I volonterosi carnefici di Hitler
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I volonterosi carnefici di Hitler

I tedeschi comuni e l'Olocausto

  1. 670 pagine
  2. Italian
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I volonterosi carnefici di Hitler

I tedeschi comuni e l'Olocausto

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I volonterosi carnefici di Hitler è stato uno dei casi più clamorosi della storiografia degli ultimi decenni, un saggio che ha suscitato un intenso dibattito, in Germania e non solo, divenendo in breve un bestseller. Daniel J. Goldhagen ripropone l'inquietante interrogativo di come abbia potuto il popolo tedesco, una delle grandi nazioni della civile Europa, compiere il più mostruoso genocidio mai avvenuto. Esaminando le figure degli «esecutori» e l'antisemitismo radicato nella società tedesca fra il 1933 e il '45, attingendo a materiale inedito e a testimonianze dirette, Goldhagen dimostra che i responsabili dell'Olocausto non furono solo SS o membri del partito nazista, ma tedeschi di ogni estrazione sociale, uomini e donne comuni che brutalizzarono e assassinarono gli ebrei per convinzione ideologica e per libera scelta, senza subire pressioni psicologiche o sociali. Uno sconvolgente atto di accusa, un'opera scientifica nel metodo e provocatoria nelle conclusioni, che è fondamentale per comprendere la peggiore tragedia del XX secolo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081705
Argomento
Storia
Appendice 1

Nota metodologica

Al di là delle indispensabili considerazioni teoriche generali che indirizzano questa ricerca, è altrettanto necessario indicare altre considerazioni metodologiche da cui è informata la nostra indagine sui realizzatori.
Troppe sono le cose che non sappiamo dell’Olocausto e dei suoi realizzatori, e dobbiamo quindi essere selettivi. Questo libro tratta perciò soltanto di alcune delle strutture della morte, e non ha la pretesa di fornire una storia esauriente dell’Olocausto. I casi non sono stati scelti pensando alla fluidità narrativa o all’esaustività, ma per la loro capacità di rispondere a certi quesiti, di verificare certe ipotesi. È un libro soprattutto interpretativo, teorico. La narrazione e la descrizione, che pure sono importanti per definire adeguatamente le azioni dei realizzatori e i loro contesti, sono qui subordinate a obiettivi esplicativi.
Quando ho intrapreso la ricerca empirica che sta alla base di questo studio, ho ritenuto di poter dimostrare l’ipotesi secondo la quale i realizzatori furono motivati a prender parte alla micidiale persecuzione degli ebrei dalle loro convinzioni riguardo alle vittime e per questo, una volta che Hitler ebbe impartito l’ordine dello sterminio, le diverse istituzioni tedesche non faticarono a utilizzare a proprio vantaggio l’antisemitsmo preesistente. Ho quindi scelto di studiare le strutture, e i casi particolari nell’ambito di ciascuna, che in diverso modo consentissero di isolare l’influenza dell’antisemitismo onde verificarne l’efficacia causale. Se l’ipotesi fosse stata errata, i casi prescelti l’avrebbero indubbiamente demolita. Le tre strutture analizzate in profondità sono i battaglioni di polizia, i campi di «lavoro» e le marce della morte; tre ambiti di ricerca peraltro gravemente trascurati dagli studiosi.
La scelta dei casi e dei campioni si è informata a un’ulteriore considerazione. Questa analisi si svolge su due diversi livelli della popolazione: quello dei realizzatori dell’Olocausto e quello più generale dell’intero popolo tedesco, della Germania nazista e della sua cultura politica. Le strutture esaminate devono dunque rispondere a una duplice funzione analitica: dovrebbero aiutarci a scoprire le motivazioni dei realizzatori nei rispettivi contesti, e insieme consentirci di generalizzare sia sui realizzatori in quanto categoria, sia sul secondo gruppo oggetto di studio, il popolo tedesco. Le considerazioni metodologiche che seguono sono quindi in buona parte valide per entrambi i livelli.
Questo studio sottopone a verifica empirica le ipotesi contrastanti di cui si è detto, rifacendosi a una varietà di casi e senza trascurare, se necessario, il confronto con documenti relativi ad agenti non tedeschi e ad altri casi di genocidio. Si basa sulle mie ricerche su un gran numero di unità e strutture diverse che presero parte all’Olocausto: più di 354 battaglioni di polizia impegnati nelle stragi; i 18 Einsatzkommandos, le squadre della morte costituite per lo sterminio degli ebrei sovietici; diversi esempi di ghetti e campi di concentramento; i campi di «lavoro»; Auschwitz e gli altri campi di sterminio; una dozzina di marce della morte avvenute negli ultimissimi giorni di guerra.1 Sebbene dunque i capitoli tematici trattino soltanto pochi casi di battaglioni di polizia, di campi di «lavoro» e di marce della morte, le mie conclusioni si fondano su un patrimonio di conoscenze più vasto. I capitoli della Parte sesta, che riassumono le lezioni apprese dai singoli esempi, fanno riferimento selettivo anche ad altre situazioni. Mi sono però sforzato di non attingere troppo a questi altri casi, perché non si devono pregiudicare le conclusioni cedendo alla tentazione di pescare il materiale più propizio in una gamma troppo vasta di esempi. Mi sono fatto guidare dalla convinzione che l’esame degli uomini (e delle donne) che operavano in diversi tipi di strutture con diversi compiti potesse fornire una prospettiva comparata dei realizzatori, e dunque indicazioni impossibili per uno studio concentrato su un’unica tipologia.2
Tra le molte unità oggetto della mia ricerca, quelli ai quali ho deciso di dedicare maggiore attenzione condividono in genere una serie di caratteristiche, che non compaiono però tutte in tutti i casi. Il criterio principale è costituito dalla possibilità di dimostrare al di là di ogni dubbio che gli uomini delle unità in questione sapevano di non essere costretti a uccidere; dove si dava la minaccia della coercizione diventa difficile stabilire se agissero o no altre motivazioni. Ho scelto inoltre di concentrarmi sui reparti a lungo e ripetutamente impegnati in eccidi in cui il contatto con le vittime era diretto, e chi vi prendeva parte si rendeva protagonista di scene di indicibile raccapriccio – sangue, schegge d’ossa, materia cerebrale – in quanto, per una serie di motivi, le azioni di questo tipo di assassini «di mestiere» pongono problemi interpretativi maggiori di quelle degli assassini occasionali. Tra i reparti che corrispondevano a questi due criteri, mi sono concentrato su quelli costituiti da uomini la cui provenienza pareva renderli i candidati meno adatti al ruolo di assassini volontari. Anche a questo si deve l’enfasi sui battaglioni di polizia, molti dei quali costituiti da tedeschi comuni; sono le azioni di queste persone, non quelle dei seguaci più fanatici di Hitler, le più difficili da spiegare e che dunque impongono la verifica più severa. Ogni interpretazione deve quindi dar conto della loro partecipazione; se sarà in grado di farlo, è assai probabile che possa spiegare anche le azioni dei più zelanti accoliti di Hitler, certo assai più disposti dei seguaci meno entusiasti a mettere in pratica ogni sua decisione, qualunque fosse.
Diversi battaglioni di polizia corrispondono ai criteri esposti. Sorprende rilevare che, fino alla recente pubblicazione di due libri in proposito,3 questi reparti vengono a malapena menzionati nella letteratura sul genocidio nazista. Prima di dare inizio alla mia ricerca (e prima dell’uscita di quei libri) io stesso non conoscevo la portata delle loro azioni, e dunque la rilevanza che esse dovevano assumere per la comprensione di quel periodo della società e della politica tedesca. Molti battaglioni erano costituiti da uomini raccolti a caso (coscritti), privi di un addestramento ideologico particolare, senza precedenti militari, spesso più anziani (sui trentacinque anni), con tanto di famiglia a carico: ben diversi dai malleabili diciottenni che sono così cari agli eserciti. E fu sempre il caso, non un disegno preciso, a portarli all’eccidio: affidando a questi uomini le esecuzioni in massa, il regime si comportava come se qualsiasi tedesco si prestasse a trasformarsi in un assassino genocida. Di tutto questo si è parlato dettagliatamente nella Parte terza.
Lo studio dei campi di «lavoro» è partito dall’intenzione di sottoporre l’ipotesi operativa alla verifica più difficile. Le strutture dedicate alla produzione economica, che per definizione fanno della razionalità la loro bandiera, sarebbero dovute essere meno sensibili all’influenza di un’ideologia preesistente, in questo caso l’antisemitismo. Se il funzionamento dei campi avesse potuto essere spiegato solo con l’antisemitismo del personale responsabile, ciò avrebbe provato in modo convincente l’incidenza dell’antisemitismo sulla condotta dei tedeschi. Ovviamente, se l’ipotesi non avesse retto alla verifica l’avrei dovuta invece scartare, o riformulare, o integrare con altri apporti interpretativi. I campi esaminati più a fondo sono quelli della zona di Lublino in un fase avanzata dell’Olocausto, quando, ufficialmente, gli ebrei erano ancora vivi in Polonia soltanto perché i tedeschi potessero sfruttare la loro forza lavoro. Erano l’epoca e le circostanze in cui i campi di «lavoro» si sarebbero davvero dovuti dedicare esclusivamente alla produzione, e dunque doveva risultare ancor più facile isolare l’eventuale capacità dell’antisemitismo tedesco di minare la razionalità della struttura.
Le marce della morte del 1945, gli ebrei trascinati per le campagne d’Europa dai tedeschi incalzati dagli eserciti alleati, consentono, tra le altre cose, di esaminare le azioni dei realizzatori in un momento in cui, virtualmente privi di ogni forma di controllo, potevano scegliere liberamente come e quando fare ciò che desideravano, e per di più, con la Germania sul punto di diventare un paese sconfitto, occupato e forse anche punito, uccidendo e brutalizzando gli ebrei le guardie si esponevano a gravi rischi. Le marce della morte consentono di valutare la condotta e le motivazioni dei realizzatori, e dunque la misura della loro dedizione all’eccidio, in condizioni di quasi assoluta autonomia; condizioni in cui chi non fosse stato irrimediabilmente votato alla missione di torturare e uccidere gli ebrei se ne sarebbe per forza di cose astenuto. Le marce della morte sottopongono dunque l’ipotesi che i realizzatori fossero motivati dal proprio antisemitismo personale, e dalla conseguente convinzione che fosse giusto massacrare gli ebrei, a un altro tipo di verifica, altrettanto difficile.
Quelli prescelti possono essere considerati «casi cruciali», che cioè presentano le variabili interpretative tendenzialmente più pericolose per la solidità dell’ipotesi proposta. Ma sono anche i casi da cui la mia ipotesi può uscire rafforzata mettendo in atto la sua forza esplicativa.4 Oltre a questo, hanno il merito di consentire l’isolamento dei diversi plausibili fattori delle azioni dei realizzatori, e dunque una certa e necessaria misura di chiarezza analitica.
Ho deciso di studiare nei rispettivi quadri d’insieme alcune specifiche strutture e il loro personale, invece di effettuare la campionatura scientifica di un numero maggiore di soggetti (nella definizione della provenienza dei realizzatori, comunque, i campioni riguardano anche altre strutture). I realizzatori, pensavo, non potevano essere compresi, non si potevano spiegare le loro azioni, se astratti dai loro contesti istituzionali; e non ha molto senso considerarli come individui se non si tiene conto delle loro relazioni sociali immediate. Se non si studiano le unità nell’ambito delle quali essi operavano, si finisce per sapere troppo poco sul carattere della loro vita per poterne valutare correttamente le motivazioni. Le strutture della morte (i battaglioni di polizia, gli Einsatzkommandos, i vari tipi di campi, le marce) erano diverse l’una dall’altra, com’erano diverse tra loro, in una serie di aspetti, le unità all’interno di ciascuna struttura. Studiando una campionatura scientifica di individui inseriti in molte unità si sarebbero cancellate le circostanze istituzionali, materiali e sociopsicologiche nelle quali fu perpetrato l’Olocausto.
Il secondo motivo che mi ha indotto a optare per le singole unità considerate nel loro insieme è che ciò che sappiamo circa le azioni della maggioranza degli individui non è sufficiente a giustificare uno studio basato su quella metodologia. Possiamo scoprire parecchio sul carattere complessivo e il modello di condotta di una data struttura della morte, ma non acquisire una conoscenza altrettanto solida sulla stragrande maggioranza degli individui che costituirebbero i campioni di questa strategia di ricerca. I realizzatori di cui sappiamo molto sono un gruppo poco rappresentativo di persone che le autorità giudiziarie della Repubblica federale sottoposero a indagini serrate perché, in linea generale, avevano occupato posizioni di responsabilità, o perché si erano distinte per la loro condotta particolarmente brutale. Si tratta di personaggi sicuramente interessanti, e non ho esitato a far uso di questi materiali, ma proprio perché il gruppo è poco rappresentativo non può costituire la base di una risposta ai quesiti empirici e teorici generali posti da questo libro.
La scelta dei casi particolari nell’ambito di ciascuna struttura è stata determinata dai criteri di cui si è detto, oltre che dalla disponibilità di dati adeguati. Uno dei problemi nello studio dei realizzatori dell’Olocausto deriva dalla disomogeneità dei materiali esistenti. Sono pochissimi i documenti contemporanei che chiariscono dettagliatamente le loro azioni e motivazioni; per certe strutture della morte, compresi alcuni dei casi qui discussi, non esiste in pratica alcun documento contemporaneo, di nessun tipo. Le nostre fonti primarie sono quindi i materiali ammassati nel dopoguerra durante le indagini sui crimini nazisti, conservati negli archivi giudiziari della Repubblica federale. Gli atti di queste indagini sono la fonte principale, anzi indispensabile se non unica, per lo studio dei carnefici, eppure sono ancora troppo poco utilizzati. Contengono i documenti più importanti che si potessero reperire all’epoca, e soprattutto i verbali degli interrogatori dei realizzatori stessi, delle vittime sopravvissute, dei testimoni oculari.5 Interrogatori e testimonianze consentono spesso di ricostruire un quadro dettagliato della vita in una struttura della morte e della storia di chi vi appartenne. Poiché accade di frequente che diverse persone, talvolta collocate in posizioni ben diverse rispetto alla fossa comune, rendessero testimonianza sui medesimi episodi, esiste la possibilità di un controllo incrociato, che può portare chiarezza e conferma reciproca delle versioni, ma anche contraddizioni risolubili solo sul piano della logica e del giudizio di chi le interpreta.6 Peraltro, quando pure si verificano queste discrepanze inconciliabili, soprattutto per quanto riguarda il numero degli ebrei deportati o uccisi dai tedeschi in una data operazione, in genere esse non hanno particolare rilevanza a fini analitici.7
Le abbondanti e significative testimonianze del dopoguerra vanno esaminate con cautela: oltre ai naturali vuoti di memoria, trattandosi spesso di eventi di oltre vent’anni prima,8 i realizzatori avevano ottimi motivi per tacere, sfuggire, dissimulare, mentire. Le deposizioni sono piene di omissioni, mezze verità e menzogne. Non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di risposte a interrogatori della polizia o di altre autorità giudiziarie in merito a delitti che la nuova società, la Repubblica federale di Germania, e tutto il resto del mondo consideravano tra i più gravi nella storia dell’umanità. Molti di loro avevano passato gli ultimi venti o trent’anni negando, con il silenzio o la menzogna la misura della propria partecipazione al genocidio. Anche quando non potevano nascondere del tutto di aver preso parte all’eccidio, tendevano a negare di avervi aderito con l’anima, la volontà interiore, l’assenso morale. Non farlo avrebbe significato dichiarare alla famiglia, agli amici, ai figli, a una società che ora lo disapprovava: «Sì, sono stato un carnefice autore di stragi e ne vado (o ne andavo) fiero». Dopo anni di abitudine alla repressione e al diniego, si trovavano ora di fronte alle autorità giudiziarie, costretti a fare i conti con le proprie azioni, da tanto tempo rimosse dalla conversazione di ogni giorno. Deve forse sorprenderci che non tenessero troppo a dichiarare a chi li interrogava di avere compiuto stragi, di aver approvato quelle azioni, di averne persino tratto piacere? E come potevano essere sicuri di non essere chiamati a render conto dei propri delitti? L’incentivo a mentire, a non proclamarsi nel numero dei più grandi criminali della storia, era davvero forte. È facile, infatti, dimostrare che hanno mentito spudoratamente, con le parole e con le omissioni, per minimizzare il proprio coinvolgimento fisico e cognitivo negli eccidi. Per questo, l’unica posizione metodologica possibile consiste nel non tener conto di tutte le testimonianze autoassolutorie che non trovino riscontro in altre fonti.9
Tentare di spiegare le azioni dei tedeschi, o anche soltanto di scrivere una storia di quel periodo basandosi su quelle autoassoluzioni sarebbe un po’ come scrivere una storia della criminalità in America sulla base delle dichiarazioni rese dai criminali alla polizia, all’accusa o al tribunale. Quasi sempre i criminali si proclamano ingiustamente accusati, e senza dubbio tendono a non fornire di propria spontanea volontà informazioni sui reati da loro eventualmente commessi di cui le autorità non siano al corrente. Se poi si trovano nell’impossibilità di negare la colpa materiale, cercano in ogni modo di riversare la responsabilità su altri. Alle domande del tribunale, o dei mezzi di informazione, rispondono in genere, anche con convinzione e passione, di provare orrore per i delitti che pure, nonostante tutte le loro proteste, hanno commesso. Posti di fronte all’autorità, e alla società in generale, i criminali mentono sulle proprie azioni e sui propri motivi. Anche dopo la condanna, anche dopo la presentazione di prove sufficienti a convincere al di là di ogni ragionevole dubbio una giuria della loro colpevolezza, i criminali tendono a proclamarsi innocenti. Perché mai i complici di uno dei maggiori delitti della storia dovrebbero essere più autolesionisticamente onesti degli altri?
Accettare le autoassoluzioni dei realizzatori senza controprove significa entrare in un labirinto di falsi sentieri, nel quale diventa impossibile ritrovare la strada della verità. Se fossero veritiere, peraltro, sarebbero inevitabilmente emerse le più diverse testimonianze a loro conferma; ma ciò accade di rado. Come dimostrano nel dettaglio i capitoli di questo libro, se i realizzatori avessero davvero disapprovato l’omicidio in massa, se davvero non avessero voluto prendervi parte, si sarebbero potuti servire di molti modi per esprimerlo – dal rifiuto di uccidere alla dichiarazione simbolica di dissenso, alla protesta nella conversazione con i camerati10 – che avrebbero provocato conseguenze personali di poco o nessun conto.11

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa all’edizione tedesca
  4. Referenze fotografiche
  5. I volonterosi carnefici di Hitler
  6. Introduzione. Ripensare gli aspetti principali dell’Olocausto
  7. Parte prima. Capire l’antisemitismo tedesco: la mentalità eliminazionista
  8. Parte seconda. Il programma eliminazionista e le strutture
  9. Parte terza. I battaglioni di polizia: tedeschi comuni, volonterosi assassini
  10. Parte quarta. Il «lavoro» degli ebrei come annientamento
  11. Parte quinta. Le marce della morte: fino agli ultimi giorni
  12. Parte sesta. L’antisemitismo eliminazionista: tedeschi comuni, volonterosi carnefici.
  13. Epilogo. La rivoluzione nazista in Germania
  14. Appendice 1. Nota metodologica
  15. Appendice 2. Schema delle teorie dominanti in Germania sugli ebrei, i malati di mente e gli slavi
  16. Pseudonimi
  17. Note
  18. Ringraziamenti
  19. Inserto fotografico
  20. Copyright