D'Annunzio
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D'Annunzio

L'amante guerriero

  1. 392 pagine
  2. Italian
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D'Annunzio

L'amante guerriero

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"Amante guerriero" nella seduzione come in letteratura e in politica, Gabriele d'Annunzio rivoluzionò la figura dell'intellettuale facendo della sua vita un'opera d'arte e influenzò più generazioni nel gusto e nella visione del mondo. Riscoprirlo significa rivisitare la cultura di un'Italia appena nata, con i suoi fermenti, le sue aspirazioni, le sue contraddizioni, un'Italia di cui fu un campione smisurato. In questo saggio dai ritmi narrativi, Giordano Bruno Guerri svela un personaggio restituito al suo pensiero e alla sua arte, oltre che al suo tempo, rendendo omaggio alle donne che lo amarono sacrificandogli tutto, alle quali la letteratura italiana resta debitrice.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081941

LO ZENIT

IV

Eleonora: «Quale amore potrai tu trovare, degno e profondo, che vive solo di gaudio?»

(1895-1904)
Per Eleonora, Gabriele inaugurò un vorticoso andirivieni tra Francavilla e Venezia. La prima di queste trasferte, il 26 settembre 1895, è per molti biografi l’inizio del loro amore, celebrato con un leggendario amplesso, all’alba, dopo ore di romantica consunzione notturna per lei e un arrivo in gondola per lui. Gabriele era mutato anche nell’aspetto, come all’esordio di ogni nuova stagione della sua vita. Quello raffigurato da Michetti in un ritratto dello stesso anno, e descritto da Hérelle, sembra un altro d’Annunzio, rinnovato nella poesia e nel temperamento: «Ora il Gabriele d’Annunzio rappresentato da questo pannello è un individuo completamente nuovo, che apparentemente non ha niente in comune con i ritratti precedenti. In quelli la sua fisionomia è dolce, gli occhi sono un po’ abbassati, i baffi modesti e il sorriso è vagamente malinconico. Per contrasto nel pastello ha lineamenti duri, i baffi ritti come due uncini, il pizzo minaccioso, gli occhi aggressivi, le sopracciglia corrugate. Questo pastello è certamente il primo ritratto di d’Annunzio “superuomo”».
Per la chiusura della prima esposizione internazionale d’arte, l’odierna Biennale, l’8 settembre del ’95 d’Annunzio esordì in pubblico pronunciando – nella sala del ridotto della Fenice – un discorso intitolato Allegoria dell’Autunno. Ci fu chi ironizzò: a prima vista il testo sembrava una vuota e retorica celebrazione di Venezia città del piacere e dell’arte. Altri, con maggiore attenzione, ne colsero le valenze politiche, specie nella parte conclusiva che conteneva spunti nazionalistici e imperialistici, in futuro riproposti nel Fuoco e nella prassi del d’Annunzio uomo d’azione. Il risultato fu, in ogni caso, un successo straordinario, enfatizzato da una diceria fatta circolare dallo stesso poeta: il lungo discorso sarebbe stato preparato in una notte grazie all’uso di zollette di zucchero imbevute di etere. Alla manifestazione – dove aveva dimostrato le sue attitudini oratorie – mancava Eleonora, che invece lo accompagnò in un viaggio turistico e promozionale con tappe a Pallanza, Verbano, Belgirate e Milano.
A fine novembre i due dovettero separarsi. Lei, definita da Gabriele «la nomade», diretta nell’Europa dell’Est per una serie di rappresentazioni; lui a Francavilla, dove la Gravina e Cicciuzza conducevano una vita ridotta quasi al minimo della sopravvivenza. La lontananza dà l’avvio all’ennesimo, lunghissimo stillicidio epistolare. Ci sono rimaste solo le lettere di Eleonora, che mostrano scarso riguardo per la grammatica ma che trasudano sin dall’inizio passione, insieme a sfumature di tristezza. Quanto a d’Annunzio, è costretto – nei primi giorni di dicembre – a soddisfare le sempre più esigenti richieste sessuali di Moriccica, che anche il resistente Gabriele stenta a assecondare. Un viaggio fiorentino, a casa di vecchi amici, gli facilita nuove conoscenze. Una meriterebbe grandi attenzioni, se non fosse intima della sua nuova fiamma. Ha ventiquattro anni, si chiama Giulietta Gordigliani, è figlia di un pittore e molto bella. Nel Fuoco, d’Annunzio l’avrebbe descritta, nelle vesti di Donatella Arvale, «attirante e ostile, pronta a donarsi»; non al punto di concedersi a lui, nonostante l’insinuante aggettivo «torbidissimo» che il poeta assegnò al loro rapporto. Forse, stavolta, a impedire l’appagamento del suo desiderio fu l’amicizia che la giovane provava per la Duse.
Una foto di quando era giovanissima ritrae Eleonora seduta su una poltrona di vimini. La mascella forte, le labbra carnose, gli occhi socchiusi, grandi, pensosi. Da lì ricavava tutto il suo fascino; da lì esprimeva il temperamento che l’aveva resa nota e la faceva amare nei teatri di tutta Europa. Lo sguardo – pieno di sentimento e di un’estenuazione per nulla affettata – la rendeva magnetica e quasi incantevole. Senza essere bella. Anzi, c’era chi la riteneva brutta. Un critico teatrale tedesco, che la vide una volta sulle scene di San Pietroburgo, ne dette un’immagine poco compiacente: «Piccola, un po’ goffa, ha le movenze lente, gravi, senza leggiadria. Gli occhi sono grandi, belli, ma mesti e rassegnati […]. Il piccolo naso camuso le dà un’aria di Pierrot ferito». Questo «Pierrot ferito» aveva già vissuto – prima di diventare, a trentasette anni, l’amante di Gabriele, più giovane di cinque – una carriera di amatrice pari a quella teatrale. È facile immaginare quanto il mondo intero venisse solleticato dall’amore fra i due divi.
Ghisola (o Ghisolabella, Isa, Perdita), come fu presto ribattezzata dal poeta, era nata da una famiglia povera nel 1858, a Vigevano. I suoi genitori erano attori girovaghi; nulla di più scontato in una biografia romantica e in una vita segnata dalla passione. Eleonora, che già a vent’anni era conosciuta dal pubblico dei teatri per la sua falsa innocenza, oltre che per la naturalezza con cui sapeva imporre il proprio ruolo sulla scena, aveva alle spalle, oltre al freddo e alla fame, tradimenti, abbandoni, crisi e felicità effimere. Da giovane era stata sedotta e abbandonata da Martino Cafiero, un ricco imprenditore dell’editoria, che la lasciò incinta di un bambino poi morto presto.
Come capita nelle biografie in cui l’ingenuità è accompagnata dal disinganno, la vittima divenne carnefice. Sposò un attore di quart’ordine della sua compagnia, Tebaldo Checchi, uomo di animo buono e docile, che nel 1882 le darà una figlia, Enrichetta, e che tollerò tutto da lei, compresi tradimenti e umiliazioni: fino a quando, nel 1885, durante una tournée in Sud America, preferì rimanere a Buenos Aires. Eleonora se la intendeva da tempo con il bel tenebroso Flavio Andò, attore, e con il minorenne Arturo Diotti, alle prime armi nella compagnia teatrale. Erano relazioni note a tutti, intrecciate con altre, clandestine o lunghe lo spazio di una notte. Poi la turbolenta attrice fu placata dalla cultura e dalla moderazione borghese di Arrigo Boito, che rappresentò per lei l’ancoraggio a una condizione meno irrequieta e un felice incontro professionale con uno degli autori più interessanti del movimento romantico italiano. Tuttavia Eleonora aveva un bisogno costante di cambiare, anche nell’attività teatrale: un rovello continuo, a cui la figura di d’Annunzio sembrava dare risposte promettenti. Lui avrebbe potuto sollevarla dalla ripetizione di un repertorio che l’aveva stancata; lui avrebbe potuto soddisfare l’ansia di ideale e il desiderio di poesia che vibrava nella sua immaginazione sempre viva.
A Gabriele, la prospettiva di un sodalizio con la Duse apparve quanto mai propizia. Il connubio artistico con la più celebrata attrice del tempo gli avrebbe permesso di avvicinare il pubblico ai suoi miti e alla sua poesia, nonché di sperimentarsi in un genere nuovo. Dopo le prove in versi e quelle del romanzo, gli mancava il riconoscimento come autore di drammi teatrali. Infine, sapeva quanta presa avrebbe avuto sul pubblico quell’unione.
I detrattori, sempre vigili e zelanti nell’esercizio della morale antidannunziana, hanno sostenuto che non fu un vero amore. O meglio, non lo fu da parte del dissimulatore e del profittatore; l’infelice appassionata invece, credendoci fino in fondo, avrebbe logorato se stessa e la propria vita, consumata prima da quella passione, poi dalla tubercolosi. La questione è più complessa. Il loro, semmai, fu un incontro di reciproco interesse. Si spiegano così gli inviti accorati dell’attrice a studiare, a scrivere, a rincorrere la gloria, una meta che li accomunava. «La vita scorre – afferrala nell’arte – figlio! – Non attardarti più sulla tua strada – non attardarti!», lo incitava nelle sue lettere, con la forza di una consigliera materna.
Gabriele, dopo infiniti vagabondaggi sentimentali, nel tramonto della propria esistenza, ebbe un vero culto per Eleonora e il suo busto di marmo nel suo studio del Vittoriale sarà l’unica memoria femminile a sopravvivere nella collezione delle sue conquiste. C’è da credere che l’abbia amata come suo alter ego, piuttosto che come donna: le donne erano quelle che ricordava appena.
«Un incantesimo solare»: così d’Annunzio celebra il suo amore in una lettera dei primi giorni del 1896. Eleonora lo ha raggiunto a Firenze, che Gabriele frequenta sempre più spesso per la vivacità intellettuale della città. Il 28 dicembre aveva incontrato al caffè Gambrinus André Gide, che ne scrisse sul diario, incantato dal suo eloquio, dalla sua cultura e dalla sua voracità di gelati: «Parla con voce nitida, un po’ gelida, ma morbida e quasi leziosa. Ha uno sguardo un po’ freddo; forse è un po’ crudele, ma forse è l’apparenza della sua delicata sensualità a farmelo apparire tale».
I due innamorati iniziano un giro della Toscana, in una primavera precoce. A Pisa Gabriele si stende sul prato di piazza dei Miracoli, Eleonora recita parole in posa estatica. D’Annunzio racconta, in una lettera a Hérelle: «Da qualche settimana sboccano nella mia anima fiumi di poesia». Lavora con un furore che prepara le meraviglie poetiche delle Laudi. Anche Eleonora è concentrata su se stessa. L’artifex che l’accompagna le ha fatto promesse grandiose: innanzitutto, il grande dramma nato sotto il sole di Micene. La città morta narra di un poeta, Alessandro, ennesima figura di superuomo. È sposato con Anna, cieca e dimessa, ma è innamorato di Bianca Maria, giovane e casta, piena di forza e di vita. Alessandro partecipa agli scavi che portano alla luce le tombe micenee. Li dirige Leonardo, fratello di Bianca Maria, che, preso dalla voluttà irrazionale della scoperta antica, contagia il suo spirito moderno con la tentazione dell’incesto nei confronti della sorella. Anna, consapevole di essere un ostacolo per il marito, tenta di suicidarsi; Leonardo, geloso dell’amore della sorella per Alessandro o, forse perché schiacciato dall’infamia della sua passione, la uccide. La Duse è affascinata dalla trama. Sa che – nella finzione, ma anche nella vita reale – lei è Anna, pronta sulla scena e nella vita a sacrificarsi per la gloria e il piacere di Alessandro-Gabriele. È un ruolo che accetta, forse già presaga delle conseguenze. Il ripudio, il tradimento, l’abbandono. Di sicuro, però, non si aspetta ciò che Gabriele ordisce mentre lei, da febbraio a maggio, è in America per una lunga tournée. Il poeta, con l’aiuto del nobile intellettuale Gegè Primoli, sta progettando di far rappresentare la tragedia dalla sua acerrima rivale, la francese Sarah Bernhardt. Vedremo quali saranno le conseguenze di questa manovra sull’opera di d’Annunzio e sulla storia d’amore con l’attrice. Lo vedremo dopo, perché intanto Gabriele si deve occupare di un’altra faccenda.
Il 4 gennaio, sempre del 1896, sulla «Gazzetta Letteraria» era stato pubblicato un articolo che inaugurava l’ennesima campagna antidannunziana, più virulenta del solito. Al centro della polemica c’era l’ormai annosa questione dei plagi. La tendenza di Gabriele al saccheggio (con un eufemismo potremmo definirla un’attiva consultazione dei testi altrui) aveva origini remote: da quando, studente ginnasiale, si era visto premiare con un 10 un compito espunto di sana pianta da una pagina di De Amicis. Omettiamo i debiti letterari successivi solo per ragioni di spazio: poeti contemporanei o più antichi, soprattutto francesi, avrebbero potuto rintracciare nei versi di Gabriele, se non frasi intere, magari uno stile, una parola o un ritmo di casa propria. A accusarlo, ora, è un critico torinese giovane e già autorevole, Enrico Thovez. Riscontri alla mano, secondo Thovez, erano state rivestite di «stracci abruzzesi» un certo numero di novelle di Guy de Maupassant, trafugate decine di frasi, espressioni, immagini attinte dai più disparati poeti stranieri e unite in modo tale da allestire «un intarsio che voleva riuscire un monumento di pura italianità». Il risultato, su d’Annunzio e sulla nostra letteratura, era quello di disseminare «l’infezione dell’impostura e dell’istrionia, della mancanza di dignità e di carattere; peggio: la finzione continua di entrambi». Proclamate con notevole dispiego di grancasse, le rivelazioni furono derise dall’interessato. Era avvezzo a simili accuse e, sapendole fondate, le accolse sempre con il principio per cui l’importante era che si parlasse di lui.
Trascorreva un periodo di pigro abbandono a Francavilla e avrebbe fatto ancora spallucce. Volle rassicurare Treves: «Tu sai che io sono di stirpe olimpica e che la polvere della mischia non tocca le mie ciglia divine. Non mi sono mai occupato di critici, da che scrivo; e questo mio disdegno è la mia miglior forza. Non te ne occupare neppur tu». Poi fu costretto a intervenire per l’insistenza di alcuni amici francesi, timorosi delle conseguenze che lo scandalo poteva provocare a Parigi, dove la sua reputazione era quasi immacolata. Il primo febbraio, di malavoglia, replicò agli attacchi su «Le Figaro». Tutti gli artisti, sostenne, hanno il diritto di modellare la propria ispirazione anche sull’esempio dei loro pari, e del resto aveva affermato le stesse cose, in risposta a medesime accuse, anche un gigante come Molière. Tralasciò di aggiungere di avere fatto propria l’idea nietzscheana del genio predatore e che, fin da giovane, aveva letto appassionatamente il De Imitatione, del cinquecentesco cardinale Pietro Bembo, dove si sosteneva l’opportunità dell’«emulazione dinamica» dei grandi scrittori per arrivare a più alte vette.
D’Annunzio ebbe il suo trionfo poche settimane dopo, quando un nuovo attacco di Thovez si rovesciò in una figuraccia rovinosa. Il critico pubblicò sulla «Gazzetta Letteraria» una silloge di poesie di Dante Gabriel Rossetti, da cui d’Annunzio avrebbe attinto a piene mani per il Poema paradisiaco. Il furto appariva così lapalissiano che si scomodò anche il «Corriere della Sera», di solito assai prudente, unendosi al coro di riprovazioni contro le spudorate scopiazzature del poeta. Poi si appurò che i versi attribuiti a Rossetti erano opera di qualcuno che aveva voluto inguaiare o Thovez o d’Annunzio. Il poeta contrattaccò sulla neonata rivista fiorentina «Il Marzocco», sorvolando sulle accuse più plausibili, costringendo a una repentina rettifica il «Corriere» e esponendo al ludibrio il giornale che l’aveva attaccato: «Una gazzetta divenuta ormai innominabile – che ogni settimana passa pei luoghi pubblici della letteratura italiana raccattando immondizie come quel carro graveolente cui l’asino trascina attraverso i suburbii melmosi con gran cigolio di ruote fra i latrati dei cani famelici».
Benedetto Croce dedicherà addirittura una rubrica della sua «Critica» ai plagi dannunziani, anche se nel 1903 – riconoscendo il «valore» innegabile della sua opera – scriverà: «È fuori di dubbio che il D’Annunzio occupa un gran posto nell’anima moderna e lo occuperà di conseguenza nelle storie che si scriveranno della vita spirituale dei nostri tempi». Oggi la critica è molto meno severa con i «plagi» di d’Annunzio, rilevando – come fa Annamaria Andreoli sulla scia di Mario Praz – che riusciva «il più delle volte ad apportare notevoli migliorie, restituendo ciò che ha tolto» e che con la sua «caccia» il poeta riuscì a aggiornare la nostra arretrata cultura postunitaria.
Liquidata la questione dei plagi, Gabriele continuò a girovagare per la penisola. Da Francavilla – dove impazzava ancora la Gravina e dove nel frattempo arrivavano le lettere della Duse – a Roma, a Venezia. La sua vita è sempre più costosa e chiede denaro a Treves. «Io sono un animale di lusso; e il superfluo m’è necessario come il respiro.» «Io sono un uomo di disordine, e voglio rimanere tale perché il mio stile è di non contrariare mai la mia natura.» A Venezia, in giugno, ritrovò l’attrice, reduce dal trionfo americano, che aspettava l’ambito premio della tragedia promessa. All’oscuro delle manovre dell’amante con la Bernhardt, Eleonora gli aveva scritto di non poter preparare la rappresentazione entro novembre, fornendogli un comodo alibi. In luglio d’Annunzio ricevette la risposta della Bernhardt, che accettava di recitare La città morta «avec enthousiasme» e attendeva al più presto la stesura finale. Possiamo immaginare la reazione della Duse quando scoprì tutta la macchinazione. Infuriata, gli annunciò di avere riallacciato il rapporto con Boito e, senza dargli modo di abbozzare qualsiasi difesa, partì per un’altra tournée, che l’avrebbe condotta a recitare fino a febbraio inoltrato nei teatri di Berlino, Mosca e San Pietroburgo.
La «Magnifique», com’era universalmente nota Sarah Bernhardt, non rispettò le scadenze concordate. Quando le arrivò il testo della tragedia se ne dichiarò incantata, ma cominciò a rimandare i tempi della messa in scena, adducendo come motivo – da molti, e forse dallo stesso Gabriele, giudicato pretestuoso – una serie di impegni precedenti. Fatto sta che La città morta verrà rappresentata al Théâtre de la Renaissance solo nel gennaio del 1898. La dilazione permise a Eleonora, che in cuor suo non aspettava altro, di rientrare nei giochi e di digerire, con la rapidità di cui sono capaci gli innamorati, il boccone amaro. L’avevano convinta anche le interessate relazioni che le giungevano in Russia sul conto di Gabriele: il quale si sarebbe trascinato per le vie di Roma in preda al dolore e a una specie di ignavia per il tradimento artistico e umano perpetrato. Si trattava di esagerazioni ben confezionate. Di vero c’era soltanto la scarsa voglia di lavorare. Per il resto, quello che la bella società romana contemplava era una versione, né riveduta né corretta, del d’Annunzio degli anni Ottanta. Salotti, battute di caccia e corteggiamenti alacri di donne disponibili. Tra le altre, capitolarono dopo repentino assedio la signora Enrichetta Castellani, vedova di uno dei più famosi orafi della capitale, e la marchesa Adah Monadi, nata Nathan, conosciuta nei palazzi dell’aristocrazia con l’eloquente soprannome di «Vispa Teresa».
Eleonora, per il tramite di De Bosis, aveva ripreso i contatti con Gabriele. Poi, pur di tornare a esserne la musa dichiarata, aveva accettato la sua proposta di firmare un contratto che le consentiva di rappresentare La città morta in esclusiva per l’Italia. Dalla riconciliazione artistica a quella sentimentale, il passo era stato breve, anche perché d’Annunzio – a premiare la fedeltà della donna, che ormai teneva in pugno – si accingeva a scrivere per lei un’altra tragedia. Lo fece in dieci giorni, dal 13 al 23 aprile del 1897, recluso nel vecchio albergo di Albano dove aveva trascorso una settimana di intensa passione con Barbara Leoni. L’opera si intitolava Sogno d’un mattino di primavera. È la storia di Giuliano, amante adultero di Isabella, poi assassinato dal marito di lei; la donna impazzisce, dopo avere abbracciato per tutta la notte il cadavere dell’uomo intriso di sangue. Altre vicende, lugubri e voluttuose, si intrecciano a quella principale: languore, morte e un’assenza quasi assoluta di azione drammatica. D’Annunzio aveva creato una nuova arte simbolica che si esprimeva in gesti quasi magici, calcolati. Il pubblico non capì e non apprezzò. A Parigi, dove la Duse recitò l’opera in giugno, anticipando così la rivale, la maestria e la reputazione della grande attrice evitarono almeno i fischi; a Roma, l’11 gennaio 1898, al Teatro Valle, oltre ai fischi fioccarono insulti e un coro unanime: «Viva Goldoni!»; con soddisfazione della regina Margherita, supponiamo, che era presente benché avesse fatto sapere di provare un «ribrezzo invincibile» per la licenziosità dell’autore. Ottenne reazioni simili, nel 1905, l’altra tragedia, compagna della prima, che d’Annunzio scrisse tra la fine del 1897 e l’inizio del 1898, Sogno d’un tramonto d’autunno.
In teatro la ricetta dannunziana sembra non funzionare: la follia strisciante in vicende malate, macchiate dal sangue shakespeariano, incesti e pulsioni sofoclee, omicidi e psicologie morbose, tutto questo impasto viene rifiutato da un pubblico poco abituato a temi così complessi e logoranti. D’Annunzio, tuttavia, non si scoraggia, perché il suo scopo è proprio superare i modelli più consueti del dramma italiano. Mentre depreca le condizioni a cui è costretta la letteratura, «ridotta a divertire gli imbecilli e le s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. D’ANNUNZIO
  4. Introduzione
  5. L’ASCESA
  6. LO ZENIT
  7. IL DECLINO
  8. Conclusione
  9. Bibliografia
  10. Desidero ringraziare
  11. Inserto fotografico
  12. Copyright