DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
I. Dove Aurelio rimane incastrato
«È fatta, padrone, ci sei dentro fino al collo!» deplorò Castore il giorno dopo, svegliando il padrone senza eccessiva delicatezza per porgergli l’acquamanile delle abluzioni mattutine, assieme alla nuova pasta dentifricia prodotta dal barbiere Azel con certi suoi ingredienti speciali, tra cui spiccavano la pietra pomice e la cenere di denti d’asina. Poi fece cenno di entrare a Gaia, Fillide e Iberina, incaricate della vestizione quotidiana, che portavano rispettivamente la tunica di lino, il subligaculum inguinale e la sopravveste di lana, in quanto l’eccentrico senatore pretendeva, contro ogni uso consolidato, di cambiarsi anche dopo il sonno.
Aurelio si assoggettò alla cerimonia in assoluto silenzio e quando le ancelle uscirono doveva ancora aprire bocca, immerso com’era nei suoi pensieri.
Il pomeriggio precedente era arrivata Pomponia ruscellando lacrime per chiedergli di impegnarsi nelle indagini di persona e con tutta la sua energia: quello che aveva avuto inizio come un banale gioco, ora si rivelava invece come una serie di omicidi tesi a colpire i deboli tra deboli, bambinetti senza famiglia, senza casa, senza nessuno a difenderli, poveri rifiuti umani abbandonati come bestie selvatiche in una città spietata. Non si sarebbe data pace finché il colpevole di un tale obbrobrio non fosse stato punito. E se Tito Servilio era lontano per affari, in mancanza del marito sapeva di poter contare sul più vecchio e caro amico, che in molte altre occasioni si era rivelato un ottimo investigatore.
«D’accordo, mi attiverò subito!» aveva promesso il patrizio, in preda a idee molto confuse che sperava si chiarissero durante la notte, cosa che purtroppo non era affatto accaduta.
«Vabbé, da dove cominciamo?» disse Castore con inusitata sollecitudine: essendo stato investito di un compito molto più personale e spinoso, dava per scontato che il suo ruolo nella caccia si sarebbe limitato ad alcuni stimoli avveduti, a qualche considerazione perspicace e soprattutto a un attento ascolto, che era poi ciò di cui aveva bisogno il senatore quando ragionava da solo sulle sue inchieste.
«Teniamo per ultima la tunica, che è l’indizio più importante, e vediamo il resto, innanzitutto i risultati dell’esame eseguito da Ipparco ieri sera sul cadavere. Criso è morto strangolato, forse con una cintura, per mano di qualcuno che probabilmente lo aveva seguito fin sul colle; nel suo stomaco c’erano ancora i resti del rinfresco offertogli da Pomponia, non digeriti del tutto; dunque quando ha smesso di respirare non doveva aver mangiato da molto. E considerato che l’edicola ai piedi della scalinata del tempio di Quirino non è lontana dalla residenza della nostra amica, possiamo dedurre che sia stato ucciso a breve distanza da lì: tieni presente che era giorno di ludi, quindi di gente in giro ce n’era poca. Inoltre dietro al santuario si trova un boschetto sacro che non viene mai sfoltito per rispetto al Nume e quindi potrebbe aver coperto le mosse dell’assassino.»
«Che altro hai saputo dal medico?» chiese Castore al solo scopo di intervallare il monologo, per renderlo meno noioso.
«Aveva sui tredici o quattordici anni, più o meno la stessa età della vittima dell’amputazione, e al dito indossava una fascetta di argento che verosimilmente è la stessa prelevata dalla mano mozza. Legato addosso con una cordicella, poi, portava un sacchetto con alcune monete: più della mancia di Pomponia e comunque troppo rispetto alla sua misera condizione.»
«Il ragazzino vendeva informazioni, o almeno così ha fatto con la nostra amica, quindi potrebbe averci provato anche con qualcuno di troppo» illazionò il segretario.
«Sappiamo anche che Criso era stato senza dubbio uno schiavo, perché sulla pelle della gola recava ancora le tracce del collare.»
«Pochi schiavi portano il collare nell’Urbe, in quanto la tipica frase che vi è incisa: “Sono scappato, riportami al mio padrone Tizio, Caio o Sempronio” lascerebbe intendere che il suddetto padrone è un tirchio insolvibile da cui è bene guardarsi, privo inoltre dell’autorità necessaria per imporre la sua disciplina ai servi» rilevò il segretario.
«In città, appunto, dove schiavi e padroni vivono fianco a fianco, nella stessa familia; ma in campagna i servi rurali vengono trattati più o meno come il bestiame o anche peggio, se l’animale è pregiato e il bracciante facilmente sostituibile. Dipendono totalmente dal villicus che amministra il fondo, li fa sorvegliare da un aguzzino di giorno, li incatena agli ergastula durante la notte, ma non sa riconoscerne né il viso né il nome e quindi per prevenire eventuali fughe ricorre al collare. È verosimile dunque che Criso venisse dalla campagna, ma questo ci dice ben poco. Trovare qualche dettaglio capace di collegarlo al primo ragazzino sarebbe un buon punto di partenza per scoprire in base a quali criteri vengono scelte le vittime.»
«In effetti un nesso c’è» annunciò Castore trionfalmente.
«Sputa!» lo esortò il patrizio, impaziente.
«Ho dovuto sciogliere parecchie lingue, domine» la prese alla lontana l’alessandrino, presentando al padrone un conto che comprendeva molti congi di vino, un numero di focacce al rosmarino sufficienti a sfamare una legione e più salsicce lucaniche di quante se ne vendessero fuori dall’Anfiteatro di Statilio Taurio nei giorni delle venationes, oltre alla tariffa per le prestazioni in esclusiva di una certa Eufrosine, libera meretrice professionista senza contratti con alcun bordello: i nubiani che si erano accollati al suo posto il disturbo di girare per obitori e lavanderie, offrendo pasti e bevute in cambio di preziose informazioni, avevano preteso infatti quell’ultima clausola in cambio dell’esosa percentuale che Castore si sarebbe trattenuto sulla mancia.
Il senatore ovviamente si accorse subito di quanto i prezzi fossero gonfiati e in un altro momento li avrebbe discussi voce per voce, chiedendo al segretario se proprio lo scambiava per un grullo fatto e finito. Ma quando si è ricchi sfondati e si ha fretta, a volte ci si può permettere di farsi prendere in giro, così pagò sull’unghia senza fiatare.
«Criso e il bambinetto dalla mano mozza, da me identificato come un certo Oreste, avevano lavorato nella stessa fullonica» rivelò infine l’alessandrino dopo aver messo al sicuro la generosa ricompensa.
«Un colpo da maestro» riconobbe il padrone. «Abbiamo dunque una pista: ambedue giovanissimi, ambedue compagni di lavoro, ambedue uccisi proditoriamente...»
«No» lo deluse drastico Castore, tossicchiando con un certo imbarazzo.
«Come no?» strabiliò il senatore.
«C’è un inghippo, ed è grosso: Oreste non è stato ammazzato da nessuno. Romizio, il proprietario della lavanderia del clivus Suburanus presso cui lavorava e dormiva, nel consegnare la salma ai libitinarii ha asserito che era morto dopo due giorni di febbre altissima. E allo spoliarium il suo corpo se lo ricordavano, proprio perché quando era arrivato aveva ancora entrambi le mani, ma il mattino seguente, al momento di gettarlo nella fossa comune, una era sparita.»
«Dunque è stato mutilato dopo la morte, come sosteneva Ipparco, però dopo una morte del tutto naturale» considerò il senatore. «Perché allora lo scempio dell’amputazione?»
«Pare che di queste violazioni di cadaveri ne accadano spesso, a opera di depravati, stregoni, o anche di studiosi di medicina ansiosi di esaminare gli organi interni del corpo umano: ovviamente i libitinarii non effettuano alcun controllo notturno, quindi i profanatori possono agire indisturbati. Comunque il datore di lavoro di Oreste mi ha detto di aver assunto mesi or sono come secondo apprendista un campagnolo alquanto grezzo che era fuggito dopo poco, non senza essersi prima appropriato della tunica quasi nuova di un cliente. Si trattava senza dubbio di Criso.»
«E arriviamo finalmente alla tunica color ocra che gli è stata trovata addosso, senza dubbio la stessa sottratta alla lavanderia. Sulla schiena l’assassino ha vergato col gesso uno strano indovinello che riporta al gioco e ai suoi enigmi» disse Aurelio porgendogli lo schizzo a penna su cui aveva passato inutilmente parte della notte.
«Non mostrarlo a me, padrone: Paride e la matrona Pomponia, che si dilettano assai con questi trastulli, sono già pronti a dare il loro contributo, che non dubito sarà determinante. Per quanto mi riguarda proseguo con l’incarico a cui tieni di più, tanto delicato da assorbire tutto il mio tempo!»
«Aggiungici un favorino che vale altri dieci sesterzi e dovrebbe essere pane per i tuoi denti: nella cerchia di quella sedicente squadra Gallica che tiene sotto il suo tallone i Celti della Suburra c’è una donna. Si chiama Viridia, ed è di una bellezza inaudita e stravagante, con pelle e capelli color bronzo, occhi dal taglio orientale e tuttavia chiari: impossibile non notarla, comunque dicono che sia riservata al capo. Voglio ogni informazione possibile su di lei!»
Bene, pensò deliziato l’alessandrino: nella vita del padrone, infatti, delitti e intrighi si erano sempre accompagnati a numerose presenze femminili, e soltanto in quel caso la bilancia pareva pendere tutta quanta dalla parte degli arti recisi, dei cadaveri mozzi e delle noiose investigazioni, con penosa carenza di femmine conturbanti. Eccone dunque finalmente una, capace di ristabilire il giusto equilibrio...
«Ti accingi a corteggiarla, domine?» chiese speranzoso: spesso le femmine su cui il senatore metteva gli occhi erano servite da ancelle graziose, che volentieri imitavano le padrone, rivolgendo a lui le loro cortesi attenzioni.
«Veramente progetterei di rapirla, Castore. Con il tuo aiuto, naturalmente!» rise il padrone.
Castore, che stava uscendo a passo quasi di danza, si bloccò bruscamente. Come Odisseo, giunto quasi in salvo nell’isola dei Feaci, guardando approssimarsi la tempesta mandata da Poseidone comprese all’istante che le sue vicissitudini erano ben lungi dall’essere finite, così il segretario, che già si stava cullando con immagini di tenere fanciulle ben disposte nei suoi confronti, se le vide immediatamente sostituire da minacciose figure di energumeni nerboruti dai capelli gialli, armati fino ai denti e decisi a strappargli le unghie una per una. La squadra Gallica era nota per le sue maniere spicce: gli Epiroti che avevano tentato di invadere il loro territorio si erano ritrovati parecchie ossa rotte, e la banda degli Iberici era stata addirittura costretta a cambiare quartiere, figuriamoci dunque il trattamento che avrebbero riservato a chi avesse osato insidiare una delle loro donne, in particolare quella del capo... e ciò significava guai, guai, guai, a cui bisognava a ogni costo tentare di porre un argine.
II. Dove Pomponia ripercorre le prime fasi del gioco
Si diceva che il gigante Briareo, che prestò man forte a Zeus contro i Titani, avesse cinquanta teste e cento braccia. Sebbene di numero inferiore, l’abbondanza di arti superiori e inferiori avvinghiati assieme davanti alla porta che Aurelio stava per varcare per recarsi dalla parte privata della domus a quella pubblica, era tale che per un istante il patrizio pensò di trovarsi davanti all’antico mostro mitologico. A poco a poco si avvide che, nel groviglio, le braccia e le gambe erano parecchie, e che metà di esse appartenevano all’ancella Iberina, mentre le altre al giovane pocillatore di cui si era incapricciata, l’ultimo della lunga serie di giovanotti prestanti a cui l’ancella dedicava tutto il suo tempo libero e anche gran parte di quello che avrebbe dovuto riservare al lavoro.
«Iberina, la mia toga è già stata stirata a dovere o hai pensato che fosse elegante lasciarvi il solito reticolo di pieghine, in modo da farmi assomigliare al volto di una megera rugosa? E tu non dovresti essere in cucina? Intendete forse servirmi anche stasera pollo riscaldato, verdure lesse e croste di formaggio?» brontolò Aurelio con voce severa, ben sapendo che il cuoco Ortensio era assente da due giorni, avendo costui giudicato che, data la trascuratezza dell’intendente, fosse il momento giusto per portare ai suoi fratelli alcune ghiottonerie rubate nella dispensa. La defezione di Paride, in effetti, aveva inferto un ulteriore colpo alla disciplina della servitù, mai stata ferrea, e ora il lassismo la faceva da padrone. Era ormai diventato inevitabile infliggere a quei servi riottosi un duro castigo, si ripromise il patrizio, e l’avrebbe fatto di sicuro, non appena avesse trovato un po’ di tempo. Ma non ora: ora c’era da occuparsi della caccia.
Quando il senatore fece il suo ingresso nel tablino, Paride e Pomponia erano già seduti al lungo tavolo di marmo, mentre Carnifex, in piedi presso la porta, vegliava alle loro spalle.
«L’indizio fornitoci da chi dirige il gioco, l’anello con la quadriga, ci ha portato fuori strada perché ci siamo impuntati sui grandi monumenti, trascurando l’affresco dell’edicola, che pochissimi conoscevano» esordì Aurelio. «I giocatori erano convinti di dover cercare una quadriga vera o almeno una statua, e su questo contava l’assassino: voleva che si trascinassero per giorni e giorni in luoghi come stalle, circhi, parcheggi o rimesse per carrozze, senza mai venire a capo dell’enigma!»
«Ci siamo cascati in pieno, perquisendo il circo e poi persino la caserma dei gladiatori, su suggerimento di quel giovane babbeo...» fece...