Il teatro trasforma le persone. Anche se sei uno scarafaggio nella vita, nel momento in cui calchi le tavole del palcoscenico puoi brillare come nessun altro. È un fenomeno che ha del miracoloso. La prospettiva esalta le proporzioni, i costumi, le scene, le luci, tutto contribuisce a creare l’illusione. A volte, basta solo una parrucca.
Nell’Allodola di Anouilh avevo un vestito di velluto bianco scollatissimo, con un lungo strascico e una parrucca bionda con una treccia che mi arrivava fino al culo e un alto cappello a cono da fata con un velo. Il mio décolleté riscuoteva un certo successo.
Non era per me una novità. Anche l’anno prima, durante la tournée dell’Arlecchino che ci aveva portati in giro per l’Europa, ero stata gratificata da un discreto numero di ammiratori, colpiti dall’avvenenza di Clarice, il mio personaggio. A Stoccolma, un diplomatico se ne era invaghito: nemmeno sospettava che sotto quella parrucca bianca settecentesca ci fossi io, una persona del tutto diversa. Dopo lo spettacolo era venuto in camerino con un enorme mazzo di rose e mi aveva dato un appuntamento, al quale naturalmente non mi presentai. In quei giorni una rivista di Stoccolma pubblicò in copertina una mia fotografia. Il titolo era: In realtà, è bruna. Increduli della mia improvvisa celebrità, gli altri attori avevano iniziato a guardarmi con occhi diversi: questa ragazza non ha il minimo talento, ma riesce ugualmente a riscuotere successo, sembravano dire.
Del resto, è nei climi freddi che il pubblico è davvero caloroso, aperto, entusiasta, pronto a farsi incantare dalla magia del teatro con l’ingenuità di un bambino. È un paradosso che si scopre facendo questo mestiere. Più si scende verso sud e più tale disposizione d’animo si assottiglia, lasciando il posto all’indifferenza.
Con l’Arlecchino arrivammo anche a Berlino. Era il 1953, la città era ancora piena di macerie. In tournée Paolo Grassi era molto protettivo con noi attori e mentre raggiungevamo il teatro ci raccomandava di tenere gli occhi fissi sulla strada davanti a noi, evitando di guardarci in giro. Era preoccupato che restassimo impressionati da tanta devastazione. Qualche settimana dopo, ai primi di marzo, eravamo a Parigi, al teatro Marigny, sugli Champs-Élysées. Era appena morto Stalin: i quotidiani di tutto il mondo non parlavano d’altro.
Non che avessi sempre sognato di fare l’attrice, questo mai, ma venire apprezzata da così tanta gente era assai meglio che starmene chiusa in casa nella mia cameretta stile Novecento.
Tornando a quando recitavo nell’Allodola, la mia presenza sul palcoscenico riscuoteva una certa ammirazione. Peccato che poi aprivo bocca. Recitavo male come sempre, ma grazie al mio aspetto, alla scollatura, alla parrucca e tutto il resto, pochi se ne accorgevano.
Una sera un produttore cinematografico, il commendator Mambretti, così si chiamava, mi notò sulla scena e mi convocò. E quando mi vide nel suo ufficio, mi disse: «Ma come? È lei? È tutta qua? Non ha nient’altro?».
Sul palcoscenico, mi aveva vista molto più alta, più bella, molto ben fatta.
«Be’ sì, sono tutta qua» ho risposto. «È l’effetto del palcoscenico!»
«Le sue misure?»
«In scena le proporzioni cambiano.»
«I suoi lunghi capelli biondi?»
«Parrucca.»
«Le sue forme?»
«Ebbene, eccole. Sono quel che sono. Non ci posso far niente.»
«A teatro, però, era molto diversa. Mi scusi, ma non sembra lei…» mi salutò congedandomi frettolosamente.
Non me la presi, il cinema allora non mi interessava affatto.
Non ho mai fatto un provino, non ho mai reclamato un ruolo. Prendevo quel che mi capitava. Per certi aspetti, il cinema è meno attraente del teatro, che sembra iniziarti a una nuova vita. Dura solo il tempo delle riprese, non è una storia che si sostituisce alla propria esistenza come accade sul palcoscenico. Su un set non si ha la sensazione di vivere in un altro mondo, che è solo tuo, né si manifesta questo cambiamento così radicale di universo. Io non mi preoccupavo di quel che il cinema può dare di più spettacolare e che è senza paragone rispetto al teatro: la notorietà. Se la fama arrivava tanto meglio, ma non mi importava. E poi, non ero abbastanza bella per fare del cinema. In Italia le attrici cinematografiche negli anni Cinquanta erano davvero bellissime. Bisognava avere un bel culo e tutto il resto. Oppure essere la moglie del produttore. Forse avrei potuto fare una carriera in Francia, dove l’aspetto ha sempre contato meno, ma in Italia era necessaria una bellezza prorompente e al contempo convenzionale.
Nel cinema non c’è traccia dell’impeccabile solitudine che si prova a teatro, perché durante le riprese non si è mai soli. Nemmeno nel proprio camerino. Ti truccano, ti pettinano, ti toccano da tutte le parti. È una cosa che detesto. E mi provoca così tanta ansia che anche prima di andare dal parrucchiere, a volte, devo prendere un Lexotan. Sì, stare in mezzo agli altri in certi casi è un problema. Per anni non sono riuscita a entrare in un bar se non accompagnata, e non mangio mai da sola in un luogo pubblico.
Louis Jouvet, che è stato un grande attore di teatro, diceva che il cinema è l’arte di trovare una sedia. Perché dopo che hai fatto le tue scene, aspetti senza fare nulla per ore, in mezzo a un’infinità di gente: tecnici, truccatori, costumisti, addetti vari, attori che in realtà ti sono estranei. Una noia mortale. E poi, quello che è fatto è fatto: non si può più cambiare nulla. Le cose importanti accadono dopo. Se hai fatto bene il tuo lavoro, se il film risulta un capolavoro e la tua interpretazione viene apprezzata, certamente ne sarai felice, ma alla fine è solo una questione di fortuna.
Io preferivo restare chiusa nel mio nascondiglio, il teatro, dove mi sentivo al sicuro. Ed è lì che ho conosciuto Luchino Visconti.
Era molto amico della Brignone. Ci raggiungeva ogni sera alla Fenice quando recitavamo Il ventaglio e passava nel mio camerino prima che entrassi in scena. Mi dava tanti consigli.
«Levati subito quella parruccaccia, è orrenda! Piuttosto, metti questa rosa tra i capelli.»
«Non posso, c’è un altro regista…» provavo a lamentarmi debolmente. Ma Luchino era un uomo irresistibile e così finivo per ubbidirgli.
Ho recitato, diretta da lui, in molti spettacoli. Soltanto vederlo, averlo davanti a me, mi rendeva felice. Era così attraente, più di chiunque altro! Ero schiava del suo fascino. Ci univa una complicità così forte che gli bastava premere un mio invisibile tasto e io rispondevo alla sua chiamata. Eravamo tutte e tutti, attrici e attori, tecnici, sarte, macchinisti e cagnolini, innamorati di quell’uomo sublime.
Un paio di anni dopo, nel 1956, stava per girare Le notti bianche e pensò a me per il ruolo della protagonista. La produzione, però, mi preferiva Maria Schell, alla quale riuscivano solo due cose, ma le faceva molto bene: ridere piangendo e piangere ridendo. Alla fine Visconti si lasciò convincere e prese lei.
Di nuovo, a me non importò più di tanto. Era il teatro a coinvolgermi, a rendere la mia vita straordinaria. A soddisfare la mia più grande ambizione, quella di una perfetta solitudine. Tre anni dopo, Luchino mi propose una piccola parte in Rocco e i suoi fratelli: la stiratrice che bacia Alain Delon.
Nel frattempo, però, avevo iniziato a recitare sotto la sua direzione a teatro. Nel 1955 mi scritturò per Il crogiuolo, l’ultima pièce di Arthur Miller. A cui seguirono negli anni altri lavori, di Thomas Wolfe, Natalia Ginzburg, Harold Pinter… E fu così che, senza quasi rendermene conto, diventai una vera attrice.
Un giorno stavamo provando Il crogiuolo, che era stato rappresentato per la prima volta a Broadway due anni prima e in Italia sarebbe stato un’assoluta novità. Luchino, dopo averci dato precise istruzioni su una certa scena, ci seguiva con la consueta concentrazione seduto nella platea vuota. D’un tratto, un attore avanzò verso il centro del palcoscenico e, rivolgendosi a lui coraggiosamente e con tono rispettoso, disse: «Signor conte» (lo chiamavano tutti così, un po’ perché conte lo era davvero, ma soprattutto in segno di deferenza) «io in questo modo non me la sento la parte, adesso le farei vedere come eseguirei la scena…». E, in apparenza inconsapevole del clima che all’improvviso si era fatto glaciale, procedette nel suo intento.
Terminata che ebbe l’interpretazione, dal fondo della sala si levò una voce: «Grazie. Se ne vada!».
Era Luchino. L’aveva licenziato.
Quel poveretto, ignaro, aveva segnato il proprio destino perché nessuno poteva opporre resistenza a Visconti. Contraddirlo, poi, era fuori discussione. La malleabilità non faceva parte del suo carattere. Era un uomo geniale e passionale, ma anche freddo e per niente disponibile al confronto. In scena non improvvisava mai: tutto era calcolato con estrema cura per rappresentare in modo perfetto i mondi che lo interessavano. Ci usava come il musicista fa con le corde del suo violino.
In Veglia la mia casa, angelo, una pièce tratta dal romanzo di Thomas Wolfe, sempre con la Brignone come primadonna, anch’io avevo una parte importante e durante le prove Luchino mi volle insegnare «il gesto della Duse». Consisteva nel passarsi in modo lento e affettato la mano tra i capelli con un’espressione assorta. In realtà, quel gesto lo conoscevo già: me lo aveva mostrato anni prima Memo Benassi. «Grazie, lo farò appena mi sarà possibile» gli avevo detto allora, piena di buona volontà. Il momento era arrivato.
La compagnia era guidata da due capocomici, Carlo Alberto Cappelli e Lars Schmidt, un impresario teatrale svedese che all’epoca era sposato con Ingrid Bergman. Le scene erano di Mario Garbuglia e la produzione dello spettacolo si rivelò nel suo complesso faraonica. Io avevo una camera da letto ricostruita nei minimi dettagli, al terzo piano di un’articolata struttura, dove non salivo nemmeno. C’era un comò che non avrei mai aperto, i cui cassetti erano ricolmi di lenzuola e biancheria che nessuno avrebbe visto perché recitavamo al buio, illuminati da sottili raggi di luce. E fu nell’oscurità più totale, deliziosamente vestita con un elegante abito di lino rosa e un cappellino, che io per la prima volta feci il gesto della Duse. Non se ne ricordano gli effetti.
Veglia la mia casa, angelo venne rappresentato solo a Roma, perché al momento di organizzare la tournée ci si accorse che era inamovibile. Ci sarebbero voluti giorni e giorni per smontare e rimontare le scene e almeno tre tir per trasportarle. Così la compagnia fu dichiarata sciolta e io, cinica, chiusi felice il mio baule e via! Tornai a Milano, all’Hotel Milan, pronta per un’altra avventura.
Negli anni, Luchino mi ha fatto molti regali, gioielli bellissimi. Mi portava da Bulgari o in un’altra gioielleria in via Condotti e mi invitava a scegliere quello che volevo. Quei momenti sembravano scene di un film. Mi comprò persino un vestito incastonato di pietre dure, prezioso e pesantissimo. Per indossarlo occorreva una preparazione atletica, così alla fine decisi di liberarmene e lo regalai alla sartoria Tirelli, nel cui atelier sono stati realizzati i più bei costumi del cinema italiano, e non solo. Un giorno mi regalò anche un gatto persiano. Era una femmina e la chiamai Amina Malvina. Essendo spesso in tournée non potevo tenerla con me, così l’affidai ai miei genitori: mio padre la portava a spasso per il giardino di Mulinetti con un guinzaglio verde.
Luchino era milanese come me e amava Carlo Porta e le sue poesie, che io recitavo per lui. La nostra comune origine lombarda ci univa di una complicità ancora più profonda, quasi un’affinità. Sebbene fosse colto, non lo si poteva definire un intellettuale. Era un signore del Rinascimento – così come lo erano stati i suoi avi – affascinante, tirannico e spietato. Chiunque avrebbe voluto entrare nelle sue grazie. E anch’io facevo di tutto per assecondarlo. Per fortuna gli piacevo moltissimo, così entrai presto a far parte della ristretta cerchia dei suoi amici più devoti. Proprio come un principe, infatti, aveva una corte di pochi eletti, ubbidientissimi, che intratteneva e, allo stesso tempo, dirigeva nella vita proprio come avrebbe fatto sul palcoscenico.
Trascorrevamo insieme le serate nella sua magnifica casa in via Salaria, dove incontrare persone fuori dal comune e incredibilmente attraenti era così normale che non ci si faceva quasi caso. Quando da lui conobbi Maria Callas, lei non aveva ancora avuto l’opportunità di mostrare al mondo la propria arte. Non essendo una fan dell’opera né tanto meno un’intenditrice, io ignoravo fino a che punto fosse grande il suo talento. Maria era grassa e Visconti l’aiutava a perdere peso. Quando andavamo a Tor San Lorenzo, sul litorale romano dove Luchino aveva una casa sulla spiaggia, lui la nutriva solo di gambi di sedano e carote. La rividi qualche tempo dopo in via Salaria, magrissima. Sedeva al pianoforte e cantava a mezza voce Casta diva. Era incredibile.
Anche Marlene Dietrich frequentava la casa di Luchino. Una sera la vidi inginocchiata in adorazione davanti a lui. Ero giovane, poco più che una ragazzina, e non osai avvicinarmi. Mi limitai ad assistere a quel suo atto d’omaggio da lontano. Allora Marlene abitava a Parigi e conduceva una vita riservata. Si raccontava che una volta, avendo aperto personalmente la porta a un visitatore inopportuno che chiedeva di lei, imperturbabile gli avesse risposto: «Madame n’est pas là». E gli aveva richiuso la porta in faccia.
Recitavo per Visconti e lo frequentavo nel tempo libero: il nostro legame di amicizia era anche una perfetta intesa artistica, soprattutto in teatro. Tranne quella particina in Rocco e i suoi fratelli, infatti, lavorai con lui solo in un altro film, Ludwig, dove ero Lila von Buliowski, un’attrice inviata dalla corte per indagare quali fossero le preferenze sessuali del re di Baviera. Un ruolo molto divertente.
Con Luchino, del resto, non ci si annoiava mai. Amava organizzare diabolici scherzi alle spalle di vittime inconsapevoli, e che tali sarebbero rimaste: nessuno di loro ebbe mai il sospetto di essere stato oggetto di una beffa. Ciò che lo divertiva enormemente, infatti, non era il disvelamento, che non avveniva mai, ma il gusto di architettare un piano segreto, di solito assai complesso, e quindi di realizzarlo con la complicità della sua corte devota, con la quale poi avrebbe condiviso commenti e irresistibili imitazioni per giorni e giorni. Si trattava di vere e proprie messe in scena, nelle quali ciascuno aveva la sua parte. Il difficile era riuscire a trattenere il riso davanti ai malcapitati. Lui era il regista e noi, allo stesso tempo, i comprimari e il pubblico, mentre i veri protagonisti non recitavano alcuna parte se non quella di se stessi. Il tutto era crudele, ma anche divertente.
Uno scherzo rimasto leggendario lo organizzò alle spalle di alcuni personaggi autorevoli che aveva invitato a pranzo con l’intento di metterli in imbarazzo. Convinse un giovane attore molto bello a servire gli ospiti come un qualsiasi cameriere. Quel giorno, nello splendido salone tutto vetrate e vasi Tiffany di via Salaria, imponente e prezioso come il Louvre, il finto cameriere servì una dopo l’altra le portate e intanto, come se niente fosse, con il bacino sfiorava in modo lascivo gli ospiti, che non osavano dire nulla. C’era chi reagiva con stupore, chi con imbarazzo e chi si mostrava piacevolmente sorpreso, immaginando chissà quale seguito…
D’estate andavamo a Ischia, dove Luchino possedeva una villa a picco sul mare, La Colombaia. Eravamo il solito gruppo di amici compiacenti, tra cui Nora Ricci, attrice e donna spiritosissima, che sarebbe diventata una delle mie più care amiche, Franco Zeffirelli e, negli ultimi anni, anche Giorgio Ferrara – il mio futuro marito – che allora era assistente di Luchino. Un altro habitué era Helmut Berger. Anzi, Visconti lo conobbe proprio a Ischia. La leggenda narra che a presentarglielo sia stato un pellicc...