ci fu quando toccò a gente conosciuta, amici di Milan, Benedetto o Maddalena. Era un modo per spaventare mortalmente le persone, perché fossero spinte a prendere la decisione di andarsene, per sgretolare e disarticolare la patria istriana? Perché l’opposizione al mondo slavo fosse distrutta? Molti infatti, anche di quelli che avevano un nome slavo, o parlavano l’istrocroato, cominciarono a sentire nell’intimo resistenze sempre più dure verso la slavizzazione dell’Istria. Continuava la modificazione dei nomi italiani, scolpiti sulle pietre tombali, o la loro distruzione all’interno delle chiese.
Si seppe che la chiesa di un paese era stata bruciata e il parroco fucilato, con l’accusa che era stato dalla parte di Ante Pavelič e degli ustascia cavatori di occhi. Nessuno ci credette. Cose simili a queste venivano dette su tutti quelli che sparivano, ma possedevano uno spessore molto basso di credibilità, ed erano infatti voci che subito cadevano e avvizzivano, perché la gente non le alimentava con il proprio sostegno.
Era vera per contro una cosa ben diversa, ossia che i preti venivano trattati dall’autorità come persone sospette, dato che non prendevano parte al processo di produzione. Tutti dovevano lavorare perché i parassiti erano i peggiori nemici del popolo. I preti non producevano nulla, soltanto chiacchiere e superstizione, e perciò non avevano diritti di nessun genere. Non erano né operai, né contadini, né artigiani, né impiegati, erano un genere sospetto e carico di ambiguità. L’autorità tornava a dire sempre questa cosa, in modi martellanti. Le sottane nere dei preti servivano in realtà a nascondere una natura profonda di fannulloni e oziosi, che si facevano mantenere dai fedeli.
Anche don Urbano fu considerato nemico del popolo. Qualcuno del partito veniva sempre a sentire le sue prediche per ricavare dalle sue parole allusioni contrarie al nuovo corso, a Tito e al comunismo, perché in questo caso si poteva accusarlo di attività antinazionali. In tutte le circostanze venivano messi in evidenza i pericoli del nazionalismo e del revanchismo italiano, che di fascismo si nutriva. Si parlava sempre di Trieste come di una preda sfuggita alla Jugoslavia per l’ingenuità degli slavi, si denunciavano l’aggressività del nazionalismo italiano e il mezzo tradimento degli Alleati, che presto avevano abbandonato gli amici slavi per schierarsi dalla parte dello sciovinismo di Roma, che era endemico, e quindi mai distrutto radicalmente.
Neppure il confine dell’Isonzo era stato rispettato, e la linea di demarcazione passava alla periferia di Gorizia. Ma Gorizia era città slava, il nome stesso lo diceva, perché Gorizia, ossia Gòrica, in slavo voleva dire collina.
Anche la perdita del Friuli era un furto deprecabile, perché anche lì v’erano molti slavi nelle valla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La foiba grande
  4. I. La peste
  5. II. Il vuoto
  6. III. Il forno
  7. IV. Vlado
  8. V. La patria
  9. VI. Il sosia
  10. VII. Le soldatesse
  11. VIII. Contrabbando
  12. IX. Il ribaltòn
  13. X. I trenta denari
  14. XI. I trampoli
  15. XII. O Francia o Spagna
  16. XIII. Il risveglio
  17. XIV. I cetacei
  18. XV. I vestiti
  19. XVI. L’esodo
  20. XVII. Il calendario
  21. XVIII. I fantasmi
  22. XIX. Il piano
  23. XX. L’addio
  24. Postfazione. di Gianni Oliva
  25. Copyright