Gli occhi di Rembrandt
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Gli occhi di Rembrandt

  1. 976 pagine
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A più di tre secoli dalla morte, Rembrandt, tra i più amati maestri della pittura, rimane un mistero. Le notizie sulla sua vita sono scarne: figlio di un mugnaio di Leida, trovò per qualche tempo la fama ad Amsterdam ma, nonostante l'unanime riconoscimento del suo genio, fece bancarotta e morì in povertà. Attraverso un'accurata e appassionata descrizione e interpretazione della sua opera, Simon Schama delinea il profilo di un uomo alla perenne ricerca di sé ed esplora con grazia anche l'universo degli affetti di Rembrandt: l'amatissima Saskia, moglie e modella, l'adorato figlio Titus, morto di peste, infine l'amante Hendrickje, compagna premurosa della sua tormentata maturità. Ma Gli occhi di Rembrandt va ben oltre i confini della biografia tradizionale e rievoca suoni e colori di una Amsterdam crocevia del mondo. Soprattutto avvicina il lettore al segreto di un'arte rivoluzionaria, permettendogli di guardare la vita con gli occhi del grande maestro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852082016
Argomento
Art
Categoria
Art General
Parte quarta

Il prodigo

Capitolo settimo

Anatomia di Amsterdam

I La città in cinque sensi

Da una prospettiva a volo di gabbiano la grande città ricordava: una mezzaluna; un pezzo di formaggio rosicchiato dai topi; una culla con la base nei campi meridionali e l’incavo aperto alle acque brune dell’IJ; la chiglia tozza di un noordvaarder in attesa di alberi e vele, scotte e sartie per mettersi in viaggio; un cuscino imbottito di paglia, sagomato dal peso di una grossa testa.
Da qualche parte in mezzo alle sue centomila e passa anime c’era un comune pittore che produceva l’ennesima Allegoria dei cinque sensi.
DE REUK (L’OLFATTO). Prima di tutto c’era lo Zuider Zee, che penetrava dal braccio dell’IJ e veniva a sciabordare contro la doppia fila di viscide palizzate che separavano il porto esterno dal porto interno, portando grovigli d’alghe e relitti, pescetti di poco conto e minuscoli crostacei da cui emanava un afrore di salsedine, legno marcio, acqua di sentina e i resti strigliati dalle maree di innumerevoli creature nascoste nei gusci di littorine e cirripedi. Negli arsenali dietro la prima fila di case affacciate sulle banchine l’aria era impregnata di altri odori. Cataste di legname stagionavano all’aperto, alcuni pezzi già curvati per costituire l’ossatura di una chiglia. Chi percorresse i vicoli paralleli al porto aspirando la fragranza del legno di abete (per le alberature), di quercia e faggio (per gli scafi) poteva illudersi per un istante di trovarsi in un bosco della Norvegia all’epoca dei tagli.
L’illusione non sopravviveva agli effluvi di bordelli e taverne. Dietro le banchine, le straducole attorno allo Jan Rodenpoort e allo Haarlemmerpoort esalavano una complessa architettura di puzzi. Il sottofondo era costituito dal perenne sentore delle valve delle cozze, sopra cui si levava l’ossario dolciastro degli scarti di gamberetti e granchi, aragoste e scampi, festino di gatti. Ma anche quel miscuglio era preferibile al lezzo che accompagnava il viaggio notturno delle chiatte del letame, che transitavano placide e ineluttabili attraverso le chiuse dell’Amstel in direzione dell’IJ, per recapitare il loro mefitico carico ai coltivatori di fragole di Aalsmeer, ai produttori di carote di Beverwijk a ovest e di Hoorn a nord, che lo pagavano in moneta sonante. I vuilnisvaarders (trasportatori di letame) erano a loro modo altamente specializzati: lo sterco di pecora andava ai coltivatori di tabacco intorno ad Amersfoort, lo stallatico di cavallo agli orticoltori che lo mescolavano a quella terra di miracolosa fertilità da cui spuntavano cavoli, ravizzone e fagioli con abbondanza e regolarità ineguagliate nel resto d’Europa. E se dobbiamo credere al drammaturgo Bredero, ad Amsterdam c’era perfino chi era disposto ad acquistare urina da rivendere alle concerie.1 In Olanda lo spreco era una contraddizione in termini. Perfino residui industriali quali la potassa dei fabbricanti di sapone si riciclavano come fertilizzanti. Le barche che trasportavano letame, in teoria, dovevano viaggiare di notte, ma gli abitanti delle case situate lungo il percorso si premuravano di chiudere le persiane prima dell’imbrunire, per timore che il fetore penetrasse da spiragli e fessure.
Nelle due pagine seguenti: Joan Blaeu, carta di Amsterdam, 1649. Collezione privata.
Nelle due pagine seguenti: Joan Blaeu, carta di Amsterdam, 1649. Collezione privata.
Ma il miasma più fetido era l’odore di morte che aleggiava intorno al Karthuizerskerkhof nelle estati di peste – 1624, 1635 –, quando i corpi da seppellire erano troppi e mancavano le braccia per scavare le fosse; allora il piccolo cimitero si riempiva di processioni nerovestite in ordinati ranghi di due, che in assoluto silenzio attendevano di entrare o di uscire, muti ingorghi di dolenti. Se c’era spazio si stendevano in terra le lenzuola dei morti ad asciugare, ben impregnate d’aceto per scongiurare la diffusione del contagio. Non era luogo dove cercasse lavoro chi aveva lo stomaco delicato. Costoro, del resto, stavano alla larga anche dalle vasche dei tintori, dai fabbricanti di sego, dai macellai che imbottivano budella con trippe, fegato, lardo e miscugli di cereali, per farne salsicce per l’inverno.
Contro tanti puzzi, Amsterdam schierava profumi per quantità, intensità e varietà sufficienti a soddisfare i nasi più schizzinosi. Nelle mattine di primavera, chi percorreva le strade scegliendo un itinerario che evitasse saggiamente le zone tra il Prinsengracht e il porto, dove erano condensate le tintorie (sul Bloemgracht) e le fabbriche di saponi (in St. Jacobskapelsteeg), poteva addirittura figurarsi che la città si fosse mutata in un gigantesco portaprofumi. Nei mercati delle erbe si vendevano dittamo, lavanda, rosmarino, finocchiella confezionati in «sacchetti aromatici» da portare al polso o al collo per difendersi dai miasmi; non guastavano, ché carogne di animali – cani, gatti, maiali, ogni tanto un cavallo – potevano affiorare da un momento all’altro nella lordura dei canali. Per mascherare il lezzo della putrefazione, i ricchi impregnavano i bei guanti di capretto o di vitello con acqua di rose proveniente dalla Turchia. Intorno ai magazzini della Compagnia delle Indie orientali aleggiavano invisibili nuvole di profumi esotici: cannella e garofano, noce moscata e macis. Di prima mattina dai forni nei pressi del Nes usciva con il sentore del lievito l’intensa fragranza di quelle spezie – chiodi, polveri, bastoncelli –, che si brunivano e si spaccavano cedendo il loro aroma a pani, torte, biscotti, dolci destinati alle mense dei raffinati e degli opulenti.
I nasi eleganti aspiravano con sussiego il bouquet di vini pregiati, il bianco Mosella e il rosso Malvasia. I nasi comuni, giovani e vecchi, diritti o bitorzoluti, andavano parimenti in solluchero per le birre al malto che notte e giorno colmavano gli opachi boccali di peltro e i verdi roemers (calici) di vetro. Al sorgere del sole liquami e pozzanghere che avevano acquistato un loro puzzo tutto particolare venivano soffocati dall’odore pungente del ranno, la soluzione di ceneri vegetali che era impiegata per lavare pavimenti e pareti tanto nelle case popolari quanto nelle dimore dei ricchi. Ma neppure la serva più coscienziosa e la huisvrouw (padrona di casa) più accanita, per quanti sforzi facessero, riuscivano a debellare del tutto il tanfo di muffa che si insinuava con l’aria umida dei canali anche nei più robusti bauli per la biancheria, nelle tende e negli stuoini di vimini più frequentemente esposti al sole. Si cercava di prevenire e si correva ai ripari. Nelle case dei nasi fini, pacchetti di fiori ed erbe aromatiche essiccati, specialmente lavanda, venivano distribuiti nei letti prima di sera. E nelle stanze comparivano librerie con sportelli in vetro studiate apposta per impedire l’invasione di quel fungo che scoloriva e macchiava la bella carta dei libri anche quando erano riposti in grossi bauli. Per lo stesso motivo i tappeti stavano sui tavoli, anziché sul pavimento.
Qualche facile rimedio contro il pervasivo odore di umido esisteva. In primavera e in estate si potevano sistemare sulla credenza in vasi di ceramica mazzi di rose muschiate e damaschine, magari inframmezzate da violacciocche e gigli maculati dal profumo dolciastro. In inverno (in tutte le stagioni, dicevano gli entusiasti) si ricorreva alle lunghe pipe di tabacco «condito» con spezie e droghe – semi di giusquiamo, belladonna e financo la «bacca indiana» a noi nota con il nome di coca – il cui fumo si diceva fugasse l’umidità febbrifera. Con l’avvento della primavera, quando le giornate si facevano più chiare e più lunghe, bastava camminare un’ora a sud lungo le rive dell’Amstel, oltre canne da pesca e cani randagi e dorsi nudi di ragazzini sguazzanti nell’acqua, per raggiungere pascoli e boschetti cedui. Ancora qualche passo e l’aria si profumava di fiori di tiglio e d’erba falciata e qua e là si incontravano macchie di pioppi e sicomori orlate di primule e campanule. Il cavaliere che avesse trascorso fuori l’intera giornata e all’imbrunire tornasse verso le porte della città, vedeva la sua cavalcatura annusare l’aria e drizzare le orecchie quando all’orizzonte compariva il profilo di Amsterdam irto di torri e campanili, come se fin là giungesse l’odore dell’umanità che sudava sotto strati di saia e di lino.
HET GEHOOR (L’UDITO). Una città di ticchettii, retta dall’impietoso governo degli strumenti per misurare il tempo: orologi di ogni forma e dimensione, a pendolo e a molla, bene in vista sulle torri con i loro quadranti di numeri arabi o romani, alti sui campanili e dipinti in oro su fondo nero, come se anche Iddio rispettasse gli orari e pretendesse altrettanto da ogni bravo cristiano. Nottetempo, all’interno delle solide dimore di mattoni e di legno, il silenzio era rotto solo dal regolare fruscio dei delicati ingranaggi d’ottone che scandivano il lento trascorrere della notte verso il tenue grigiore dell’alba. Fuori si sentiva lo sciabordio dell’acqua sotto i ponti dei canali, gli scricchiolii delle alberature dei battelli ormeggiati lungo il Damrak e, più in là nel porto, delle grosse navi ancorate nell’IJ; la danza dei topi sulle travi; e non di rado un urlo, una bestemmia, una rauca risata, giacché in una città che contava un migliaio e passa di bettole e dove le strade erano gremite di marinai non si poteva mai essere molto lontani da una rissa o da una puttana; o da tutt’e due. Infine, alle dieci, si udiva il rullo di tamburo della ronda e il rassicurante passo cadenzato della Guardia civica.
Eppure, gli stranieri abituati al baccano di Roma e di Londra consideravano Amsterdam una città silenziosa. A parte, naturalmente, le campane. Il che equivaleva a definire Parigi una città dimessa, a parte la seta. Non c’era modo di sfuggire alle campane; né d’altro canto gli abitanti lo avrebbero mai desiderato. Di fronte alla casa di Pieter Lastman, dalla parte opposta della Breestraat, sorgeva il campanile della Zuiderkerk di Hendrick de Keyser, con le sue file di trentacinque campane appese lassù in alto come altrettante gazze appollaiate su una siepe. Lo scoccare delle ore e delle mezze ore era salutato da uno scampanio sulle note di salmi e inni, cui dall’altra parte della città rispondevano in allegra discordanza le campane della Oude Kerk e della Noorderkerk e soprattutto il campanone di Assuerus Koster sull’alto campanile della Westerkerk. Durante il giorno, il ritmo della città era regolato dai rintocchi. All’una l’orologio della torre della Borsa, che sorgeva a un’estremità del Damrak, apriva le contrattazioni. Un’ora dopo, lo stesso orologio ne annunciava la chiusura. Campane presso il porto salutavano il ritorno delle flotte da Batavia, Spitzbergen o Recife; i lenti rintocchi di campane a morto accompagnavano la sepoltura dei notabili.
E sebbene i ministri del culto manifestassero serie riserve (per dirla con un eufemismo) nei confronti della musica sacra, l’organista civico Jan Pieterszoon Sweelinck e i suoi allievi erano tenuti per contratto a suonare nelle chiese cittadine due volte al giorno, a mezzogiorno e al tramonto, e di conseguenza le note della vox humana si diffondevano sotto le volte, al fine di indirizzare a sacri pensieri l’attenzione dei borghesi che passeggiavano nelle navate per ripararsi dalla pioggia, scambiandosi pettegolezzi e scappellandosi davanti a vicini e conoscenti.2 Quando il tempo era bello e le finestre restavano aperte sul Keizersgracht o l’Oudezijds Voorburgwal, voci di controtenore e di soprano si levavano sulle strade, forse a emulare Francisca Duarte, l’«usignolo francese» (che in verità era ebrea marrana), cantando in italiano o in olandese di pastorelle senza cuore e pastori innamorati, e gli arpeggi echeggiavano sull’acqua verde dei canali. Ma non era finita, c’erano anche i bambini che imparavano a suonare il liuto, la cetra e financo la viola, e andavano dai maestri di ballo a provare passetti, saltelli, balzi e quant’altro, come gli impenitenti pagani di Gomorra.
Amsterdam non solo si deliziava di musica, ma ne produceva in abbondanza. In certe strade si udivano i fabbricanti di tamburi battere sugli strumenti per saggiare la tensione della pelle; altre risuonavano del clangore delle fonderie, dove i martelli picchiavano le campane di bronzo per affinarne il suono. In altre fucine, relegate nei quartieri esterni orientali o sugli isolotti artificiali dell’IJ che erano stati creati in particolare per sistemarvi i cantieri navali, si producevano armi. Là il baccano era terribile: i magli picchiavano le bocche da fuoco incandescenti o riducevano barre di metallo in strisce abbastanza sottili da poterle avvolgere attorno a botti e barili, altri oggetti essenziali alla vita della città; o ancora assottigliavano i fogli di stagno fino a trasformarli nella lamina usata per la falsa «doratura» degli arazzi di pelle che trovavano posto sulle pareti dei mercanti. Sopra il clangore delle fucine si levava lo stridere delle seghe e il raspare delle lime. Nel Lastage, dove si assemblavano le navi con i pezzi costruiti nei cantieri sul fiume Zaan, funzionavano seghe immense, fino a sedici lame alla volta, manovrate da squadre di operai. Ma Amsterdam, con la sua famelica richiesta di pali robusti per fondare le case nel fango torboso del sottosuolo, di travi per l’edilizia, di sedie e armadi, credenze e letti, era una città costruita sull’industria della falegnameria. Le bettole non restavano mai a corto di segatura per i pavimenti e non v’era quasi angolo della città in cui non risuonasse costante lo stridio delle seghe che mordevano il legno; lo si sentiva perfino dentro il cupo recinto della casa di correzione maschile, nota come Rasphuis, dove agli internati si faceva lavorare il brasile, il legno più duro che c’era.
La domenica, malfattori e oziosi venivano catechizzati dai predikants, la cui voce era addestrata a salire e scendere di tono a seconda della severità delle ammonizioni. Altrove, dietro le mura delle istituzioni di carità, cori di orfani cantavano inni e recitavano brani della Scrittura, mentre nelle chiese vaste come granai schiere obbedienti di fedeli ascoltavano il voorlezer leggere passi della Bibbia nel suo piccolo stallo, per preparare l’assemblea alla teatrale entrata in scena del predicatore che dall’alto pulpito, animato dal sacro fuoco di Amos e Michea, Ezechiele, Paolo e Giovanni Evangelista, ruggiva per ore di fila sulfurei anatemi su impenitenti e peccatori. Da altri luoghi giungevano altre preghiere. Dietro porte chiuse e false pareti, in cantine e solai, si cantavano in segreto messe cattoliche; in stanze con nudi assiti e panche di legno, dove un semplice armadio rappresentava l’arca della sacra alleanza, si intonava il kedusha ebraico con i caratteristici ululati nasali della Spagna moresca.
Papisti ed ebrei, rimostranti e luterani non erano le sole ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. GLI OCCHI DI REMBRANDT
  4. Parte prima. ORIZZONTI DI UN PITTORE
  5. Parte seconda. IL PARADIGMA
  6. Parte terza. IL PRODIGIO
  7. Parte quarta. IL PRODIGO
  8. Parte quinta. IL PROFETA
  9. Parte sesta. DOPO
  10. Nota dell’autore
  11. Note
  12. Bibliografia
  13. Referenze iconografiche
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright