Il sogno
  1. 228 pagine
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Gli scritti raccolti in questo volume, composti in un arco di tempo che va dal 1898 al 1913, ruotano in vario modo attorno a quell'opera capitale che è L'interpretazione dei sogni. In essi infatti vengono anticipate o esplicitate le modalità freudiane di investigazione e di smontaggio del linguaggio onirico. Pur in diverse declinazioni, in questi saggi l'intento di Freud sembra quello di mostrare le capacità ermeneutiche della psicoanalisi da lui fondata, al crocevia fra la malattia dell'anima, il delirio e le formazioni quotidiane e più visibili dell'inconscio, i sogni appunto, accreditando così la nuova disciplina come sistemazione scientifica del sapere sulla psiche, che trova per altro conferma nelle intuizioni creative dell'arte: significativo a questo proposito il celebre saggio sul Delirio e i sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen. La pratica analitica dell'inconscio tende quindi a diventare lavoro di traduzione da una forma del linguaggio estetica a una forma logica, rivelando al sognatore la sua inconsapevole poeticità, il fatto cioè di essere un costruttore di realtà e non soltanto un osservatore delle cose e della propria storia quasi fossero dati immodificabili.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852082931

IL DELIRIO E I SOGNI NELLA «GRADIVA» DI WILHELM JENSEN

I

Un giorno in una cerchia di persone convinte che gli enigmi essenziali del sogno siano stati risolti a opera di chi scrive, è nata la curiosità di occuparsi di quei sogni che, mai sognati davvero da qualcuno, sono stati creati dai poeti e attribuiti, nel contesto di un racconto, ai loro personaggi immaginari. La proposta di sottoporre a indagine questo genere di sogni poteva apparire oziosa e stravagante ma, d’altro canto, la si poteva anche ritenere giustificata. Che il sogno sia qualcosa di sensato e interpretabile è lungi dall’essere un’opinione diffusa. La scienza e la gran parte delle persone colte sorridono se vengono richieste di interpretare un sogno. Solo il popolo, attaccato alla superstizione e fedele alle credenze dei tempi antichi, non vuole saperne di rinunciare all’interpretazione dei sogni. L’autore dell’Interpretazione dei sogni ha osato, a dispetto della protesta della scienza più severa, prendere partito a favore degli antichi e della superstizione. Tuttavia egli si guarda bene dal riconoscere, nel sogno, quella profezia del futuro cui l’uomo da sempre aspira invano, ricorrendo a mezzi davvero non condivisibili. Ma neppure può rinnegare interamente la relazione del sogno con il futuro, poiché, compiuto un lungo e faticoso lavoro di traduzione del sogno, questo gli si è presentato come l’appagamento di un desiderio del sognatore: e non si può certo contestare che i desideri siano prevalentemente rivolti verso l’avvenire
Il sogno, dicevo, è un desiderio esaudito. Chi non tema di affrontare un argomento difficile, chi non abbia la pretesa che un problema intricato, per risparmiargli la fatica, gli sia esposto come se fosse lieve e facile, sacrificando fedeltà e verità, può trovare nell’opera citata un’ampia dimostrazione di quanto ho affermato; fino ad allora dovrebbe tenere in sospeso tutte le obiezioni, che sicuramente insorgono in lui, contro l’equivalenza di sogno e appagamento del desiderio.
Ma abbiamo corso troppo. Non si tratta, almeno per ora, di stabilire se il significato di un sogno sia in ogni caso da ricondurre a un desiderio esaudito, oppure altrettanto spesso a un’attesa ansiosa, a un proposito, a una riflessione ecc.; occorre anzitutto affrontare la questione se il sogno abbia in generale un senso, se gli si debba riconoscere il valore di un processo psichico. La scienza risponde di no, e spiega che sognare è un processo meramente fisiologico dietro il quale non occorrerebbe ricercare dunque senso, significato, intenzione. Stimoli di natura fisica suonerebbero quindi, durante il sonno, sullo strumento psichico, portando così alla coscienza ora queste ora quelle rappresentazioni al di fuori di ogni connessione psichica. I sogni sarebbero dunque paragonabili solo a dei fremiti, non a movimenti espressivi della vita psichica.
In questa disputa sul valore da assegnare al sogno, poeti e scrittori sembrano stare dalla stessa parte degli antichi, del popolo superstizioso e dell’autore dell’Interpretazione dei sogni. Quando infatti fanno sognare i personaggi disegnati dalla loro fantasia, essi seguono l’esperienza quotidiana per cui i pensieri e i sentimenti degli uomini proseguono anche nel sogno; e narrando i sogni dei loro eroi cercano appunto di descriverne gli stati d’animo. Preziosa è l’alleanza dei poeti, e la loro testimonianza deve essere tenuta in alto conto, dato che spesso sanno una gran quantità di cose fra cielo e terra che la nostra sapienza scolastica neppure sospetta. Nella scienza dell’anima poi essi sono di gran lunga avanti a noi uomini comuni, poiché attingono a fonti che la scienza non ci ha ancora dischiuso. Se solo questa presa di posizione dei poeti a favore della pienezza di significato dei sogni fosse meno ambigua! A rigore si potrebbe infatti obiettare che il poeta non prende partito né a favore né contro il significato psichico del singolo sogno; che egli si accontenta di dimostrare come la psiche addormentata risenta degli eccitamenti rimasti attivi in essa come residui della vita vigile.
Il nostro interesse per il modo in cui i poeti si servono dei sogni non è tuttavia affievolito per questa disincantata considerazione. Se la ricerca non dovesse insegnarci nulla di nuovo sulla natura dei sogni, forse può consentirci di intuire, da quest’angolo visuale, qualche cosa sulla natura della produzione poetica. Se già i sogni veri sembrano costruzioni stravaganti e prive di regole, figuriamoci le libere imitazioni poetiche di quei sogni! Eppure nella vita psichica vi è assai meno libertà e arbitrio di quanto siamo propensi a credere; anzi forse non ve ne è affatto. Ciò che nel mondo esterno chiamiamo casualità può essere spiegato da leggi note; anche ciò che nella psiche chiamiamo arbitrio si basa su leggi, sebbene si tratti per ora di leggi solo oscuramente intuite. Perciò non ci resta che stare a vedere!
Due sono le vie possibili per questa ricerca. Una potrebbe essere l’approfondimento di un caso particolare, ossia dei sogni creati da un poeta in una delle sue opere. L’altra consisterebbe nel raccogliere e confrontare tutti gli esempi rintracciabili di utilizzazione del sogno vagliando le opere di diversi autori. Questa seconda via sembrerebbe quella di gran lunga più opportuna, forse l’unica legittima, giacché essa ci libererebbe fin dal principio dai rischi connessi con l’assunzione dell’artificioso concetto unitario di «poeta». Procedendo nell’indagine questa unità si frantumerebbe in molti individui di diversissimo valore, alcuni dei quali siamo soliti venerare come profondi conoscitori della psiche umana. Ciò nonostante le pagine che seguono saranno riempite da una ricerca che appartiene alla prima specie. Ecco dunque che nella cerchia di persone in cui questa idea era emersa, qualcuno si è rammentato di un’opera, letta di recente e con piacere, in cui erano contenuti molti sogni che lo avevano attratto per i loro contorni familiari e lo avevano spinto ad applicare su di essi il metodo dell’Interpretazione dei sogni. Egli ammise che l’argomento di quel racconto breve e il luogo dell’azione erano in gran parte responsabili del piacere che aveva provato.1 La storia si svolge a Pompei e tratta di un giovane archeologo che aveva abbandonato ogni interesse per la vita a favore di quello per i resti dell’antichità classica, e che viene poi ricondotto alla vita per una via traversa, stupefacente ma pienamente corretta. Lo svolgimento di questa materia autenticamente poetica muove nel lettore ogni sorta di risonanza e affinità. L’opera è il racconto Gradiva di Wilhelm Jensen, denominata dall’autore stesso «fantasia pompeiana».
Ora dovrei proprio pregare tutti i miei lettori di deporre questo scritto e di metterlo da parte per un po’ di tempo rimpiazzandolo con la Gradiva pubblicata nel 1903. Così d’ora in avanti potrò far riferimento a cose già note al lettore. A coloro che hanno già letto la Gradiva richiamerò alla memoria il contenuto del racconto riassumendolo brevemente, e conto sul fatto che il ricordo possa rinnovare in loro quel fascino che il riassunto non può restituire.
Un giovane archeologo, Norbert Hanold, ha scoperto a Roma, in una collezione di antichità, un bassorilievo che lo ha straordinariamente colpito; con sua grande gioia ha potuto ottenerne un perfetto calco in gesso che ha poi appeso nel suo studio, in una città universitaria tedesca, per poterlo esaminare accuratamente. L’immagine raffigura una giovinetta nel fiore degli anni colta nell’atto di camminare, mentre solleva un po’ le pieghe della veste lasciando così scoperti i piedi nei sandali. Un piede poggia interamente a terra, l’altro, sollevato nell’atto di incedere, tocca terra con la punta delle dita, mentre pianta e calcagno si alzano quasi verticalmente. Questo modo di camminare insolito e particolarmente seducente aveva probabilmente attirato l’attenzione dell’artista, e ora, dopo tanti secoli, ha avvinto lo sguardo del nostro archeologo.
L’interesse dell’eroe del racconto per il bassorilievo descritto è il fatto psicologico fondamentale dell’opera. Ma non si spiega senza qualche chiarimento. «Il dottor Norbert Hanold, docente di archeologia, in effetti non aveva trovato nel bassorilievo nulla di particolarmente interessante per la sua scienza»; «egli non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva attirato la sua attenzione: sapeva solo che qualcosa lo aveva attratto, e che quell’effetto si era da allora in poi mantenuto inalterato.» Eppure la sua fantasia continua a occuparsi di quest’immagine. Egli vi trova qualcosa di «attuale», come se l’artista l’avesse colta per la strada «dal vero». Attribuisce alla ragazza colta nell’atto del camminare un nome: Gradiva, «colei che risplende nel camminare»; fantastica che essa provenga di certo da una famiglia distinta, che sia forse «la figlia di un illustre patrizio, che esercitava la sua funzione nel nome di Cerere», e che sia diretta al tempio della dea. Ma poiché i suoi modi tranquilli e silenziosi gli sembrano in contrasto con il via vai di una grande città, si convince di doverla collocare a Pompei, e immagina che là essa cammini su quelle caratteristiche pietre che erano state ritrovate negli scavi, e che, consentendo il passaggio dei carri, permettevano di attraversare la strada anche con la pioggia, senza bagnarsi. Il suo profilo gli ricorda il tipo greco, la discendenza ellenica gli pare fuor di dubbio. Tutto il suo sapere attorno all’antichità si pone al servizio di queste e di altre fantasie riguardanti il modello originario del bassorilievo.
In seguito però gli si impone un problema apparentemente scientifico che esige una soluzione. Si tratta per lui di dare un giudizio critico sul fatto che «nella Gradiva l’artista avesse o no riprodotto l’atto dell’incedere in modo corrispondente alla vita reale». Egli non riesce a imitare quel passo; indagando sulla «realtà» di quel modo di camminare giunge «a compiere, per chiarire il problema, osservazioni personali sulla viva realtà». Ciò lo costringe tuttavia ad agire in maniera del tutto insolita per lui. «Il sesso femminile era stato fino ad allora per lui soltanto un concetto fatto di marmo o di lega metallica, e alle rappresentanti femminili a lui contemporanee egli non aveva mai concesso la benché minima considerazione.» Frequentare la società era sempre stato per lui un inevitabile tormento; guardava e ascoltava così poco le giovani signore, incontrate in quelle occasioni, che imbattendosi in loro nuovamente, passava oltre senza neppure salutare, e ciò ovviamente non lo metteva in buona luce presso di loro. Ora però era incalzato dal compito scientifico che egli stesso si era dato: era costretto a guardare attentamente per la strada i piedi delle signore e delle ragazze, con il tempo buono ma soprattutto con la pioggia, attività che gli procurava da parte delle signore osservate sguardi non sempre incoraggianti; «ma lui non si accorgeva né dell’una né dell’altra cosa». Il risultato dei suoi accurati studi fu la scoperta che il modo di camminare della Gradiva non era rintracciabile nella realtà, fatto questo che lo riempì di avvilimento e delusione.
Poco dopo ebbe un sogno terrificante: si ritrovò nell’antica Pompei nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, testimone della scomparsa della città. «Mentre egli si trovava ai margini del Foro, accanto al Tempio di Giove, d’un tratto vide poco lontano da sé la Gradiva; fino a quel momento egli non era stato sfiorato dall’idea della sua presenza, ora però, improvvisamente, fu per lui una cosa del tutto naturale che essa fosse una pompeiana, che quella fosse la sua città d’origine, e senza che egli lo sospettasse, fosse proprio una sua contemporanea.» L’angoscia per il destino che la attendeva gli strappò un grido d’allarme, in seguito al quale la figura che procedeva imperturbata volse il viso verso di lui. Poi essa continuò imperterrita per la sua strada diretta al portico del tempio; giuntavi si sedette su un gradino, poggiandovi lentamente il capo mentre il suo volto impallidiva sempre più come se stesse trasformandosi in marmo bianco. Quando egli l’ebbe raggiunta correndo, la trovò sdraiata sull’ampio gradino, con un’espressione tranquilla come se dormisse, fino a che la pioggia di cenere non seppellì la sua figura.
Al risveglio egli credette di avere ancora nelle orecchie le grida confuse degli abitanti di Pompei che cercavano di mettersi in salvo e il cupo boato del mare agitato. Ma anche dopo che il ritorno alla coscienza gli ebbe permesso di riconoscere in questi rumori le manifestazioni del risveglio chiassoso della grande città, per lungo tempo conservò la convinzione che quanto aveva sognato fosse reale. Quando alla fine si liberò dell’idea di aver assistito in prima persona, quasi duemila anni prima, alla distruzione di Pompei, nondimeno rimase in lui la ferma convinzione che la Gradiva fosse vissuta a Pompei e che nell’anno 79 fosse rimasta sepolta con tutta la città. Le sue fantasie sulla Gradiva furono a tal punto rafforzate dall’effetto lasciatogli dal sogno che dal quel momento in poi egli la pianse come una persona cara scomparsa.
Mentre, prigioniero di questi pensieri, stava affacciato alla finestra, la sua attenzione fu attratta da un canarino che, in gabbia, cinguettava il proprio canto dalla finestra aperta della casa di fronte. A un tratto egli, che evidentemente non si era ancora interamente risvegliato dal sogno, fu attraversato da una scossa. Credette di vedere per la via una figura come quella della sua Gradiva e addirittura di riconoscere quel suo modo caratteristico di camminare; senza pensarci si precipitò giù per raggiungerla, e soltanto le risate e le beffe della gente per il suo inadeguato abbigliamento mattutino lo ricacciarono rapidamente nel suo appartamento. In camera sua riprese a occuparsi del canarino che cantava nella gabbia: gli venne da confrontarlo con la sua stessa persona. Anche lui sedeva come in gabbia, pensava, ma per lui era più facile abbandonarla. Come fosse ancora sotto l’influsso del sogno, ma forse anche della tiepida aria di primavera, cominciò a prender corpo in lui il desiderio di compiere un viaggio primaverile in Italia, per il quale trovò presto un pretesto scientifico, sebbene «l’impulso a compiere questo viaggio fosse scaturito in lui da una sensazione indefinibile».
Fermiamoci un momento prima di esaminare questo viaggio dalla motivazione estremamente labile, e osserviamo più da vicino la personalità e il comportamento del nostro eroe. Per il momento egli ci appare incomprensibile e stolto; ancora non sospettiamo in che modo la sua personale follia si ricongiungerà a ciò che è comune a tutti gli uomini per strapparci un sentimento di partecipazione. È un privilegio del poeta poterci lasciare in tale incertezza; grazie alla bellezza del suo linguaggio, alla seduzione delle sue intuizioni, egli merita fin da ora la nostra fiducia e la simpatia, per ora gratuita, che riserviamo al suo eroe. Di lui apprendiamo ancora che, predestinato già dalla tradizione familiare allo studio dell’antichità, era col tempo divenuto sempre più solitario e indipendente fino a sprofondarsi interamente nella sua scienza e a distogliersi del tutto dalla vita e dai suoi godimenti. Marmo e bronzo erano, per il suo modo di sentire, le uniche cose davvero viventi, capaci di portare a espressione lo scopo e il valore della vita umana. Tuttavia la natura, forse con tutte le buone intenzioni, gli aveva messo nel sangue un correttivo tutt’altro che scientifico, una fantasia straordinariamente vivace, che si imponeva non soltanto nei sogni bensì spesso anche durante la veglia. Una simile separazione della fantasia dalla facoltà del pensiero doveva predisporlo a diventare o un poeta o un nevrotico; egli apparteneva infatti a quel genere di uomini il cui regno non è di questo mondo. E così gli era potuto accadere che il suo interesse restasse catturato da un bassorilievo raffigurante una fanciulla dal passo singolare, e che egli vi concentrasse le sue fantasie, favoleggiando sul suo nome e sulla sua provenienza; e collocandola, come un personaggio inventato, nella città di Pompei, ormai sepolta da più di 1800 anni. Infine, dopo uno strano e angoscioso sogno, la fantasia dell’esistenza e della morte della fanciulla di nome Gradiva si era ingigantita fino al delirio, e influenzò tutto il suo comportamento. Questo prodotto della fantasia ci apparirebbe singolare e incomprensibile se lo riscontrassimo in una persona reale. Ma poiché il nostro eroe Norbert Hanold è una creatura del poeta, vorremmo timidamente sapere da quest’ultimo se il suo racconto sia stato determinato da altre forze invece che dal proprio arbitrio.
Abbiamo abbandonato il nostro eroe proprio nel momento in cui si lasciò indurre, apparentemente dal canto di un canarino, a compiere un viaggio in Italia, di cui non gli era assolutamente chiaro il motivo. Apprendiamo poi che egli non conosce neanche il fine e lo scopo di questo viaggio. Un’irrequietezza e un’insoddisfazione interiore lo conducono da Roma a Napoli, e ancora più lontano. Capita in mezzo a uno sciame di sposi in luna di miele e, obbligato a occuparsi del tenero «August» e della tenera «Grete», non riesce assolutamente a comprendere il comportamento di queste coppie. Egli giunge alla conclusione che tra tutte le stoltezze degli uomini «il matrimonio occupa comunque il posto più elevato, in quanto è la più grande e la più incomprensibile; e i loro insensati viaggi di nozze in Italia non sono altro che il degno coronamento di questa follia». A Roma viene disturbato nel sonno dalla vicinanza di una coppia affettuosa, fugge all’improvviso per Napoli, ma solo per ritrovare anche lì altri «August» e «Grete». Poiché crede di capire dai loro discorsi che la maggior parte di questi colombi non intende fare il nido tra le ceneri di Pompei, bensì volare verso Capri, decide di fare proprio ciò che essi non farebbero, e pochi giorni dopo la sua partenza si ritrova «contrariamente a ogni aspettativa e intenzione» a Pompei.
Ma senza trovarvi la pace cercata. Il ruolo fino ad allora recitato dalle coppie di sposi, che avevano reso irrequieto il suo animo e disturbato i suoi sensi, viene assunto da comuni mosche, in cui egli tende a riconoscere la incarnazione del male assoluto e del superfluo. Le due specie di spiriti importuni si confondono in una sola entità; alcune di quelle coppie di mosche gli rammentano le coppie in viaggio di nozze, e probabilmente anch’esse si chiamano nel loro linguaggio «August, mio solo amore» e «mia dolce Grete». Egli infine non può non riconoscere «che la sua insoddisfazione non viene causata unicamente da ciò che si trova intorno a lui, ma da qualcosa che ha la sua origine anche in lui stesso». Egli sente «che è di cattivo umore perché gli manca qualcosa, senza riuscire tuttavia a capire che cosa».
Il mattino dopo entra a Pompei attraverso l’«Ingresso»2 e, dopo aver congedato la guida, vaga senza meta attraverso la città: stranamente non ricorda che qualche tempo prima aveva assistito al seppellimento di Pompei in sogno. Quando poi gli altri visitatori fuggono il «caldo, sacro» mezzogiorno, considerato dagli antichi l’ora degli spiriti, e dinanzi a lui si distendono le rovine deserte e splendenti di luce solare, nasce in lui la capacità di trasportarsi nuovamente in questa vita sommersa, senza però l’aiuto della scienza. «Ciò che questa insegnava era una concezione archeologica senza vita, e ciò che la sua bocca diceva, una lingua filologica morta. Esse non aiutavano affatto la comprensione dell’animo, dello spirito, del cuore, o come lo si vuol chiamare; e colui che sentisse questo desiderio doveva, quale unico essere vivente, venire da solo, qui, tra i resti del passato, nella silenziosa calura del mezzogiorno per non vedere con gli occhi del corpo e non ascoltare con le sue orecchie. Allora… si sarebbero risvegliati i morti, e Pompei avrebbe ricominciato a vivere.»
Mentre egli, così, fa rivivere con la sua fantasia il passato, vede improvvisamente l’inconfondibile Gradiva del suo bassorilievo uscire da una casa e portarsi sull’altro lato della strada, camminando con passo leggero sul passaggio di pietre di lava; proprio come l’aveva vista quella notte in sogno quando essa si era distesa a dormire sui gradini del Tempio di Apollo. «E insieme a questo ricordo gli viene in mente per la prima volta un’altra cosa: egli, pur non conoscendo quell’impulso che aveva dentro di sé, era partito per l’Italia, e senza fermarsi a Roma e a Napoli era giunto a Pompei per tentare di scoprire qui tracce di lei. E ciò in senso letterale, giacché, per il suo modo singolare di camminare, essa doveva aver lasciato nella cenere un’impronta delle sue dita, sicuramente di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. Pensieri e desideri del sogno
  4. Nota biografica
  5. Nota bibliografica
  6. Il sogno
  7. MECCANISMO PSICHICO DELLA DIMENTICANZA
  8. RICORDI DI COPERTURA
  9. IL SOGNO
  10. IL DELIRIO E I SOGNI NELLA «GRADIVA» DI WILHELM JENSEN
  11. UN SOGNO COME MEZZO DI PROVA
  12. MATERIALE FIABESCO NEI SOGNI
  13. Copyright