Metti via quel cellulare
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Metti via quel cellulare

Un papà. Due figli. Una rivoluzione

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Metti via quel cellulare

Un papà. Due figli. Una rivoluzione

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Aldo Cazzullo si rivolge ai figli e a tutti i ragazzi: li invita a non confondere la vita virtuale con quella reale, a non bruciarsi davanti ai videogame, a non andare sempre in giro con le cuffiette, a non rinunciare ai libri, al cinema, ai concerti, al teatro; e soprattutto a salvare i rapporti umani con i parenti e i professori, la gioia della conversazione vera e non attraverso le chat e le faccine.

I suoi figli, Francesco e Rossana, rispondono spiegando al padre e a tutti gli adulti il rapporto della loro generazione con il telefonino e la rete: che consente di vivere una vita più ricca, di conoscere persone nuove, di mettere lo studente al centro della scuola, di leggere i classici.

Ne nasce un dialogo serrato sui rischi e sulle opportunità del nostro tempo: la cattiveria online, gli youtuber e l'elogio dell'ignoranza, i cyberbulli, gli idoli del web, i padroni delle anime da Facebook ad Amazon, l'educazione sentimentale affidata a YouPorn, la distruzione dei posti di lavoro e della cultura tradizionale, i nuovi politici da Trump a Grillo, sino all'uomo artificiale; ma anche le possibilità dei social, i nonni che imparano a usare le chat per parlare coi nipoti, la rivolta contro le dittature, la nascita di una gioventù globale unita dalla rete.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852082559
VIII

I padroni delle anime

La rivoluzione digitale non è la prima della storia dell’umanità. Ma è la prima in cui i padroni sono considerati eroi. In cui i più forti sono anche i buoni.
Gli artefici della rivoluzione industriale erano i cattivi. I padroni delle ferriere. Il «sior paron da le bele braghe bianche» che non sganciava le palanche. Gli imprenditori manchesteriani che sfruttavano i bambini. Le dinastie americane dell’acciaio che ingaggiavano milizie private per sparare sugli operai in sciopero. I Vanderbilt, i Frick, i Rockefeller, che per lavarsi l’anima fondavano opere caritatevoli, assemblavano collezioni d’arte nei loro palazzi su Central Park, o chiamavano il comunista messicano Diego Rivera ad affrescare i poveri nei murales dei loro grattacieli (salvo cancellarli se l’artista si ostinava a ritrarre anche Lenin).
Oggi gli artefici della rivoluzione digitale sono considerati benefattori dell’umanità. Una via di mezzo tra Leonardo da Vinci e Albert Sabin, forse il più grande uomo del Novecento, che rinuncia a brevettare il vaccino contro la poliomielite: «È il mio regalo a tutti i bambini del mondo» (quando mio padre mi raccontò questa storia la voce gli si incrinò per l’emozione, e io ne fui turbato perché non avevo mai visto mio padre commuoversi). Ecco, il grande equivoco è che tutto, Google, i social, la rete, sia un gigantesco regalo. Non è forse tutto gratis? Così, a forza di regali, i padroni della rete sono diventati i padroni delle anime.
Ho conosciuto l’uomo da cui tutto quanto ha avuto inizio, il Prometeo che portò la scintilla della rivoluzione digitale: Bill Gates. Mi ha molto deluso. Siamo stati un’ora insieme e ha parlato solo di soldi. Del resto ne ha molti: 85 miliardi di dollari, più del prodotto interno lordo del Kenya e dell’Etiopia messi assieme. Quello è: un businessman, un uomo d’affari. Certo consapevole di avere un ruolo globale; ad esempio ha creato con la moglie Melissa una Fondazione che si batte per eradicare la malaria dal Kenya e dall’Etiopia. Resta il fatto che Microsoft si è dovuta difendere in tutto il mondo – e talora, ad esempio in Europa, ha perso – dall’accusa di aver conquistato e difeso il monopolio dei software dei computer: un potere immenso.
Com’è ovvio, Bill Gates è un uomo molto intelligente. Nell’intervista mi anticipò cose che poi sarebbero successe. Come l’invenzione del tablet. Che però fu messa a profitto dal suo storico rivale: Steve Jobs.
Oggi la rivoluzione digitale è portata avanti dalla generazione successiva. E i protagonisti sono oggetto di un’agiografia imbarazzante. Spesso scritta dalle loro vittime, da coloro che hanno contribuito ad assassinare: i giornali.
La visita di Mark Zuckerberg in Italia è stata raccontata come fosse quella del Papa. Il Papa, quello vero, l’ha ricevuto come un capo di Stato, anzi il capo dello Stato più grande al mondo: Facebook ha un miliardo e 800 milioni di clienti, più dei cinesi. E pazienza se Francesco ha biasimato, nella sua bellissima enciclica Laudato si’, «l’insoddisfazione malinconica» con cui si esce da un pomeriggio passato sui social.
Anche Zuckerberg scrive le sue encicliche. Lettere ai dipendenti che sono state interpretate come il manifesto dell’opposizione a Trump, e della sua candidatura a presidente degli Stati Uniti. In realtà, la sua ambizione è molto più vasta. Zuckerberg non vuole conquistare solo l’America. Si propone di fondare un mondo nuovo, di cui – l’avete detto voi, ricordate?, parlando del suo videogame preferito – sarà l’imperatore naturale.
Dopo le ere «delle tribù, delle città, delle nazioni» nascerà l’epoca della comunità globale. Riunita attorno al totem di Facebook. Che cambia la vita. Fa del globo una grande famiglia. Aiuta a ritrovare i bambini smarriti. Si sta attrezzando per evitare i suicidi e fermare i terroristi.
C’è una foto che rappresenta bene il meraviglioso mondo di Zuckerberg. La platea sorridente e beata ha gli occhi coperti da un visore – ovviamente prodotto da Facebook – per la realtà virtuale. L’unico a non averlo è lui, Mark, che cammina verso il palco. Quando gli adoratori si toglieranno il visore e apriranno gli occhi sulla realtà reale, vedranno Lui.
Trump è stato eletto anche grazie alle notizie false che avevano invaso la rete e i social? Zuckerberg ha provato a negarlo, poi l’ha riconosciuto, promettendo che in futuro i «fakes» saranno eliminati. Nel frattempo Facebook guadagna anche sulla moltiplicazione delle versioni dello stesso fatto, vere o false che siano. E sulle code polemiche, insulti compresi. Ovviamente le notizie false sono quelle più lette.
In fondo, cosa conta? Ogni anno Mark fa un buon proposito per diventare migliore, e noi lo seguiamo trepidanti. Nel 2009 ha promesso di indossare più spesso la cravatta, nel 2010 di imparare il cinese, nel 2011 di diventare vegetariano, nel 2012 di correre 365 miglia, nel 2013 di incontrare ogni giorno almeno una persona che non è su Facebook. Nel 2014 ha mandato ogni giorno a qualcuno un biglietto di ringraziamento scritto a mano, nel 2015 ha letto due libri al mese, nel 2016 ha inventato un programma di intelligenza artificiale per la casa e l’ha chiamato Jarvis, come l’aiutante di Iron Man. Nel 2017 ha visitato tutti gli Stati americani. In futuro donerà in beneficenza il 99 per cento delle azioni di Facebook, circa 50 miliardi di dollari; ma non subito, «nell’arco della vita». Tanto ha solo 32 anni, e può aspettare, lui.

FRANCESCO & ROSSANA

Papà, tu non hai letto il discorso che Mark Zuckerberg ha fatto agli studenti di Harvard il 25 maggio 2017, in cui tiene conto di molte delle obiezioni che fai, e dà delle risposte. Te ne leggiamo un passo.
«I vostri genitori si sono laureati in un’epoca in cui il lavoro, la Chiesa o la comunità davano un senso alla loro vita. Ma oggi la tecnologia e l’automazione cancellano molti lavori. L’adesione alle comunità è in declino. In tanti si sentono sconnessi e depressi. Avvertono un vuoto, e non sanno come colmarlo.»
Dice Zuckerberg che la parola «libertà» non significa nulla, se non hai gli strumenti per fare davvero quello che saresti libero di fare. Quindi dobbiamo ripristinare l’uguaglianza delle chances: tutti uguali sulla linea di partenza, e vinca il migliore. Chi resta indietro dovrebbe avere un reddito minimo universale; anche se in effetti, e su questo siamo d’accordo con te, se tutte le multinazionali pagassero le tasse nei vari Paesi, aiutare i poveri sarebbe più facile.
Poi il fondatore di Facebook dice un’altra cosa interessante: «La battaglia del nostro tempo è tra le forze della libertà, della collaborazione internazionale, dell’apertura di spirito, contro le forze dell’autoritarismo, dell’isolazionismo e del nazionalismo».
In tutto il mondo, a Mosca, a Teheran, a Caracas, giovani poco più grandi di noi si battono contro i leader autoritari. Questi ragazzi vengono manganellati, innaffiati con gli idranti, arrestati, alcuni persino uccisi. Sono accomunati dagli stessi ideali: non protestano per avere più soldi; chiedono libertà di parola, vere elezioni, possibilità di vestirsi come vogliono e di leggere ciò che vogliono.
E quello che li unisce è proprio la rete. È sui social che entrano in contatto tra loro, si parlano, si scambiano informazioni, trovano compagni con cui battersi e ragioni per farlo.
Questo fenomeno succede anche nei Paesi dove la libertà e la democrazia esistono. Il primo ministro indiano Modi ha detto ai ministri di mettere su Facebook tutto quello che stanno facendo. Toccherà poi agli indiani stabilire se è una cosa seria o solo propaganda.
Su Facebook la quindicenne di Napoli violentata a Marechiaro nell’estate 2017 ha riconosciuto i suoi aggressori; e li ha fatti arrestare.
Non dubito che i capi della rivoluzione digitale siano per la società aperta, per la libertà. Ma si contraddicono; perché costruiscono monopoli. Travestiti da chiese.
L’afflato mistico è comune a tutti i padroni delle anime. «Google è una religione che si comporta da impresa» teorizza Paul Saffo, che a Silicon Valley guida un istituto dal nome ambizioso: Institute for the Future.
Google l’hanno inventata due ragazzi che tra loro si chiamano gli Evangelisti, i portatori della buona novella: Larry Page, detto Saint Lawrence, e un suo compagno di studi a Stanford di origine russa, Sergey Brin. I loro dipendenti sono quasi tutti ventenni, al massimo trentenni. La sede somiglia a un campus: distributori gratuiti di succhi di frutta, poltrone con massaggio incorporato, ciotole stracolme di dolci, prato con la sabbia per il beach-volley. Sala-fitness. Gli edifici sono fatti di materiali riciclati. Ci si sposta sui monopattini elettrici. Larry e Sergey hanno due Toyota ibride; avrebbero anche due Boeing 767 da 250 posti, ma sono in garage (il garage è un elemento centrale della mistica di Internet: tutti hanno cominciato in un garage).
Una volta alla settimana i fondatori incontrano i dipendenti, e rispondono a ogni domanda, anche a quelle indiscrete. Unico obbligo aziendale: «Riservate il 20 per cento del tempo di lavoro a fare qualcosa che vi piace». Tutti sono buoni, o almeno buonisti: non si accettano pubblicità di armi e neppure di superalcolici, che fanno così male. Ogni tanto verificano il loro potere facendo uno scherzo, ad esempio pubblicando un annuncio: cercasi personale per la nuova sede di Google sulla Luna. Sono arrivati migliaia di curriculum.
Anche Sergey Brin però è un essere umano, che si fidanza con la segretaria. La moglie l’ha scoperto e l’ha lasciato. La notizia è stata data sul blog. In fondo c’era questo avviso: «AllThingsD has disabled comments for this post». Perché si può commentare tutto, la vita e la morte, l’amore e l’abbandono; ma non si può commentare il post sul divorzio del capo.
Gates, Zuckerberg, Page, Brin sono certo dei geni. Lo è anche Jack Dorsey, l’inventore di Twitter: da bambino ascoltava i messaggi-lampo sulla radio della polizia, da grande ha conquistato milioni di persone e li ha fatti sentire geni dell’aforisma. Tutto questo è fantastico. C’è un solo problema.
Le compagnie high-tech sono tra le principali responsabili delle enormi e crescenti disuguaglianze. La gigantesca ricchezza prodotta da Internet è circoscritta in pochissime mani.
La rete crea nuovi posti di lavoro; ma sono molti di più quelli che distrugge. E sono lavori un tempo ben pagati, «sicuri», stabili; di quelli che richiedevano studio e formazione ma ti consentivano di costruirti una vita, una famiglia, un futuro.
Se l’automazione ha distrutto il lavoro operaio, la rete sta distruggendo il lavoro dei ceti medi.
Le banche licenziano, perché i bonifici li facciamo online. La agenzie di viaggio chiudono, perché i biglietti aerei li compriamo sul web. Gli agenti immobiliari diventano superflui, se la casa si può visitare in rete. Le assicurazioni non assumono, visto che le pratiche si possono sbrigare sul sito.
Ovviamente, la rete non fa tutto da sola; siamo noi a fare il lavoro che un tempo faceva l’impiegato. Che oggi diventa inutile, e domani non esisterà più.
Avete ragione, la rivoluzione non si ferma, il futuro non può piegarsi alle convenienze di noi esseri umani. Però noi ai nostri nuovi padroni baciamo le mani. Li pensiamo ancora come benefattori. E pazienza se non amano pagare le tasse, e vanno alla ricerca dei Paesi – in Europa c’è l’Irlanda – disposti a ospitarli senza chiedere un euro di imposta, per l’indotto che porta la presenza di una multinazionale delle anime.

FRANCESCO & ROSSANA

Hai visto il film Lion? Parla di un bambino indiano che si addormenta su un treno e si ritrova a migliaia di chilometri da casa. Non ricorda neanche bene il nome del suo villaggio, l’unica cosa che gli è rimasta in mente è la grande torre dell’acqua vicino alla stazione. Cresce in un Paese diverso, adottato da una famiglia australiana. Una volta adulto però, spinto dal desiderio di ritrovare le sue origini, riesce a rintracciare il suo villaggio su Google Earth, dopo intere notti passate a cercare la torre dell’acqua. Così ritrova la madre.
È una storia vera, per quanto suoni incredibile, ma è anche una metafora del potere positivo della rete, e in questo caso di Google, che non distrugge il nostro passato ma lo rinnova. Non a caso molti ragazzi di piccoli Paesi del Terzo Mondo collaborano con Google gratuitamente, traducendo i testi nella loro lingua; così connettono la loro nazione al mondo globale.
Funziona così pure Wikipedia: ognuno porta il suo pezzetto e lo aggiunge alla conoscenza altrui; alla fine ottieni un grande puzzle, che ci racconta molte più storie di quante ognuno di noi possa sapere da solo. Questa è la vera novità della rete: il sapere è gratuito perché si basa sulla condivisione, ed è bello che le persone vogliano trasmettere quello che sanno ad altri che nemmeno conoscono, arricchire la cultura altrui, senza essere pagati per questo.
È lo stesso anche per il lavoro. Si troveranno di meno i lavori del passato, ma si faranno molti lavori nuovi, più creativi.
Del resto, il campo del lavoro è in costante sviluppo da sempre: quando l’Italia è diventata uno Stato il 70 per cento dei lavoratori erano contadini, quando sei nato tu la maggioranza erano operai, ora la maggioranza sono impiegati. Noi domani forse faremo un lavoro che ora non esiste; o forse non esistono ancora i nomi per definirlo.
Sì, ragazzi, lo so, c’è anche il mito delle start-up. Sono stato a una riunione di start-upper a Milano. Erano giovani svegli, in gamba. Ma tutte le loro microaziende funzionavano con lo stesso principio: un’app che consente di sapere dove c’è una persona che ha bisogno dei tuoi servizi: una baby-sitter, una cena giapponese, un’auto elettrica. Insomma, fanno in modo più rapido una cosa antichissima, un tempo affidata agli esseri umani: mettere in contatto domanda e offerta. Oppure gestiscono sistemi di pagamento via smartphone. Comodissimo; peccato che prima o poi, senza lavoro vero, i soldi per pagare finiscono.
Sapete che ho criticato spesso il servizio di taxi nelle grandi città italiane, in particolare a Roma: l’unica metropoli al mondo dove non si trovano i taxi in stazione. Però i tassisti li capisco: hanno pagato a volte 100 o 200 mila euro la licenza; e ora arriva Uber che consente a chiunque di trasformarsi in tassista, a prezzi più bassi perché lavora per conto di una multinazionale. Oggi è un altro essere umano; domani sarà un robot, o un’auto che si guida da sé.
È l’«uberizzazione» della società: ora ci vanno di mezzo i tassisti; prima o poi, però, tocca a tutti. Ai medici sostituiti dal chirurgo-automa, agli ingegneri, ai giornalisti. L’editore di «Nikkei», il più grande quotidiano economico del mondo, ha annunciato che gli articoli più semplici saranno affidati all’intelligenza artificiale; «ad esempio quelli sulle trimestrali delle aziende». Vi dico io come andrà a finire: le aziende manderanno le notizie che vorranno far conoscere, e il sistema informatico del giornale copierà e incollerà.
Ma il più grande distruttore di lavoro di tutti i tempi è lui: Jeff Bezos. L’inventore di Amazon. Un’azienda fantastica, e dico sul serio. Ha iniziato con i libri, e ora vende di tutto. Ha anche aperto i primi negozi veri, rigorosamente senza personale, per vendere mobili ed elettrodomestici: prodotti costosi, che di solito il cliente vuole vedere di persona prima di acquistare. I negozi Amazon serviranno da vetrina per divani e lavatrici, che potranno poi esser...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Metti via quel cellulare
  4. I. Metti via quel cellulare
  5. II. La famiglia ai tempi del telefonino
  6. III. L’era della stupidità
  7. IV. I cattivi e i fragili dei videogame
  8. V. Bulli e vittime dei social
  9. VI. Gutenberg era Marzullo al confronto
  10. VII. Idoli del web
  11. VIII. I padroni delle anime
  12. IX. La scuola ai tempi del telefonino
  13. X. Grande Fratello Internet
  14. XI. Generazione senza politica
  15. XII. Il mondo che verrà
  16. Conclusione
  17. Copyright