Me tapiro
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Me tapiro

  1. 252 pagine
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Informazioni sul libro

Antonio Ricci ha scoperto di essere un comico a tre anni, grazie a una caramella andata di traverso e al drastico sistema per fargliela sputare, in una "scena primaria" di assoluta e involontaria comicità. Se fosse morto soffocato non avremmo "Striscia la notizia", "Drive in", "Paperissima", le veline e le velone, il Gabibbo e il tapiro. Ci saremmo persi più di trent'anni di risate, un imprinting di ironia e buonumore che ha accompagnato con leggerezza la vita di tutti noi.

Il libro racconta gli anni della formazione (la scuola dalle suore, le bacchettate sulle dita, le prime ribellioni all'autorità costituita), poi gli anni dell'impegno (a divertirsi e a divertire), le beffe, gli scherzi atroci, la scoperta di compagni di risata come Beppe Grillo e Fabrizio de André, in un perenne cabaret che, nel caso di Ricci, alla fine diventa un mestiere.

Racconta anche il mondo dorato della televisione, spifferandone ghiotti retroscena e bersagliando i suoi protagonisti con una ferocia satirica proporzionale alla loro popolarità. Come un Giamburrasca munito di cerbottana o di fionda, Ricci spara proiettili a destra e a sinistra, soprattutto alla sedicente sinistra, smascherando conformismi e ipocrisie. "Striscia la notizia", la sua creatura più sorprendente, record assoluto di longevità e di ascolti, è un programma di satira, e la satira non è corretta, non è compiacente, attacca anche gli amici e non ha paura dei nemici.

Una vita non proprio di tutto riposo, ma che Ricci vive con imperturbabile serenità. Forse anche grazie al suo essere un caso clinico di bipolarismo: le sue trasmissioni sono le più viste, ma lui è l'uomo più schivo della tv, è un impavido collezionista di cause (tutte vinte) ma anche di piante rare, che cura con passione maniacale. Forse è questo che da più di trent'anni gli permette di sopravvivere nella sua personale trincea. La satira è il mestiere che si è scelto, ma leggendo questo libro si capisce anche che era il suo destino.

Ma Me Tapiro non è tanto (o non solo) un'autobiografia. Nella seconda parte, ispirata dalle domande del giornalista Luigi Galella, diventa un piccolo trattato sulla tv, su chi la fa e su chi la guarda, una lezione magistrale sulla nostra società dell'apparire.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852083662

IL PRINCIPE

Popolo Principe

Chi è il vero “Principe” nel mondo d’oggi?
Scusa, sei stato male stanotte?
Perché?
Non è mica normale che uno arrivi la mattina e impunemente chieda del “vero Principe” e, soprattutto, del “mondo d’oggi”. È dal ’73 che non sento dire “il mondo d’oggi”, pensavo fosse solo un ricordo.
Hai ragione. Procedo per ellissi. Mi riferivo al “principe” machiavelliano. Alla possibile attualizzazione di quella figura cinquecentesca del potere.
Riformulo: “al mondo d’oggi”, o se preferisci nell’era della globalizzazione e dell’ipermediaticità, il potere cambia e popolo e principi ricoprono ruoli e poteri diversi.
Machiavelliano è da cartellino rosso. Comunque ti rispondo, ma controvoglia.
“Gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani…”, diceva più di cinquecento anni fa Machiavelli.
Se parliamo di tv, oggi il “popolo” sembrerebbe avere un potere nuovo. Il “popolo”, coincidendo sempre di più col “pubblico”, determina col telecomando le sorti dei vari “principi”, che a loro volta possono farsi “amare” e imporsi attraverso lo schermo. Per anni i mezzi di informazione sono stati usati per condizionare le masse su qualunque cosa, dall’imposizione di orientamenti politici all’acquisto di beni. Quanto questo condizionamento sia stato efficace, quanto lo sia ancora non è dato con certezza sapere, anche se ci sono studi che per me sono fantascienza pura. Per sicurezza, con “Striscia” mi sono messo a vendere dubbi, cercando di svelare ciò che poteva essere la manipolazione dell’informazione al grido di “la TV è come l’AIDS, se la conosci non ti uccide!”. Ho individuato nel telegiornale il Daikin.
Il Daikin?
Il Principe dei condizionatori. Il telegiornale è il Principe dei condizionatori.
Mi sa che l’hai passata anche tu una notte agitata…
Che vuoi di più da me? Ti ho fatto la battuta, la pubblicità e anche “ahahahahahahah”, la risata finta. Tre cose al prezzo di una. Per restare in tema, un’offerta principesca.
Quale potere attribuisci alla tv oggi?
È un mezzo di propaganda, forse indebolito, ma unico. Permette di comunicare la stessa cosa, nello stesso momento, a un numero molto elevato di persone. Ed è quindi ancora il medium più potente, come dimostrano le inchieste successive all’elezione di Trump.
Anche tu sei un uomo potente. Non scotta fra le mani il potere?
Di natura sono refrattario. Additare uno come “potente” significa gufargli contro e metterlo al centro del mirino. Io e la mia banda siamo ritenuti “potenti” dalle società di produzione, che vogliono il nostro spazio, solo perché resistiamo e non riescono a buttarci giù.
Quando ho sentito dire, ad esempio, a uno come Marco Bassetti, all’epoca presidente di Endemol, che siamo “potentissimi”, mi è scappato da ridere: noi siamo una trasmissione, loro quaranta!
Io non sono un potente, sono un provante. Io ci provo a vedere qual è il limite. Se lo oltrepasso sono disposto a pagare di persona. La libertà non te la regala nessuno, te la devi guadagnare giorno per giorno e devi essere pronto a far fronte agli eventuali danni.
Quanto ti è costata?
Oltre trecento procedimenti giudiziari. Passo molta parte del mio tempo con gli avvocati, per fortuna sono persone simpatiche. Sono stato “condannato” solo una volta per la trasmissione del fuori onda “Vattimo-Busi”, dove appariva con evidenza che anche i programmi culturali, in realtà, erano architettati per la ricerca della rissa ai fini della spettacolarizzazione.
Tra quelli che si schierarono dalla mia parte ci furono: Altan, Roberto Benigni, Enzo Biagi, don Ciotti, Giuseppe Conte, Maria Giulia Crespi, Cristiano De André, ElleKappa, Ernesto Ferrero, Dario Fo, Giorgio Forattini, Ivano Fossati, Pietro Garinei, Dori Ghezzi, Beppe Grillo, Angelo Guglielmi, Gina Lagorio, Nico Orengo, Gino Paoli, Renzo Piano, Fernanda Pivano, Franca Rame, Vasco Rossi, Sergio Staino, Vauro e Umberto Veronesi.
Sia nel primo sia nel secondo grado di giudizio, la pubblica accusa aveva chiesto la mia assoluzione. In Cassazione il procuratore generale sostenne che non c’era stata nessuna rivelazione perché è notorio che in televisione tutto sia finto. Sarei voluto intervenire dicendo che solo unicamente grazie alle “rivelazioni” fatte in diciassette anni di “Striscia” poteva esporre una tesi simile e che, comunque, nel ’96, all’epoca del fatto, la credibilità della televisione non era stata ancora scalfita. Purtroppo in Cassazione l’imputato non può parlare. La Rai, a spese del contribuente, aveva preso come avvocato Franco Coppi, fresco dell’assoluzione fatta avere ad Andreotti.
Fui condannato. Siccome sono un pelino tignoso, feci ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Nel 2013 lo Stato italiano venne condannato per aver violato il mio diritto alla libertà di espressione.
Al di là delle aule dei tribunali, qual è il tuo rapporto con la legge e la giustizia, nella tua vicenda biografica?
Avevo 15 anni quando mi hanno portato per la prima volta in una caserma dei Carabinieri. Secondo l’accusa avevo aggredito una ronda militare insieme a due compagni di ginnasio e a un “cane biondo tipo lessie”. In realtà, il gruppuscolo era solo intervenuto a difesa di una recluta vessata dalla ronda sul viale d’Albenga. Venimmo subito rilasciati: il maresciallo dei Carabinieri era il papà del mio compagno di banco.
Un cursus honorum da giovane marmotta.
Evito di dire cosa penso da sempre degli scout. Comunque, cominciai prestissimo a subire false accuse. Venni sospettato, insieme ad altri, del furto della prima pietra della scuola in via degli Orti, posta in pompa magna dall’allora ministro democristiano Paolo Emilio Taviani. Rubavo le macchine, ma solo quelle degli amici per andarle a parcheggiare in posti impossibili. Ma non mi beccarono mai. Non ho vissuto il ruolo di “capro espiatorio” in maniera vittimistica o alla Monsieur Malaussène, ma l’ho sempre ritenuto facente parte del mio cursus honorum. Una sorta di autosacrificio di Cristo. Capro! Capro! Capro! Più sei capro e più ascendi in cielo. Recentemente ho letto nel libro di Federico Vacalebre De André e Napoli che Faber, invitato in casa di Murolo, disse: «Io e mia moglie Puni i dischi della Napoletana li avevamo tutti. Un giorno ce li ha fregati quel malandrino di Antonio Ricci».
Mi faceva molto ridere l’idea del malandrino e del suo ghiotto bottino di dischi napoletani. Ma com’era venuta in mente a Fabrizio una cosa del genere? Chiesi a quella forza della natura di Dori che chiarì: «Fabrizio non ha mai avuto quei dischi, quel cofanetto della Durium ce l’avevo io a casa mia ed è ancora là».
Stabilito che non avevo rubato nulla in stato di trance o sotto effetto di sostanze psicotrope, riuscii a dedurre che Fabrizio, forse nel timore che Murolo indagasse più a fondo sulla sua conoscenza della Napoletana, aveva genialmente dirottato l’attenzione sul furto, accusando il più noto malvivente ligure. Se serve a trar di impaccio gli amici, essere capro espiatorio diventa un vanto, uno status, quasi essere un Don Raffaé a Poggioreale.
Quella televisiva si è determinata come una neo-cultura, di cui sei stato uno dei massimi artefici in questi ultimi trentacinque anni.
La vera cultura e la vera educazione devono passare per la scuola. Noi possiamo fornire materiale, ma poi l’elaborazione deve avvenire lì.
Io mi sono formato in un tempo in cui c’era solo un canale: quello era il totem da abbattere, poi si è aggiunto il secondo, sempre controllato dalla Rai. Poi il terzo e poi le tv libere, in fondo mi sto comportando ancora come se lavorassi in una di quelle.
Torniamo al potere e al “mondo d’oggi”, e prendiamola alla larga.
Nelle “radiose giornate di maggio” D’Annunzio spronò il suo pubblico a uscire dal teatro Costanzi di Roma per uccidere Giolitti, che non voleva la guerra.
Fu tale la suggestione delle parole che la folla si mosse, invasata dall’oratoria del Vate, e fu fermata dalle forze dell’ordine solo in prossimità dell’abitazione dell’ex presidente del Consiglio. Come esempio contrario di potere della parola, il magistrato Di Pietro, negli anni di Tangentopoli, pur se in difficoltà con la linearità della sintassi, aveva uno straordinario consenso nei giorni torridi di Mani Pulite, quando il clima era infuocato e bastava poco per accendere gli animi.
Gli esempi dimostrano che se il potere della tv esiste, come certamente esiste, in certi momenti storici è limitato, filtrato, perché i fatti si impongono comunque.
La tv è un filtro?
Certo. Stai a sentire D’Annunzio dal vivo e sei assorbito, catturato visceralmente, ma se stai davanti alla tv c’è magari nell’altra stanza il nonno che scorreggia.
Rende l’idea. Mi fa pensare che la “realtà” dello spettatore, con le sue infinite variabili e funzioni “corporali”, sia già di per sé demistificante. Il contrario, forse, di quello che si pensava negli anni Ottanta, quando Neil Postman, con Divertirsi da morire, prefigurava per la civiltà un’apocalisse da risata.
Io sono partito da queste posizioni, denunciando la deriva spettacolare. Ho sempre detto che il più grosso varietà era il telegiornale, e ho messo i comici al posto dei giornalisti. Come notava Eco, il paradosso è che siamo diventati più credibili dei telegiornali.
Qualcuno, nel tempo, ha pensato di trasformarla in un agente più diretto, ad esempio il Celentano dei cinque minuti di silenzio. Quando chiese di spegnere la tv e alcuni milioni di telespettatori lo seguirono.
Se avesse chiesto di dargli cinque euro non lo avrebbero seguito.
Aveva come modello Quinto potere di Sidney Lumet e il “pazzo profeta dell’etere”, Howard Beale.
Appunto. Parliamo di film. Invece il prete dal pulpito, il condottiero, l’oratore sono casi di uomini che hai davanti. I ras delle curve degli stadi sono più forti della tv perché sono diretti.
I giovanissimi seguono più Internet che la tv. Non credi che questo prefiguri il tramonto di quel potere che abbiamo descritto?
La tv è meno interessante da vedere, anche i giornali arrivano bruciati, preceduti da Internet. Le trasmissioni che si basano unicamente sulla comicità sono in crisi. Difficilmente vanno oltre i tre-quattro milioni. Solo poco tempo fa “Zelig” arrivava a otto. Ma oggi tutti i comici e tutti quelli che hanno qualcosa di comico da dire li trovi in rete. In tv sembra di assistere ormai a una replica.
La comicità di “Drive in” la vedevi solo in esclusiva su Italia 1.
Vuoi dire: la rete consente una moltiplicazione virale immediata, e questo le dà potere, però determina anche un effetto saturazione.
È così. Abbiamo di sicuro anche un eccesso d’offerta. Non c’è paese al mondo, forse, con una simile quantità di trasmissioni comiche, nemmeno nel nostro passato. Nei vecchi varietà televisivi, basati soprattutto su canzoni e balletti, quando andava bene il comico faceva un monologo, due: non era una presenza invadente. Con “Drive in”, poi, è nato un genere di grande fortuna, sia per la durata del programma sia per il nutrito gruppo di autori e attori.
La mia idea è che il comico abbia generato una sorta di identità collettiva dell’Occidente: ci rappresenta.
Il principe De Curtis si vergognava del personaggio Totò, oggi accade il contrario: ci vergogniamo d’essere seri. L’abbassamento (del comico) si è “innalzato”. La realtà si è impadronita del palco e ripristinare il rapporto classico è quasi impossibile, significherebbe tornare al passato.
Giungiamo da un’epoca storica in cui lo spettacolo leggero non era affatto legittimato. È incredibile che a organizzare il primo Film Festival de la Comédie sia stato Ezio Greggio.
Qual è stato il contributo di “Drive in” nel ribaltare il rapporto fra sala e palco?
“Drive in”, sviluppando le intuizioni di Enzo Trapani, ha azzerato il palco sostituendolo con una struttura circolare, a 360 gradi: non c’era più un solo luogo deputato per lo spettacolo. Già dal secondo anno, eliminando le canzoni e riducendo a “stacchetti” le coreografie, tutto lo spazio era riservato agli interventi comici e satirici, mai così massicciamente presenti in un varietà.
Il capo dei truffatori, dopo aver rubato in platea, andava sul palco a fare la morale agli altri.
Un processo che parte da lontano, con le avanguardie.
Sono sempre stato un giovane avanguardista. Oltre a specializzarmi in storia dell’arte, dopo la laurea, ho avuto la fortuna di frequentare il Centro internazionale di sperimentazioni artistiche Marie Louise Jeanneret, la nipote di Le Corbusier. La gallerista svizzera d’estate migrava a Boissano, a due passi da casa mia, e invitava i più grandi artisti contemporanei. Lì ho conosciuto Andy Warhol e Alain Kirili. C’è stato un momento in cui pensavo di darmi all’arte. Volevo creare un’installazione della Statua della Libertà, con la sua fiaccola accogliente, alta una ventina di metri, tutta fatta di tagliaunghie.
Eravamo in un periodo di antiamericanismo e immaginavo il simbolo della libertà… che taglia le unghie e impedisce di graffiare.
Forse oggi avrebbe una quotazione interessante.
Ho dovuto rinunciare quando, fatto fare un preventivo, ho verificato quanto costava. In tagliaunghie. Come già ti dicevo, anche la libertà ha un prezzo.
È più facile avere successo o mantenerlo, per restare in tema machiavelliano?
È difficilissimo avere successo e ancor di più mantenerlo. Mi è capitato tante volte di trovare persone baciate dalla fortuna dilapidare tutto perché credevano che fosse la loro presenza taumaturgica a determinare quel miracoloso successo. Invece non bisogna mollare, bisogna fare di tutto per meritarsi quella combinazione astrale. Se invece di essere un unto del Signore, più laicamente pensi che tutto sia il...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Me Tapiro
  4. ALLA RICERCA DI UN INCIPIT
  5. IL VERO E IL FALSO
  6. GUERRIERI
  7. APPARIRE
  8. LA SOCIETÀ UMORISTICA
  9. IL PRINCIPE
  10. ORA
  11. Copyright