Caporetto
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Caporetto

24 ottobre - 12 novembre 1917: storia della più grande disfatta dell'esercito italiano

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Caporetto

24 ottobre - 12 novembre 1917: storia della più grande disfatta dell'esercito italiano

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La battaglia di Caporetto è diventata simbolo di disfatta nel linguaggio comune: la principale sconfitta dell'esercito italiano nella storia causò migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, oltre a una quantità incredibile di prigionieri e sfollati.

Il disastro fu l'effetto della mancanza di un piano strategico dei vertici militari, le cui conseguenze furono gravose: la ritirata, la pesante occupazione del Friuli e del Veneto e la violenza sulle donne, l'esodo della popolazione locale, il grave problema dei prigionieri italiani lasciati a morire nei lager dell'impero, il rientro in patria dei superstiti e l'ostruzionismo nei loro confronti, il doloroso recupero delle salme. «I soldati hanno mollato» si sostenne al comando vedendo la falla aperta e la disfatta profilarsi. Cadorna telegrafò al ministro della Guerra affibbiando la responsabilità della sconfitta a «dieci reggimenti arresisi senza combattere». Ma non era vero: con pesanti sacrifici umani molti soldati resistettero, permettendo ad altri la ritirata. Al di là dei nomi dei reparti, si trattava di uomini in carne e ossa, giovani e meno giovani, persone sposate o piene di sogni, che lasciarono la loro vita sul terreno di battaglia per salvarne altre.

In occasione del centenario della battaglia di Caporetto, Arrigo Petacco e Marco Ferrari raccontano in un saggio storico, che è anche un inedito reportage sui luoghi dello scontro, l'assurdità dell'atteggiamento italiano, gli errori degli alti comandi, la disumana vita di trincea, il massacro di migliaia di contadini analfabeti, le esecuzioni sommarie della nostra truppa e la disordinata e scomposta rotta.

E ci spiegano che Caporetto non esiste, è solo un'invenzione italiana durata qualche decennio. La Caporetto finita nei libri di storia si chiama in realtà Kobarid e lì un esercito di collezionisti ancora oggi estrae dalle trincee e dalle caverne il materiale usato dai soldati sui due fronti. La cittadina slovena è infatti ricca di piccoli musei, collezioni private, le trincee sono state recuperate, i viaggi nella memoria di discendenti di soldati sono costanti. Riemergono così in tutta la loro drammaticità storie individuali e collettive di una guerra che ancora parla, e si presenta con le sue atrocità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852082153
Argomento
Storia
II

LA DISFATTA

Economia di guerra

Quando l’Italia decise di affiancare le nazioni dell’Intesa nel maggio 1915 non era preparata per un sforzo bellico così impegnativo. Gran parte dell’opinione pubblica avrebbe preferito restare fuori dal conflitto scoppiato nell’agosto 1914. Una scelta che sovvertì il precedente trattato stipulato con Austria e Germania nel 1882. Tanto più che nel marzo 1914 Giovanni Giolitti aveva dovuto passare la mano ad Antonio Salandra, a capo di una coalizione conservatrice, costituita da cattolici moderati e liberali, uscita vincitrice dalle prime elezioni a suffragio universale maschile. A spingere l’Italia verso l’intervento erano stati i nazionalisti, che intuivano l’opportunità storica di sedere finalmente al tavolo delle grandi potenze per consolidare l’espansione coloniale dopo la vittoria in Libia a danno della Turchia.
Pulsioni risorgimentali antiaustriache contribuivano poi a sollevare argomenti come l’allargamento dei confini nazionali. Prima di tutto scottava ancora la questione di Trento e Trieste, aree irredentiste che agognavano a unirsi alla penisola, sulle quali pesava una trattativa con l’Austria che non andava mai a buon fine, in cambio di ipotesi non interventistiche. L’Italia si sentiva, dunque, un paese ancora da completare portando a termine il disegno dei padri della patria.
Le ripercussioni della guerra si ebbero subito sul piano economico, poiché l’Italia aveva un forte disavanzo nella bilancia dei pagamenti. Le importazioni ebbero rialzi da febbre per l’aumento delle spese di trasporto, specialmente di quello marittimo. Dal mondo occidentale provenivano poi le principali materie prime di cui l’industria italiana necessitava. Inoltre l’economia di casa nostra – che pure esportava il 22 per cento della produzione tra Germania e Impero austro-ungarico – non amava la competizione con quella tedesca che era la più solida del continente, aiutata anche da alcune banche italiane, come la Commerciale di Milano, temendo un assorbimento progressivo. Quando la macchina bellica scattò, il governo riuscì a bloccare i prelievi in banca dei privati cittadini e a incentivare la produzione industriale.
Si credeva – a torto – che la guerra sarebbe durata un solo inverno. Ciò avrebbe consentito alle nostre industrie pesanti di reggere il raggelante confronto col colosso tedesco che aveva ritmi produttivi ben più elevati. Ma la situazione del paese era al collasso dopo il salasso della guerra di Libia e non consentiva grandi margini di manovra per un’economia ancora dipendente dalle materie prime provenienti dall’estero. Inoltre anche la situazione delle forze armate non era delle migliori, con un numero ristretto di ufficiali di carriera ai quale spettava il compito di addestrare in tutta fretta migliaia di reclute da spedire subito in prima linea, secondo il principio di una massa d’urto imponente che andasse a compensare le carenze del sistema economico. La macchina bellica, poi, non era rodata poiché gli italiani avevano appena ripreso a combattere in Libia e l’esercito era poco addestrato e regolato da vecchie leggi. Quanto agli armamenti, anche quelli erano acquistati da esercito e marina da aziende straniere, magari dotate di succursali nella penisola. Alcuni prototipi erano stati realizzati, ma alla fine non si era arrivati a una produzione piena nelle industrie italiane.
L’esercito italiano, in seguito anche alle sconfitte in Africa, era sotto osservazione e anche il ceto politico non aveva un’alta considerazione di quello militare verso il quale nutriva, nel migliore dei casi, una certa indifferenza. A questo atteggiamento faceva da riscontro l’autonomia dei vertici militari italiani rispetto al governo e al Parlamento. In questo modo, quando l’Italia entrò in guerra il potere politico non ebbe alcuna ingerenza negli affari militari.
Quando scattò l’impegno bellico l’Italia non solo, come abbiamo visto, era del tutto inadeguata sul piano economico, ma soprattutto non era dotata di un sistema efficace per colmare i deficit nei confronti degli altri paesi belligeranti che già avevano in piedi una macchina collaudata ed efficace e un sistema sociale capace di reggere un confronto di quel tipo. Fu avviato un apparato industriale-militare in grado di sostentare l’enorme richiesta di materiale di cui l’esercito italiano aveva bisogno. E venne creato un sottosegretariato apposito, che si trasformerà poi in ministero, dedicato alle Armi e munizioni sotto la direzione del generale Alfredo Dallolio, il quale però agiva praticamente da solo, senza il necessario coordinamento con i soggetti interessati, così che l’apparato industriale subiva sollecitazioni continue, prive di programmazione e regolamentazione.
L’operazione fu definita «Mobilitazione industriale per la guerra», basata su un sistema privato d’impresa molto ridotto rispetto a quello degli altri Stati belligeranti. La regia toccò allo Stato che ordinava le commesse, controllava le maestranze sottoposte alla giurisdizione militare, decideva i quantitativi delle produzioni e le fabbriche che le avrebbero attuate. Lo stato di emergenza portava il governo a gestire l’intero ciclo bellico, dalla produzione al consumo in guerra, coperto con nuove entrate tributarie, forte indebitamento pubblico ed emissione di banconote al di fuori delle norme di contabilità statale.
Ad avvantaggiarsene furono le aziende dei settori siderurgico, meccanico, metalmeccanico, energetico, chimico, estrattivo, ma anche dell’approvvigionamento alimentare e del tessile. Non si badava ai prezzi né si negavano lauti anticipi sia alle imprese che alle ditte appaltatrici. Non a caso, a guerra terminata fu necessario istituire una Commissione d’inchiesta per controllare tutta l’operazione bellica. Le industrie coinvolte nella produzione finiranno sostanzialmente per segnare tutto il Novecento italiano, dalla Fiat all’Ilva, dalla Breda alla Edison, dalla Montecatini all’Ansaldo. Oltre a un consistente aumento delle commesse, si contava sulla futura spartizione del bottino di guerra e sulla ricostruzione delle zone devastate dal conflitto, compresi i territori delle nazioni sconfitte. Di fatto, lo stato di guerra incise per il 26 per cento sulle ricchezze nazionali italiane, un po’ meno di Francia e Gran Bretagna che superarono il 30 per cento. Ma soprattutto la guerra bloccò l’emigrazione italiana verso l’estero che all’epoca era molto elevata e di conseguenza limitò le rimesse degli emigrati che avevano finanziato non poco lo sviluppo della nuova Italia.

Gli italiani al fronte

Di quella guerra iniziata nel 1914, che noi italiani individuiamo come ’15-18, non ci sono grandi eroi nazionali, a parte Enrico Toti, Nazario Sauro, Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi, Francesco Baracca e pochi altri. Resta invece un termine per antonomasia negativo e nefasto: Caporetto. Ognuno di noi ha avuto la propria Caporetto negli affetti, nel lavoro, nella vita. La disfatta che non ti aspetti. Quindi gli eroi veri di quella Grande Guerra furono in buona parte anonimi: uomini morti nelle trincee, sui reticolati, in attacchi forsennati e frontali, massacrati dal gas o dalle bombe. Uccisi per mano amica come hanno raccontato poi tanti reduci: gente che non sopportava di andare al macello per nulla, per conquistare una buca o una trincea, per far avanzare la linea di difesa di qualche metro. Spesso si camminava su prati di cadaveri, specialmente nelle notti buie. Gente finita davanti al plotone di esecuzione per insubordinazione, insurrezione, sciopero, fuga o per puro caso.
Gli italiani partirono per il fronte alpino sicuri che avrebbero fatto una guerra lampo, anche se per disporsi alla frontiera con l’Impero austro-ungarico impiegarono quarantatré giorni, utilizzando settemila convogli ferroviari che rallentarono molto le operazioni. Gli austriaci si stupirono persino del fatto che gli italiani non approfittassero di confini poco difesi, visto che i loro soldati erano impegnati su altri fronti, in particolare quello russo. L’esercito regio non aveva armi appropriate, divise idonee, portava sulla testa un chepì e scarpe leggere. Gran parte dei componenti non avevano mai combattuto né tenuto un fucile in mano, piuttosto forconi o falci. Sentivano impartire ordini che non capivano in una lingua a loro sconosciuta, visto che erano analfabeti e si esprimevano solo in dialetto. Non sapevano dove stavano andando e dove sarebbero finiti. Intuirono solo che non sarebbero arrivati trionfalmente a Trieste, come promesso dai vertici militari. Quando entrarono nella valle dell’Isonzo capirono che si trovavano all’estero, ma non sapevano leggere e interpretare i cartelli stradali e le carte geografiche. Appena fecero la conoscenza con la trincea la considerarono subito uno strumento di carneficina. Ai primi assalti, come a Podgora, morirono come cavallette falcidiati dalle mitragliatrici.
Trattandosi della prima guerra totale, in cui nove milioni di uomini perirono sui campi di battaglia, i riflessi sulla vita civile furono eclatanti. Anzi, le modalità belliche furono spesso indirizzate ad aggravare la vita quotidiana dei semplici cittadini. A farne le spese furono soprattutto le popolazioni interessate dalle occupazioni militari che subirono massacri, stupri, limitazioni di libertà, arresti di massa, deportazioni e allontanamenti. Su entrambi i fronti queste popolazioni persero di colpo tutte le libertà civili essendo assoggettate a giurisdizione militare, ma persero anche case, risorse, abitudini, affetti, sicurezze. Furono depredate e ridotte alla fame, spesso obbligate al lavoro forzato. Chi tentava la fuga, poi, incorreva in rigide sanzioni, sino all’arresto o alla fucilazione. Nel caso di sconfitte militari, gli occupanti attuavano subito azioni di rappresaglia o di carcerazione. Più in generale si assistette a una riduzione delle differenze tra combattenti e civili: questi ultimi ebbero a subire un taglio di risorse alimentari proprio per foraggiare gli uomini al fronte. Se ciò vale per la popolazione del proprio Stato, si può bene capire le condizioni in cui visse la popolazione nemica, sottoposta a una sfibrante distruzione morale ed economica. Per esempio, un fenomeno a cui si ricorse fu quello del blocco navale o degli attacchi ai convogli marittimi che impediva il rifornimento di materie prime oppure quello del bombardamento. Aerei e sommergibili furono infatti le vere novità belliche della Prima guerra mondiale.

Vita in trincea

Quando gli italiani entrarono in guerra si trovarono a dover difendere un fronte di 640 chilometri con l’Impero austro-ungarico. Ma tra vette, discese, strapiombi, pianure e fiumi il fronte si sviluppava su tre linee che portavano i chilometri fortificati a circa duemila. Lo stesso avevano fatto gli austriaci. E così sul fronte erano operativi quattromila chilometri di trincee a cui vanno aggiunti le mulattiere, i sentieri, le strade, le teleferiche, le funivie. Era un paesaggio alpino in cui dovevano vivere uomini provenienti da tutta Italia, dal Nord al Sud, dalle isole alle grandi città. Gente che non aveva mai combattuto, visto che l’Italia non era in guerra da quarant’anni, escluse le esperienze coloniali. Su quelle montagne carsiche gli italiani, sia militari che civili, in gran parte davanti alle Alpi per la prima volta nella vita, costruirono la loro Grande Muraglia abbandonando quella che, storicamente, fronteggiava i francesi sull’altro lato alpino. Tra montagne innevate e fiumi straripanti d’acqua, spesso ad altezza superiore ai duemila metri, nacque e si sviluppò una civiltà militare, non stabile ma mobile, a seconda degli esiti delle battaglie.
Ma soprattutto la trincea diventò un’officina della morte con gli uomini inchiodati agli sbarramenti, ai camminamenti, alle garitte, pochi metri in cui proliferarono malattie di ogni genere, in cui si convisse con i parassiti che impregnavano la pelle, i capelli e gli abiti, in cui si viveva nel fango, con i piedi nell’erba bagnata, in cui si moriva senza sparare un colpo, vittime di bombe e gas, schegge o colpi di cecchini.
Gli scavamenti erano fossi adatti ai rospi, buche dove la paglia ammuffiva subito, dove l’acqua scorreva mischiandosi agli escrementi e ai rifiuti, in cui forti odori di disinfettante si univano all’odore della morte.
Con l’acqua o la neve nei fossi, anche la pagnotta ammuffiva. Ai soldati era consentito solo bere, specie prima di un attacco, alcol e grappa per farsi coraggio e andare incontro alla morte.
Per gli italiani, che hanno impostato fin dall’inizio una guerra d’azione offensiva, la trincea divenne il risultato delle sconfitte. Non andando avanti, si era costretti a fermarsi. Non sfondando le trincee nemiche, se ne crearono di identiche. In quel ciclo del fuoco, formato da tre livelli di sbarramento, gli italiani mandati allo sbaraglio maturarono pian piano l’idea della morte ineludibile, non della morte bella, come propagandavano gli interventisti. Soprattutto per chi andava di turno nella prima linea, nelle trincee di punta, a due passi dal filo spinato. Ma la morte era sempre presente in trincea: tra le due linee nemiche vi erano corpi abbandonati, cadaveri che si decomponevano, ex uomini riversi nella fanghiglia come rifiuti abbandonati. I morti non potevano essere sepolti. Per farlo avrebbero dovuto sacrificarsi altri uomini in un massacro senza fine. Il terreno tra le due trincee opposte era quasi sempre disseminato di esseri umani senza vita. Avanzando e indietreggiando spesso i soldati capitavano in buche, trincee e camminamenti dove si trovavano solo spoglie putrefatte e maleodoranti, indurite nel tempo, becchettate dagli uccelli, dilaniate dai topi, non trasportabili, non sradicabili. Talvolta i soldati facevano un sforzo comune per buttare fuori dalle buche i cadaveri sperando di non essere visti dal nemico che orientava proprio là il tiro intuendo la presenza di soldati avversari.
Jeza, monte Nero, monte Rosso, San Michele, Bainsizza diventarono nomi di luoghi in cui si viveva in buche di un metro, in cui si stava fermi, immobili, silenziosi, in cui se si lanciava una scatoletta fuori dalla trincea questa veniva fulminata dai cecchini. Come ha scritto il tenente Mario Muccini, del 147o reggimento della brigata Caltanissetta, che si trovò sul famigerato Mrzli Vrh dal gennaio 1917 fino alla battaglia finale, nessuno comprendeva i militari in trincea, né gli «imboscati» nelle baracche né l’opinione pubblica e neppure i famigliari lontani. Erano uomini abbandonati a loro stessi, in un altro mondo chiamato campo di battaglia. Erano diventati solo piccoli puntini disseminati in quadrati colorati sulle carte geografiche dei generali.
Uscire di lì, talvolta, appariva quasi una liberazione, anche a rischio di perdere la vita. Si gridava «Avanti Savoia!» e si correva verso la morte sicura. Ma prima bisognava tagliare i reticolati, all’inizio della guerra con le cesoie portate da casa, poi con la gelatina che faceva esplodere i paletti di sostegno. I reticolati e i cavalli di Frisia sterminarono decine di plotoni e squadre lanciati allo sbaraglio. Si moriva in trincea ma anche nelle mulattiere e nei sentieri che salgono alle vette, dove il terreno si sgretolava, le slavine arrivavano improvvise sulle colonne di uomini che portavano in spalla i viveri o spingevano le artiglierie.
L’inverno era rigido a quelle latitudini, il freddo uccideva, ma anche il disgelo faceva male, soprattutto ai soldati del Mezzogiorno d’Italia: fermi per giorni in trincee sfondate e con gli scoli per le acque guasti, con la pioggia gelida, subivano il congelamento degli arti inferiori, andando incontro alle amputazioni, come ci raccontano molti diari di guerra.
Ma la trincea diventava anche il luogo del ricordo. Si rimpiangeva il clima della famiglia, della casa, del paese, della piazza, del bar. La trincea era attraversata da sensazioni di odori lontani, quello del cibo, prima di tutto, odori di sughi e pasta, di carne e pesce cucinati, di frutta fresca e dolci, di deschi domenicali imbanditi. Se prima si emigrava senza biglietto di ritorno per le Americhe, in quegli anni si emigrava per la guerra, anche in questo caso senza essere sicuri del rientro. Anzi, con il timore di non rientrare mai più, trafitti da fuoco nemico o amico, oppure mutilati per sempre. Infatti, più che la morte diretta, si temeva di finire sotto i ferri dei chirurghi di guerra e di fare ritorno a casa in condizioni fisiche menomate, senza gambe, senza braccia, sordi o ciechi. Gli uomini adulti sentivano questo peso: più che rientrare per sfamare i figli, sarebbero tornati senza più essere in grado di lavorare, divenendo loro stessi un fardello per la famiglia.
Ci si aggrappava agli affetti lontani per sentirsi vivi. La trincea diventava così un enorme e inconsolabile scrittoio. Da qui partirono circa quattro miliardi di lettere, novantacinque milioni al mese, tre milioni al giorno. Erano scritte di pugno dagli alfabetizzati oppure dettate dagli analfabeti a compagni che sapevano leggere e scrivere. Una mole impressionante di frasi, di cui molte cassate dalle strisce nere della censura. Su ogni fronte, infatti, i censori passavano il tempo a leggere tutto ciò che usciva da quei pochi metri in cui si accalcavano gli italiani. Dalle trincee non doveva uscire la verità su cosa significasse stare a pochi metri dalla morte, uscire allo scoperto per conquistare metro dopo metro dell’inutile terreno perdendo i compagni che pochi secondi prima stavano lì, accanto a chi era rimasto vivo. I soldati erano come foglie secche al vento che cadevano a terra: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi /le foglie» scrisse Giuseppe Ungaretti soldato.
I battaglioni erano decimati e subito ricostituiti, con altri ragazzi e adulti che venivano dalle retrovie e facevano per la prima volta la conoscenza con la terrificante condizione di vita della trincea che spesso portava alla pazzia o allo straniamento.
Ma di un massacro di uomini si incominciò a parlare soltanto quando si spense la bizzarra idea di una guerra lampo, la cosiddetta «passeggiata su Vienna»: nei primi sette mesi l’esercito italiano perdette 200.000 uomini, quasi un terzo del totale. Lo sfondamento strategico non si era verificato. Le prime conquiste, come Kobarid che diventa Caporetto, sono state effimere, favorite solo dal ritiro austro-ungarico. La guerra di trincea si aggraverà poi diventando guerra chimica, la morte sottile si stenderà nelle trincee tra grida strozzate e occhi pieni di paura. Quando le vedette annunciavano le bombe al gas, lo facevano con un urlo che non aveva nulla di umano. Le maschere spesso erano insufficienti e i militi se le contendevano. Altrimenti, come nei giorni di Caporetto, erano inadeguate alle nuove formule chimiche adottate dai tedeschi. Si moriva contorcendosi, tossendo, starnutendo, spesso picchiando la testa sui sassi per farla subito finita. Una nebbia velenosa si stendeva sulle trincee aggiungendosi all’uragano di ferro e fuoco. La prima linea diventava sinonimo di morte certa.
Ma qui si inventò anche un sistema di vita, un modo di arrangiarsi, di passare ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CAPORETTO
  4. INTRODUZIONE
  5. I. CAPORETTO NON ESISTE
  6. II. LA DISFATTA
  7. III. DOPO IL DISASTRO
  8. EPILOGO
  9. Copyright