Altra menzogna da sfatare è che siamo un popolo d’individualisti. No: siamo un popolo di pecore riottose, che seguono il pastore finché gli fa comodo e finché il pastore occhiutamente veglia su di loro e i cani non le perdono di vista. Ma quando il pastore si distrae e si distraggono i cani, ognuno va per i fatti suoi, alla ricerca di una nuova guida. Non viviamo nemmeno in una democrazia, perché la democrazia è laica e anti-ideologica, mentre la nostra è un regime, che non diventa dittatura perché refrattario a ogni forma di organizzazione e di disciplina. In Francia il cattolico è laico, in Italia non lo è nemmeno l’ateo.
L’Amerikano capì il nostro Paese più in questo lungo monologo di Cesaretto che in tutti i testi d’illustri politologi e non meno illustri teologi che aveva stolidamente consultato. Cesaretto aveva un mirabile senso della sintesi e vedeva le cose com’erano e non come sembravano e il potere voleva che il popolo le vedesse. Ragionava con la sua testa, ma dopo ore di esegesi si sentì stanco. Voleva svagarsi, e Tyrone, che ormai lo conosceva, gli propose una visitina, non più di mezz’ora, in via dei Chiavari, alla benemerita casa di appuntamenti. Andarono, ma un cartello li raggelò: chiusa per lutto.
Chiesero a un merciaio che aveva bottega nella stessa via cosa fosse successo. Gli fu risposto che un sottosegretario senza portafogli, in anonimo, durante un amplesso temerario aveva avuto un arresto cardiaco e che il festoso locale avrebbe riaperto i battenti dopo alcune settimane. Il lutto, lì per lì, li turbò. Ma un imperioso risveglio dei sensi gli restituì il desiderio di evasione. Cesaretto ricordava che in via delle Zoccolette (un altro nome che faceva ben sperare) c’era una vecchia casa di appuntamenti frequentata ogni weekend dal suo ex datore di lavoro, che si era trovato benissimo e che la considerava ormai la seconda casa.
Si presentarono a suo nome, accolti come Mussolini, negli anni Venti in via degli Avignonesi, il casino che frequentava, quando tornava dall’ufficio, prima di rientrare a villa Torlonia, dove abitava con la moglie Rachele e i figli.
La maîtresse era una donna che sembrava una massaia rurale di Goito (in quel di Mantova). In gioventù, per la sua simpatia e la sua procacità, aveva fatto affollare e impazzire i bordelli di mezza Italia. C’era un po’ da attendere, così fece accomodare i due clienti su una poltroncina nuova di zecca offerta da un vecchio notaio sofferente di emorroidi e che amava le comodità.
Finalmente venne il loro turno. Una mezza serqua di ragazze, sapientemente discinte, si presentarono sfilando davanti ai due. Tyrone, abituato alle donne del Kentucky, discendenti dai padri pellegrini, scelse una bruna, dal décolleté sodo come un caciocavallo stagionato ma ridondante e dalle gambe più pingui che sdutte. Più modestamente e non senza imbarazzo, Cesaretto, dopo avere a lungo esitato fra una barista di Roccaraso, bruna ma filiforme, che sembrava una silhouette, e una piemontese di Bardonecchia, figlia di un capostazione e di una domestica part-time, scelse questa. Non era bella, ma intrigante. Le cose che più colpirono il ragioniere erano una leggera balbuzie e una miopia sexy. Insieme salirono sommessamente le scale che conducevano all’orto di Afrodite. Il ragioniere si spogliò con lentezza, ma l’uzzolo che l’aveva attirato in via delle Zoccolette si era affievolito, fino a spegnersi. La donna mise in opera ogni sua arte rianimatoria, ma tutto fu vano. Il ragioniere, che non aveva ancora smaltito il rimorso della volta precedente, si rivestì, e invocò la signorina di non fare cenno alla sua penosa défaillance. La buona samaritana promise e fu di parola.
Tyrone, invece, seguitava a incrociare le armi con Venere. Dalla stanza uscivano voci robuste, da sceriffo avvinazzato, che faceva sfoggio di un turpiloquio da saloon e di bestemmie da bettola di borgata. Rifece capolino dopo un’ora e mezzo, tronfio e sorridente, come se avesse vinto la battaglia di Azio, che nel 31 a.C. oppose Ottaviano ad Antonio, o quella di Austerlitz, che sancì il trionfo di Napoleone contro la coalizione alleata. La ragazza, che si chiamava Amapola perché il padre aveva fatto il buttero in Spagna, era disfatta, ma soddisfatta. Clienti ne aveva avuti tanti, ma nessuno così infaticabile e sanguigno, così macho. La maîtresse e le ragazze si fecero promettere che sarebbero tornati al più presto. Si diedero appuntamento per l’indomani alla stessa ora. Cesaretto obiettò, profondendosi in scuse, che il giorno dopo aveva un’importante riunione di condominio, con molti ordini del giorno. Prioritario, la sostituzione della vecchia caldaia e il restauro del cornicione che cadeva a pezzi sui passanti, uno dei quali era finito con il cane, un pointer, al pronto soccorso.
I due amici presero insieme un aperitivo al bar e si congedarono. Mericoni tornò nel suo ufficetto nel condominio dove continuava a esercitare la poco lucrosa attività di amministratore, mentre Maccarone rientrò all’ambasciata. L’indomani aveva un appuntamento con un detective bulgaro sotto copertura, in via Depretis. Mentre l’Amerikano parlava con il bulgaro, per discrezione Cesaretto fece alcuni giri nei dintorni guardando i negozi e gustando un gelato all’anguria, di cui era particolarmente ghiotto. Quando i due agenti si congedarono con una vigorosa stretta di mano, Cesaretto si avvicinò a Maccarone, cui ne offrì uno all’ananasso.
A un certo punto l’occhio di Tyrone cadde sulla targa della via e, non avendo mai sentito nominare Depretis, che perfino nel Kentucky nessuno conosceva, chiese a Mericoni chi fosse. Il ragioniere, appassionato di storia, gli raccontò la vita del politico di Stradella, noto per avere inaugurato in Parlamento il trasformismo. Tyrone confessò non senza vergogna d’ignorare questo lemma. «Significa» gli spiegò Cesaretto «cambiare facilmente idee e gabbana. Ma non per convinzione: per convenienza. Chi era di destra passava disinvoltamente a sinistra; chi era a sinistra al centro; chi era al centro si barcamenava.»
Un vizietto molto italiano che consentì, anni più tardi, a Mussolini, direttore dell’“Avanti!”, organo ufficiale socialista, di passare dal più bellico neutralismo all’interventismo più rapace, fiutando l’aria che tirava negli ambienti estremisti.
Per vent’anni, gli anni del fascismo trionfante, nessuno osò buttare alle ortiche il fascio per brandire la falce e il martello, nessuno osò togliersi la camicia nera per sostituirla con quella rossa o cantare Bella ciao! invece di Giovinezza.
È il grande vantaggio delle dittature finché il tiranno è al potere e tutti sono con lui, fanno tutto quello che dice e per lui si butterebbero nel fuoco. Poi, quando viene deposto, tutti con il nuovo uomo della Provvidenza, l’Ente supremo.
Per questo, chiosò l’Amerikano, non ci sono più fascisti. Cesaretto, che si aspettava l’obiezione, obiettò che tutti erano diventati antifascisti poiché solo questo ormai pagava.
Togliatti, che a suo modo era stato un geniale politico e un tattico formidabile, finita la guerra chiamò a raccolta tutti gli intellettuali del regime, foraggiati per lustri dal Minculpop, il ministero della Cultura popolare, e gli fece questo lungimirante e persuasivo discorsetto: «Siete stati tutti fascisti. Oggi il fascismo non c’è più e, ciò che più conta, non c’è più il “Puzzone”, che abbiamo fatto impiccare a piazzale Loreto a testa in giù, con l’amante Claretta Petacci, che non c’entrava niente. Approfittate, e venite tutti con noi. Vi rifaremo una bella verginità e tornerete a essere i maîtres à penser che per vent’anni hanno servito scrupolosamente ed enfaticamente il regime». Il discorsetto piacque e il trasformismo, e il suo fratello maggiore, il conformismo, assursero a opportunistica moda.
Una pratica, aggiunse il ragioniere, sempre attuale nella Prima e nella Seconda Repubblica. E fece un elenco di politici puntualmente riportati dall’Amerikano su un taccuino dai fogli gialli a righe, tanto in uso nei college d’Oltreatlantico. In Italia il primato di voltagabbana, il record, spettava a un senatore napoletano che aveva cambiato casacca undici volte: prima all’estrema sinistra, poi all’estrema destra, quindi una sosta al centro, per poi ricominciare con impudenti e impunite varianti.
«È vero» incalzò Tyrone «che tutti gli italiani sono corrotti?»
«Tutti quelli, e sono tanti, che possono permetterselo.»
«E gli altri?»
«Si adattano, si adeguano, in attesa dell’occasione che prima o poi si presenterà di diventarlo.»
«Quali sono i reati più comuni contro il patrimonio dello Stato?» chiese l’Amerikano.
«Non c’è che l’imbarazzo della scelta. La concussione e il peculato vanno forte, ma non sono dammeno i falsi in atto d’ufficio e, da tempo immemorabile, le bustarelle.»
«E le tangenti?»
«Be’» rispose Cesaretto, «le tangenti sono una cosa seria. Molto più seria. Io do un appalto di cento milioni di euro a te e tu ti sdebiti con un pizzo di dieci a me.»
«A quanto ammonta il vostro debito pubblico?» interrogò Maccarone.
«Una quisquilia: duemilacinquecento miliardi di euro» rispose Cesaretto, che sul computer seguiva con gran patema d’animo i nostri conti pubblici e le borse mondiali, compresa quella di Hong Kong, dove, se mai avesse preso moglie, sarebbe andato a vivere.
«Perché» domandò giustamente l’Amerikano «un debito così astronomico?»
«Tutto cominciò una sessantina d’anni fa con le pensioni baby e le liquidazioni d’oro.»
«Cioè?»
«Con il centrosinistra, il più infausto pateracchio abbattutosi sul Paese dall’invasione di Carlo V e dei suoi lanzichenecchi.»
«Ma il centrosinistra aveva dei modelli esemplari in Svezia e nei Paesi scandinavi e anglosassoni.»
«Ma noi non discendiamo dai Vichinghi e dagli Esquimesi, ma dai Visigoti e dagli Arabi, che avranno portato in Italia mandorle e cuscus, ma anche tante cattive abitudini e perfide astuzie.» Fece una breve pausa, ordinò una granita con panna, e continuò: «A rendere istituzionale il malcostume sono stati i socialisti e i democristiani. I socialisti speculavano su tutto, purché avesse un prezzo; la DC, e lo stesso Andreotti e i suoi democristiani, che si chiamavano amici solo quando volevano pugnalarti alle spalle, forse mossi a compassione dallo scontento degli statali, sentenziarono che si poteva andare in pensione a trentacinque anni di età, un’età francamente precoce, a meno che il destinatario non fosse paralitico o demente».
«Inaudito» commentò Maccarone.
«Ma questo è niente, caro Tyrone. Vogliamo parlare dei falsi invalidi?»
«Io» replicò l’Amerikano «in giro ne ho visti pochi.»
«Ne avrai visti pochi, ma ce ne sono dappertutto. Ogni tanto la polizia o i carabinieri scoprono un falso sciancato partecipare a una maratona (e magari vincerla), un finto cieco al volante di una Ferrari o di un TIR, un sordo dirigere la filarmonica del paese, un cardiopatico godersi uno spogliarello in un night o un muto tenere comizi in favore dello spinello in piazza Navona.»
«Non posso credere che l’Italia sia questa» fece l’Amerikano. «Non potrai» obiettò Cesaretto, «ma l’Italia è questa; non migliore, forse peggiore.»
«I rapporti ufficiali dei miei superiori» disse Tyrone, «a cominciare da quelli dell’ambasciatore, uomo integerrimo, se mai ce ne furono, non sono così catastrofici.»
«L’ufficialità non coincide mai con la verità» concluse Cesaretto con un sorriso.
S’era fatto tardi, spuntava il crepuscolo e faceva freschetto. Una fitta pioggerella infastidiva il passo. Tyrone tornò nel suo minuscolo pied-à-terre e Cesaretto nel rumoroso condominio al Prenestino. Com’era sua abitudine, non aprì con la chiave, ma suonò tre volte. Niente. Riprovò. Niente ancora. Cominciò a preoccuparsi, estrasse le chiavi, entrò in casa, chiamò a voce alta la zia-badante, ma nessuno rispose. Andò in camera sua, convinto di trovarla riversa sul letto stroncata da un ictus o da un infarto. Non c’era nemmeno lì. Interpellò i vicini, ma nessuno ne sapeva niente. Solo il medico di base Spiridione Beneduce, specializzato in ginecologia d’urgenza, ma che curava tutti i mali, anche quelli degli ipocondriaci, ch’erano la maggioranza, disse di averla vista uscire di casa verso le cinque in stato confusionale, come le capitava spesso, e come capita spesso anche a noi.
Chiese a tutti i negozianti della zona, che conosceva e di cui era cliente, se fossero in grado di fornirgli qualche informazione. Andò dai carabinieri, che gli chiesero un documento della vecchia. Ma la donna era uscita lasciando sul comodino solo il rosario. Visitò tutti gli ospedali dell’Urbe, ma anche lì nessuno aveva visto nulla. Gli venne un’idea, che sarebbe riduttivo definire grandiosa. Chiamò “Chi l’ha visto?” (il mercoledì, con mia moglie, non me ne perdo una puntata) e chiese di parlare con Federica Sciarelli, la “Signora in giallo” di viale Mazzini. L’implacabile detective di una delle più avvincenti e rassicuranti trasmissioni televisive si mise subito in moto. Federica sguinzagliò i più abili segugi della sua piccola tribù investigativa, che avviarono un’indagine al cui confronto quelle di Sorge e di Cicero nella Seconda guerra mondiale sembravano giochi da ragazzi. Dopo due lunghi, interminabili, ansiogene settimane Federica ricevette la visita di una carmelitana scalza che, soffrendo di reumatismi, aveva avuto la speciale dispensa di indossare scarpe con tacchi a spillo.
Cos’era successo? Era un giovedì, intorno alle ventitré, pioveva a dirotto. Bussò all’uscio del convento una signora sugli ottant’anni, male in arnese, smarrita e confusa. Farfugliò che non sapeva come passare la notte. La monaca l’accompagnò dalla madre superiora che le offrì ospitalità finché non avesse rintracciato qualche parente o conoscente. Di lì a una settimana la stessa Federica Sciarelli si presentò al convento.
Con gran gioia del vicinato e soprattutto di Cesaretto, che amava la zia come la madre e senza di lei si sentiva un uomo perduto, andò nella più vicina chiesa ad accendere tre ceri: uno alla zia, uno alla Sciarelli e uno alle carmelitane scalze, cui...