Suono universale
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Suono universale

La mia vita

  1. 480 pagine
  2. Italian
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Nel 1967, al Fillmore Auditorium di San Francisco, solo qualche settimana dopo l'Estate dell'Amore, un giovane chitarrista messicano suonò un travolgente assolo che annunciava l'arrivo di un prodigioso talento musicale. Due anni più tardi, grazie allo storico concerto di Woodstock, il mondo conobbe Carlos Santana, il suono inconfondibile della sua chitarra e il gruppo che fondeva il blues elettrico con il rock psichedelico, la musica latina e il jazz moderno. Quel gruppo porta ancora oggi il suo nome. Nato in Messico e fuggito a San Francisco ancora adolescente, la sua vita è un susseguirsi di ricerche e scoperte, che lo portano sempre più vicino ai più grandi bluesman del suo tempo. Seguace appassionato di John Coltrane, fedele amico di Miles Davis, tra i suoi punti di riferimento ci sono tutti i numeri Uno: B.B. King e Otis Rush, Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan; Gábor Szabó, Bola Sete e Wes Montgomery. Sono i custodi della fiamma sacra della musica, i profeti di quello che per Coltrane era l'Amore Supremo, e che Santana definisce il Suono Universale: «Ogni giorno mi sforzo di usare la mia chitarra e la mia musica per invitare le persone a riconoscere l'essenza divina e la luce che sono nel loro dna. Il Suono Universale è al di fuori di me, e tuttavia mi attraversa. Non sono io a crearlo. Faccio solo in modo di non sbarrargli la strada». In queste pagine Carlos Santana si racconta per la prima volta offrendoci un appassionante percorso tra le pieghe della sua vita familiare e le ascese del suo percorso a un tempo musicale e spirituale. Ne scaturisce un viaggio multiforme negli anni più significativi della musica contemporanea, raccontati con intimità e freschezza, umiltà e riconoscenza verso tutti gli artisti che hanno lasciato un'impronta nella sua formazione, di musicista e di uomo. Perché, per Santana, essere una rockstar significa essere uno strumento di pace.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852057533

Capitolo 1

In senso orario dall’alto a sinistra, Irma, Laura, Tony, io, Leticia e Jorge ad Autlán, 1952.
In senso orario dall’alto a sinistra, Irma, Laura, Tony, io, Leticia e Jorge ad Autlán, 1952.
Maria, 1959.
Maria, 1959.
Credo di essere cresciuto con gli angeli. Credo nel regno invisibile. Anche quando ero isolato, non ero mai solo. Questa è stata la mia fortuna. C’era sempre qualcuno accanto a me, che mi guardava o mi parlava, che faceva qualcosa al momento giusto. Ho avuto maestri e guide: alcuni di loro mi hanno aiutato a procedere lungo il cammino. Altri mi hanno salvato dal baratro. Quando contemplo il vortice di avvenimenti della mia vita, mi pare incredibile che l’intervento angelico sia arrivato tanto spesso, e tramite tante persone. Questo libro deve loro la sua stessa esistenza ed è stato scritto per esprimere la mia gratitudine nei loro confronti. Parla degli angeli che sono entrati nella mia vita nel momento in cui ne avevo più bisogno.
Bill Graham, Clive Davis e il mio professore di disegno delle superiori, il signor Knudsen. Yvonne e Linda, due compagne delle medie che seppero accettarmi e mi aiutarono con l’inglese. Stan e Ron, due amici che lasciarono il lavoro per aiutarmi a mettere su un gruppo. Il conducente d’autobus di San Francisco che, vedendomi con la chitarra, mi fece sedere accanto a sé per attraversare senza problemi una zona pericolosa della città. I musicisti con cui ho suonato che sono stati i miei mentori: Armando, Gábor e molti, molti altri. Le mie sorelle e i miei fratelli, che mi hanno aiutato a crescere. I miei tre splendidi figli, che sono molto saggi e adesso sono i miei maestri. Mia madre e mio padre. La mia meravigliosa moglie, Cindy.
Credo che il mondo angelico possa manifestarsi in chiunque e in ogni momento, o al momento giusto, se si sposta la manopola della propria radio spirituale sulla giusta frequenza e la si tiene lì. Affinché questo possa avvenire, bisogna evitare di creare interferenze, sottrarsi alle razionalizzazioni dell’ego.
La gente può cambiare il proprio modo di vedere le cose modificando il proprio modo di pensare. Credo che le persone diano il meglio quando cambiano direzione. Troppo spesso la gente resta prigioniera della propria storia. Il mio consiglio è di concludere la vostra storia e iniziare la vostra vita.
Quando ero bambino, a casa nostra erano in due a chiamarsi Josefina. Una era mia madre, l’altra era Josefina Cesena, la chiamavamo la nostra Chepa. Era meticcia, di sangue in prevalenza indio. Chepa era la nostra domestica, ma in pratica era un membro della famiglia. Cucinava, cuciva e aiutava mia madre a crescere noi ragazzi. Era lì da prima che nascessi. Mi cambiava i pannolini. Quando mia madre voleva darmi una sculacciata, correvo dietro a Chepa e cercavo di nascondermi sotto la sua gonna.
Se le mamme sono incinte, le sculacciate arrivano più forti e frequenti. Da piccolo, sembrava che mia madre fosse sempre incinta, e Chepa mi protesse da parecchie punizioni. Fu anche il primo angelo a intervenire in mio favore.
La situazione della mia famiglia era già piuttosto complicata. Papà e mamma erano sposati da dieci anni, e lui doveva partire sempre più spesso per suonare la sua musica e guadagnare. Autlán non offriva sufficienti opportunità a un musicista di professione, e così cominciò a viaggiare per lavoro, restando lontano da casa per mesi. Per avere idea della cadenza di questi viaggi basta guardare i compleanni dei suoi figli. A partire dal 1941, nacque un bambino ogni due anni. I miei tre fratelli maggiori sono tutti di ottobre. I compleanni degli altri quattro, me compreso, sono a giugno, luglio e agosto.
Quando fu il mio turno, papà stabilì che un altro figlio sarebbe stato di troppo. La famiglia faticava a livello economico. «Va’ a preparare l’acqua per il tè» disse mio padre a Chepa quando scoprì che mia madre era di nuovo incinta. Poi uscì per tornare con questo sacchetto di tè tossico che avrebbe dovuto procurarle l’aborto. Non sono sicuro di quante altre volte fosse accaduto prima della mia nascita, ma so che in totale mia madre rimase incinta undici volte e perse quattro bambini. Dopo Antonio, Tony, seguito da Laura e Irma, fui il quarto a nascere.
«Fai bollire questa roba, e voglio vedergliela bere tutta» disse a Chepa. Lei sapeva però che mia madre non voleva perdere il bambino. Quando lui si voltò da un’altra parte, Chepa fece il gioco delle tre carte: sostituì quel tè con un altro. Mi salvò la vita ancor prima che venissi al mondo.
È stata mia madre a raccontarmi questa storia, e due volte. La seconda, si era dimenticata di avermela già narrata e rimase stupita quando le dissi che la conoscevo. Non dovette essere facile per lei. Riuscite a immaginare cosa si provi nel dire al proprio figlio che ha rischiato di venire abortito? O che ha rischiato di chiamarsi Geronimo?
Sono nato il 20 luglio del 1947. Mio padre voleva chiamarmi Geronimo. Per quanto mi riguarda, mi sarebbe piaciuto molto. Era per via delle sue origini indie, di cui andava fiero. Credo sia stata la prima e unica volta in cui mia madre ha puntato i piedi riguardo ai nostri nomi. Disse: «No, non è Geronimo. È Carlos». Scelse quel nome in ricordo di Carlos Barragán Orozco, morto poco tempo prima. Era un lontano cugino a cui spararono ad Autlán. Avevo la pelle chiara e le labbra carnose, e così quando ero piccolo Chepa diceva sempre: «Que trompa tan bonita», che belle labbra, e da qui il soprannome Trompudo.
Mi è capitato di veder citare il mio nome come Carlos Augusto Alvez Santana, ma chi diavolo se l’è inventato? Il mio nome di battesimo era Carlos Umberto Santana, ma in seguito ho fatto togliere il secondo nome, Umberto. Andiamo, Hubert? Ma per favore. Il mio nome divenne quindi, semplicemente, Carlos Santana.
Molti anni dopo mia madre mi disse di aver avuto una premonizione sul tipo di persona che sarei diventato. «Sapevo che saresti stato diverso dalle tue sorelle e dai tuoi fratelli. Tutti i bambini afferrano e stringono la coperta quando la madre la rimbocca. La tirano finché si ritrovano con una piccola palla di lanugine tra le manine. Gli altri miei figli avrebbero preferito farsi ammazzare piuttosto che aprire il pugno e lasciarla, e spesso si graffiavano. Ma ogni volta che cercavo di aprire la tua mano, in modo che non ti graffiassi, cedevi senza difficoltà e così capii che avevi un animo generoso.»
Ci fu un’altra premonizione. La zia di mia madre, Nina Matilda, aveva una chioma canuta, bianchissima. Andava di cittadina in cittadina a vendere gioielli come adesso si vendono i prodotti della Avon. Tra l’altro, era piuttosto in gamba: una vecchia e umile signora che si presentava alla porta e apriva tutta una serie di fazzoletti contenenti i suoi gioielli. A ogni modo, quando nacqui Nina Matilda disse a mia madre: «Questo qui è destinato ad andare lontano. El es cristalino, è cristallino. C’è una stella in lui, e migliaia di persone lo seguiranno». Mia madre pensava che sarei diventato un sacerdote o magari un cardinale o qualcosa del genere. Come si sbagliava!
Le persone mi chiedono spesso di Autlán: com’era? Era città o campagna? Rispondo loro: «Avete presente la scena del film Il tesoro della Sierra Madre in cui Humphrey Bogart è coinvolto in una sparatoria sulle colline con alcuni banditi che sostengono di essere dei federali? Ecco, uno di questi dice: “Distintivi? Non abbiamo bisogno dei dannati distintivi!”».
Autlán è così: una cittadina in una valle verde circondata da alte colline dal profilo frastagliato. In effetti è molto bella. Quando vivevo lì nei primi anni Cinquanta, aveva circa trentacinquemila abitanti. Adesso sono più o meno sessantamila. Solo di recente sono arrivati i semafori e la pavimentazione stradale. Però era più tranquilla di Cihuatlán, ed era questo che voleva mia madre.
I miei ricordi di Autlán sono quelli di un bambino. Trascorsi lì solo i primi otto anni della mia vita. All’inizio stavamo in un bel posto nel centro di quella cittadina vivace. Per me, Autlán era il suono della gente che passava con muli e carri, rumori di strada. Era il profumo dei taco, delle enchilada, del pozole e della carne asada. C’erano i chicharrón, i pitaya, che sono il frutto di un cactus, e i jicama, simili a rape grosse e succose. Ma anche i biznaga, dolci di cactus e altre piante, e gli alfajor, una specie di pan di zenzero preparato con il cocco. Mmm!
Ricordo il sapore delle arachidi che mio padre portava a casa, ancora tiepide di tostatura. Arrivava con un sacco intero e insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle le agguantavamo e le sgusciavamo, mentre lui diceva: «Bene, chi vuole sentire la storia della tigre?».
«Noi!» Ci riunivamo in soggiorno e lui raccontava una storia inventata sul momento. «Adesso si è nascosta nella boscaglia, e sta ringhiando perché ha davvero una gran fame.» Allora cominciavamo a stringerci uno all’altro. «I suoi occhi luccicano sempre più finché la senti... RUGGIRE
Era meglio della televisione. Mio padre aveva un particolare talento come narratore: la sua voce era capace di stregarci e di accendere la nostra immaginazione. Sono fortunato: già nei miei primi ricordi ritrovo l’importanza di saper raccontare a dovere una bella storia, facendola apparire vivida agli occhi degli altri. Ne fui permeato, e credo che in seguito questo mi aiutò a riflettere sull’esibizione musicale e sul modo di suonare la chitarra. Penso che i migliori musicisti siano quelli che sanno raccontare una storia, la loro musica non è solo una sfilza di note.
Ad Autlán vivemmo in diverse abitazioni, a seconda delle finanze di papà. Una si trovava su un appezzamento di terreno abbandonato tra altre case, probabilmente mio padre riuscì a ricevere un trattamento di favore grazie alle sue amicizie. La più bella assomigliava a una casa con tutti i crismi, aveva diverse stanze e un grande cortile con un pozzo funzionante. Non c’era corrente elettrica né impianto idraulico, solo candele e un gabinetto esterno. Ricordo che questa casa era più vicina delle altre al magazzino del ghiaccio. Il ghiaccio veniva conservato nella segatura per evitare che si sciogliesse, e potevamo andare lì a prenderlo in qualunque momento per portarlo a casa.
Ad Autlán e a Tijuana, e persino a San Francisco, sembrava che non avessimo mai abbastanza spazio. Di solito c’erano solo due camere da letto, cucina e soggiorno. Mamma e papà avevano sempre la propria stanza, e anche le mie sorelle ne avevano una tutta per loro, così noi maschi dormivamo sui divani o nella nostra camera se papà stava attraversando un buon periodo dal punto di vista economico.
Credo che mio padre se la stesse cavando piuttosto bene quando mise su casa ad Autlán. Tony e io, e in seguito anche Jorge, dividevamo una stanza. C’erano però dei compromessi da accettare. Il tetto era un po’ marcio, e ricordo che una sera mi stavo per addormentare quando si sentì un tonfo. Mio fratello Tony disse: «Non ti muovere: è appena caduto uno scorpione, ed è accanto a te». Un istante dopo sentii l’animale che, scappando, zampettava sul pavimento. Accidenti, mi fece davvero accapponare la pelle.
Un suono veramente bello è invece il tonfo dei manghi maturi che cadono dall’albero. Sono grandi, rossi e hanno un profumo meraviglioso. Quando giocavo nel cortile, con i suoi alberi di mango e mesquite, c’erano questi piccoli uccelli, i chachalaca, che sono un incrocio tra un piccione e un pavone. Erano loro a svegliarci al mattino, perché cantano a un volume incredibile.
Nel cortile c’era un pozzo inaridito e per qualche ragione, in un momento in cui credevo che nessuno mi stesse guardando, decisi di buttarci dentro dei pulcini. Tony mi sorprese e disse: «Ehi, cosa stai facendo?». Io, pentito, tentai di infilarmi nel pozzo per andare a riprenderli, e lui mi afferrò prima che potessi farmi del male. «Fermo! Non devi andare lì dentro, stupido. È molto profondo.» In seguito lo chiudemmo per essere sicuri che non accadesse qualcosa di brutto.
Non credo di essere stato una peste: ero solo un bambino normale, curioso. Sapevo distinguere il bene dal male. In cortile c’era un vecchio muro, e non mi ero reso conto che fosse fatiscente. Era pieno di rampicanti, e un giorno cominciai a tirarli per arrivare a prenderne i baccelli. Li aprivo in modo che i semi, ciascuno formato da un piccolo paracadute, con un dolce fruscio potessero volare via. Ne ero davvero affascinato, e così continuai a tirare i rampicanti finché una parte del muro non crollò all’improvviso e mi cascò proprio sui piedi, lacerando gli huarache che calzavo e schiacciandomi le dita.
Mi sanguinavano i piedi e avevo il terrore che mia madre mi menasse perché i sandali erano nuovi di zecca e avevo pure distrutto il muro. Tutti mi cercarono a lungo. Alla fine Chepa mi trovò nascosto sotto il letto. «Mijo, cosa stai facendo là sotto?» Non appena vide i miei piedi rimase a bocca aperta. Lo disse a mia madre, che si sentì in colpa perché avevo una tale paura di lei che la mia prima reazione era stata di scappare a nascondermi. Per fortuna almeno quella volta non mi sculacciò.
Vivere da noi significava sottostare alle regole della mamma. Era lei a imporre la disciplina, a farla rispettare. Era casa sua e ne aveva la responsabilità. Papà era quasi sempre via e lei, rimanendo sola con i figli, a volte si scaldava parecchio. Mio padre e mia madre non erano molto bravi a dimostrare affetto e a manifestare il loro amore, né tra di loro né verso di noi. Naturalmente la rispettavamo, ma non era certo una mamma tutta coccole e moine.
Ripensandoci adesso, mi rendo conto che stava imparando il mestiere di madre strada facendo, mentre si occupava di tutto quello che ci si aspetta da una mamma, e che a sua volta papà stava imparando il mestiere di padre e di marito. I miei genitori fecero del proprio meglio, data la situazione e le loro origini. Non avevano ricevuto un’istruzione scolastica. Non so neppure come avessero imparato a leggere e a scrivere. Ci insegnarono, per esempio, che bisogna trovare la propria strada da soli. «Forse non siamo messi tanto bene quanto a soldi e istruzione, ma non saremo mai ignoranti, sporchi o pigri.»
La mamma possedeva un fascino discreto. Era alta e aveva uno stile elegante senza essere pacchiano. Non le piacevano le cose stravaganti, ma non metteva mai qualcosa che le desse un’aria dozzinale o disperata. Noi ragazzi notavamo il suo portamento: camminava in modo diverso dalla maggior parte delle altre donne. Anche nei periodi di grande povertà, si capiva che aveva ricevuto una certa educazione, una sorta di privilegio.
Aveva un sistema con noi bambini: fin dalla più tenera età ciascuno aveva una mansione da svolgere. «Oggi voi due pulirete i letti e il pavimento, voi due invece vi occuperete dei piatti e laverete le pentole e le padelle. Domani vi scambierete i compiti. E quando spazzate a terra voglio vedervi raddrizzare la schiena e farla assomigliare a quella scopa: dritta. Dovete mettervi d’impegno, non accontentatevi di spostare il sudiciume in giro; fatelo sparire. Quando strofinate la tavola da pranzo, non limitatevi a spalmare la sporcizia, dovete eliminarla. Prendete un asciugamano caldo, molto caldo, in modo che il vapore uccida tutti i germi. Non voglio neppure un’ombra di mugre, di lerciume. Siamo poveri, ma non poveri da far schifo. Nessuno metterà in imbarazzo la famiglia, né disonorerà il nome dei Santana.»
Era incredibile. Capiva sempre se ci mettevamo d’impegno davvero, e in caso contrario, pum!, le buscavamo. Adesso capiamo il senso di questo atteggiamen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Suono Universale
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Capitolo 21
  26. Capitolo 22
  27. Capitolo 23
  28. Capitolo 24
  29. Postfazione
  30. Ringraziamenti
  31. Inserto fotografico
  32. Copyright