Porto il mio abisso e cammino. Cancello le strade che si intravedono, apro le strade lunghe come l’aria e la terra, creando nemici dai miei passi, nemici alla mia altezza. L’abisso è il mio guanciale, le rovine intercedono per me.
In verità, io sono la morte.
Le orazioni funebri sono le mie formule, cancello e attendo chi mi cancellerà. Nessuna anomalia nel mio fumo e nel mio incantesimo. Così vivo nella memoria dell’aria.
Scopro alla nostra epoca un timbro e una cadenza
– epoca che si sgretola come sabbia e si salda come zinco, epoca delle nuvole chiamate greggi, delle lamiere chiamate cervelli. Epoca della sottomissione e del miraggio, epoca della marionetta e dello spaventapasseri, epoca dell’istante vorace, epoca di un declino senza fondo –
Non ho arteria per questa epoca – sono disperso e nulla mi raccoglie.
Creo una passione simile all’alito del drago.
Vivo segretamente in grembo all’unico che verrà. Mi proteggo con l’infanzia della notte, abbandonando la mia testa sulle ginocchia del mattino. Esco e scrivo i libri dell’Esodo, nessuna promessa m’attende.
Sono profeta e incredulo.
Impasto il lievito della caduta, lascio il passato alla sua caduta e scelgo me stesso. Appiattisco l’epoca e la spiano. La chiamo: o gigante mostruoso, o mostruoso gigante! E rido e piango.
Sono una prova contro l’epoca.
Cancello le tracce e le macchie dentro di me. Lavo la mia interiorità e la lascio sgombra e pulita. Così vivo sotto me stesso.
Le mie vene si nutrono di sangue e non c’è posto per me tra i morti. La vita è una vittima e non so morire – il mio tempo è nascosto, è sotto gli occhi, ieri sono entrato nel rito delle onde e l’acqua era la mia fiamma.
Mi affretto poiché la morte mi perseguita ammassando i suoi venti tra i miei occhi. Rido con lei e piango nel battito delle ciglia – ahi morte buffona, morte piangente.
So di essere nella fessura della morte, mi addentro nella tomba, farfuglio le mie parole, ma sono ancora vivo – gli altri lo sanno.
Attacco e sradico, passo e disprezzo. Là dove passo scendono le cascate di un altro mondo, là dove passo è la morte, il non passaggio.
E rimarrò, racchiuso in me stesso.
1
Le foglie che dormono sotto il vento
sono nave per la ferita
il tempo fugace è la gloria della ferita
e gli alberi che si allungano tra le nostre ciglia
sono lago per la ferita.
La ferita è nei ponti,
quando la tomba si allunga
quando la pazienza si prolunga
tra le rive del nostro amore e della morte,
e la ferita
è segno, la ferita è nel passaggio.
2
A una lingua dai suoni soffocati
dono la voce della ferita
alla pietra proveniente di lontano
al mondo arido, all’aridità
al tempo portato sulla barella del ghiaccio
accendo il fuoco della ferita
e quando la storia brucerà nelle mie vesti
e le unghie azzurre spunteranno nel mio libro
e quando griderò al giorno:
chi sei, chi ti ha gettato nei miei quaderni
nella mia terra vergine?
Scorgerò nei miei quaderni, nella mia terra vergine
occhi di polvere
sentirò chi dice:
“Sono la ferita del divenire
che cresce nella tua piccola storia”.
3
Ti ho chiamata nube
o ferita, colomba della partenza
ti ho chiamata penna e libro
ed eccomi iniziare il dialogo
tra me e la lingua dispersa
nelle isole dei viaggi
nell’arcipelago dell’antica caduta.
Eccomi insegnare il dialogo al vento e alle palme
o ferita, o colomba della partenza.
4
Se nella patria dei sogni e degli specchi avessi avuto
dei porti, se avessi avuto un vascello,
se avessi avuto i resti
di una città, se avessi avuto una città
nel paese dei fanciulli e del pianto,
avrei fuso tutto ciò per la ferita
in un canto che come lancia
trafigge gli alberi, le pietre e il cielo
morbido come l’acqua
caparbio e stravolto come la conquista.
5
Scendi pioggia sui nostri deserti
o mondo parato di sogno e nostalgia
scendi pioggia, ma scuotici noi palme della ferita
e spezza per noi due rami
d’alberi che amano il silenzio della ferita
ciglia e mani ricurve.
O mondo che cadi sulla mia fronte
disegnato come la ferita
non avvicinarti, più vicina di te è la ferita
non tentarmi, più bella di te è la ferita
e quell’incanto che i tuoi occhi
hanno gettato sugli ultimi regni
la ferita l’ha sorpassato
è passata senza lasciargli una vela
tentatrice, senza lasciargli un’isola.
È morto un dio sceso
da lassù, dal cranio del cielo.
Forse dal terrore e dalla morte
dalla disperazione e dalla erranza
dal mio profondo un dio sorgerà;
forse, perché la terra per me è letto e sposa,
e il mondo s’inchina.
Mi smarrisco, getto il mio volto al mattino e alla polvere
lo getto alla follia
i miei occhi sono d’erba e di fuoco
i miei occhi sono stendardi e migranti.
Mi smarrisco, getto il mio volto al mattino e alla polvere
nasco alla fine del cammino
grido – che gridino con me il cammino e la polvere:
“Dio com’è bello smarrirsi dove mi porta il mio volto
smarrirsi ricolmo di fuoco
o tomba, mia fine al principio di primavera”.
Amo questa mite pietra
ho visto il mio volto nei suoi lineamenti
ho visto la mia poesia perduta.
Vivo tra il fuoco e la peste
con la mia lingua, con questi mondi muti
vivo nel giardino delle mele e del cielo
nella prima gioia e nella prostrazione
dinanzi a Eva
signore di quegli alberi maledetti
signore dei frutti.
Vivo tra le nubi e le scintille
in una pietra che cresce, in un libro
che insegna i misteri e la caduta.
– Chi sei, chi scegli o Mihyar?
Ovunque ti dirigi c’è Dio o l’abisso satanico
un abisso va, un abisso viene
il mondo è una scelta.
– Non scelgo né Dio né Satana
ambedue sono muro
ambedue mi sigillano gli occhi
dovrei cambiare un muro con un muro?
La mia incertezza è quella di chi illumina
è l’incertezza di chi sa ogni cosa...