Storia del Giappone
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Storia del Giappone

  1. 350 pagine
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Due secoli fa il Giappone era un paese di risaie e feudatari dispotici, in pochi decenni si è trasformato in una potenza imperialista. È uscito dalla Seconda guerra mondiale annichilito dall'atomica, ed è riuscito a trasformarsi in superpotenza industriale e finanziaria. Risultati eccezionali dovuti a una serie di circostanze favorevoli, ma soprattutto alla capacità dei giapponesi di volgere quelle circostanze a proprio favore grazie a millenari valori e pratiche di vita profondamente radicati nella storia. Per comprendere il presente del Giappone, insomma, è indispensabile ripercorrerne il passato. È ciò che fa Kenneth G. Henshall in questo volume, rapido quanto esauriente, e aggiornato fino agli ultimi eventi e ai più recenti studi storici.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081668
Argomento
History
Categoria
World History
VI

La fenice risorge dalle ceneri: dai successi del dopoguerra ai giorni nostri

Il sogno americano di un nuovo Giappone

Le truppe alleate incominciarono ad arrivare in Giappone alla fine dell’agosto del 1945, e l’occupazione ebbe ufficialmente inizio con la resa formale del 2 settembre. I giapponesi temevano rappresaglie brutali da parte degli Alleati, ma furono rassicurati dal discorso sull’accettazione della resa pronunciato dall’uomo che avrebbe gestito l’occupazione, il generale statunitense Douglas MacArthur. Questi sottolineò l’importanza di mettere da parte l’odio e di guardare a un futuro di pace, ed espresse la fiducia nella capacità del popolo giapponese di ricostruire la propria nazione e riconquistare la propria dignità.1
I suoi uomini non lo delusero. Ci furono inevitabilmente episodi di comportamento brutale,2 ma in generale le truppe di occupazione furono clementi nei confronti dell’ex nemico. I giapponesi, da parte loro, dimostrarono la massima disponibilità a collaborare. Di conseguenza, le forze di occupazione furono ben presto ridotte, passando da 500.000 a 150.000 effettivi.
Ovviamente, oltre a dover affrontare il problema pratico e immediato del cibo e degli alloggi,3 la popolazione era in uno stato di grande ansia e confusione. La fede incondizionata nella superiorità e nell’invincibilità del Giappone era stata seriamente compromessa, e lo stesso valeva per la fiducia verso i capi politici e, soprattutto, militari. Molti giapponesi erano arrabbiati, disillusi, e si sentivano traditi dai leader. Alcuni mettevano in discussione anche la figura di Hirohito, benché non l’istituzione imperiale.
MacArthur rassicurò la gente non solo con le parole, ma anche con i suoi modi. Ormai sessantacinquenne, era generale dall’età di trentotto anni (all’epoca era stato il più giovane a ricoprire quel ruolo nella storia degli Stati Uniti). Era un uomo nato per comandare, dignitoso e sicuro di sé, deciso ma clemente, e ispirato dalla convinzione quasi messianica del fatto che fosse stato predestinato da Dio per scrivere la storia.4 In un certo senso ricordava gli oligarchi del periodo Meiji, con un misto di democrazia e autoritarismo, e indubbiamente anche con la convinzione di sapere che cosa fosse meglio per il popolo. In una nazione abituata a essere guidata, questo genere di leader era il benvenuto. MacArthur fu accolto dai giapponesi come uno shōgun, come l’imperatore americano del Giappone, a tratti come una divinità.5 I suoi uomini dicevano ironicamente che, svegliandosi presto al mattino, lo si sarebbe potuto vedere mentre camminava sulle acque del fossato del castello imperiale, non molto distante dal suo quartier generale.6
In teoria l’occupazione era un compito degli Alleati, non una questione esclusivamente americana, e tanto meno l’affare di un solo uomo. Il titolo ufficiale di MacArthur era Comandante supremo delle potenze alleate (SCAP, Supreme Commander for the Allied Powers). Tuttavia, la Cina e l’Unione Sovietica non inviarono truppe in Giappone, e le unità britanniche del Commonwealth ebbero un ruolo definito e limitato nell’occupazione, per lo più confinato a una zona dell’Ovest di Honshū.7 Alla fine del dicembre del 1945 le quattro maggiori potenze alleate, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e la Cina, istituirono il Consiglio degli Alleati a Tōkyō, città nella quale tenevano incontri ogni quindici giorni. Fu creata anche la Commissione dell’Estremo Oriente, comprendente le undici potenze vincenti, che a partire dal febbraio del 1946 si riunì periodicamente a Washington per stabilire la strategia di occupazione, trasmessa poi attraverso il Consiglio degli Alleati.
In pratica, però, l’occupazione era una questione quasi esclusivamente americana, e MacArthur si rivelò un maestro di cerimonie perfetto. Il generale sciolse il Consiglio degli Alleati, definendolo una «seccatura», e la Commissione dell’Estremo Oriente, da lui considerato «poco più che un circolo di discussione».8 MacArthur voleva andare avanti con il suo lavoro, e i progetti che lui e Washington avevano in mente erano già stati avviati.
La strategia non prevedeva solo lo smantellamento del Giappone militarista e totalitario, ma anche il piano ambizioso di creare una nazione ideale. Washington aveva iniziato a pensare al progetto già a metà del 1942, con un contributo significativo da parte dei new dealers.9 A quanto pare i programmi di MacArthur erano più recenti, ma fortunatamente si rivelarono diversi da quelli del governo.
La politica di Washington spesso fu elaborata da figure anonime che operavano nel dipartimento di Stato, come Hugh Borton e George Blakeslee. Sembra che soprattutto Borton, un uomo modesto, stimato per la sua conoscenza del Giappone ma sottovalutato per il ruolo che ebbe nella ricostruzione della nazione, sia intervenuto nella maggior parte delle questioni inerenti alle politiche di occupazione.10 Le linee politiche furono trasmesse in larga parte attraverso una direttiva, presentata a MacArthur nell’ottobre del 1945. Si trattava della Basic Initial Post Surrender Directive to Supreme Commander for the Allied Powers for the Occupation and Control of Japan (Direttiva di base iniziale postcapitolazione al comandante supremo delle potenze alleate per l’occupazione e il controllo del Giappone), meglio conosciuta come JCS1380/15 (Joint Chiefs of Staff, Comitato dei capi di Stato maggiore).11
La direttiva descriveva una democrazia ideale in stile americano. L’imperatore, se tale figura fosse continuata a esistere, avrebbe assunto il ruolo simbolico di capo della nazione. Ci sarebbero state garanzie per il rispetto dei diritti civili e delle libertà individuali, se necessario attraverso una nuova Costituzione. Tutti gli adulti, incluse le donne, avrebbero avuto il diritto di voto. Il potere militare e la vecchia polizia sarebbero stati smantellati, così come gli zaibatsu. Tutti coloro che avevano contribuito allo sforzo bellico, nell’esercito, nel governo e nel mondo imprenditoriale, sarebbero stati esonerati da qualunque ruolo di responsabilità. Le organizzazioni sindacali sarebbero state incoraggiate, e i diritti dei lavoratori tutelati.
Le idee di MacArthur, assai simili, furono espresse in uno stile molto più cerimonioso. Nelle sue memorie egli paragonò la propria posizione a quella di Alessandro Magno, di Cesare e di Napoleone, scrivendo:
Ho dovuto essere un economista, un politico, un ingegnere, un dirigente industriale, un insegnante, in un certo senso persino un teologo. Ho dovuto ricostruire una nazione che era stata quasi completamente distrutta dalla guerra. … Il Giappone era diventato il laboratorio più grande del mondo per l’esperimento di liberazione di un popolo dal regime militare totalitario e di liberalizzazione del governo dall’interno. Era chiaro che l’esperimento avrebbe dovuto andare oltre lo scopo primario degli Alleati, cioè l’annullamento della capacità del Giappone di intraprendere un’altra guerra e la punizione dei criminali di guerra. …
Sapevo che le riforme che avevo concepito avrebbero consentito al Giappone di procedere di pari passo con il pensiero moderno e il modo di agire progressista. Prima di tutto bisognava distruggere il potere militare. Punire i criminali di guerra. Creare un governo rappresentativo. Rendere più moderna la Costituzione. Tenere libere elezioni. Concedere il diritto di voto alle donne. Rilasciare i prigionieri politici. Togliere il giogo agli agricoltori. Istituire un libero movimento sindacale. Incoraggiare un’economia libera. Abolire l’oppressione poliziesca. Sviluppare una stampa libera e responsabile. Liberalizzare l’istruzione. Decentrare il potere politico. Separare la Chiesa dallo Stato.12
Per consentire al Giappone di riacquistare la propria dignità e fiducia, MacArthur invitò la popolazione a non abbandonare le tradizioni, ma a «cercare un giusto equilibrio fra le loro migliori qualità e le nostre».13
Il fatto che nella maggior parte dei casi MacArthur abbia sostanzialmente eseguito degli ordini non sminuisce l’eccezionale importanza del suo ruolo. La stessa direttiva JCS1380/15, pur impartendo ordini di carattere generico, paradossalmente confermava anche il suo potere personale, specificando chiaramente che «oltre ai poteri convenzionali di una forza di occupazione militare in territorio nemico, le affidiamo l’autorità di intraprendere qualunque azione ritenga consigliabile e opportuna al fine di rendere effettive … le disposizioni della Dichiarazione di Postdam».14 In qualche caso MacArthur avrebbe usato tale potere.
La smilitarizzazione era il primo passo dell’ambizioso programma «congiunto» MacArthur-Washington per la costruzione di una nuova nazione. A tal fine, nel giro di pochi mesi l’esercito e la marina furono smobilitati. Il Giappone fu privato di tutti i territori che aveva conquistato con mezzi militari, tornando di fatto alla situazione in cui si trovava prima della guerra cino-giapponese del 1894-1895. Furono adottate misure per incominciare a rimpatriare i tre milioni di soldati e gli altrettanti civili giapponesi sparpagliati per l’Asia. Furono impartiti ordini affinché si pagassero risarcimenti alle nazioni depredate. Molte navi del Giappone furono consegnate agli Alleati, mentre altre armi e attrezzature belliche vennero distrutte – inclusi, come misura prioritaria e contro il parere di MacArthur stesso, gli acceleratori di particelle nucleari.15 Fra il 1946 e il 1948 circa 700.000 persone furono sottoposte a rigorosi controlli e circa 200.000 fra coloro che, usando le parole della JCS1380/15, furono considerati «fautori attivi dell’aggressione e del nazionalismo militante», vennero destituiti dalla loro carica. Anche questi provvedimenti, se non altro nei termini del numero di persone coinvolte, a quanto pare avvenne contro l’opinione personale di MacArthur.16
Forse la più significativa fra tutte le misure di smilitarizzazione fu l’inserimento della famosa clausola «contro la guerra» nella nuova Costituzione, redatta dallo staff del Comando supremo all’inizio del 1946. Fu aggiunta personalmente da MacArthur, ma non è certo che sia stata proposta da lui, e la fonte precisa è ancora poco chiara.17 Per esteso, l’articolo 9 recita così:
Aspirando sinceramente alla pace internazionale, basata sulla giustizia e sull’ordine, i giapponesi rinunciano per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione, e alla minaccia dell’uso della forza come mezzo per risolvere le dispute internazionali.
Per raggiungere l’obiettivo descritto nel paragrafo precedente, le forze di terra, di mare e quelle aeree, come pure ogni altro potenziale bellico, non saranno mantenuti. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto.18
Anche la punizione dei criminali di guerra fece parte del disegno generale di smilitarizzazione. Durante il processo di Tōkyō per i crimini di guerra, tenutosi fra il maggio del 1946 e il novembre del 1948 sotto la giurisdizione del tribunale militare dell’Estremo Oriente, costituito di recente e rappresentante le undici nazioni vincitrici, venticinque uomini furono processati per crimini maggiori (classe A), come l’aver complottato e provocato la guerra. In base a quella che in alcuni casi è stata descritta come la «giustizia del vincitore», tutti furono giudicati colpevoli, in misura più o meno grave. Sette, inclusi il generale Tōjō e l’ex primo ministro Hirota (l’unico civile), furono condannati a morte e in seguito impiccati.19 In differenti località si tennero numerosi altri processi, per esempio a Singapore, nelle Filippine e a Hong Kong. In questi processi locali, più di cinquemila giapponesi furono ritenuti colpevoli di crimini specifici (classe B e C), come l’estrema crudeltà verso i prigionieri di guerra, e circa novecento furono giustiziati.
Sin dall’inizio si era diffusa l’opinione, sia in Giappone sia all’estero, che i soggetti processati fossero, almeno in parte, un capro espiatorio.20 Molti fra coloro che avrebbero dovuto essere ritenuti responsabili di colpe più gravi non comparivano mai in tribunale. Fra quelli che sfuggirono al processo c’era lo staff dell’Unità 731, che aveva condotto numerosi esperimenti chimici e biologici su civili e prigionieri di guerra. L’intera faccenda dell’Unità 731 fu messa a tacere dagli americani, che offrirono l’immunità in cambio dei dati scientifici ottenuti con esperimenti considerati illegali e immorali.21 Si dice che sia accaduto lo stesso con l’operazione Golden Lily, nome in codice per la copertura del vasto saccheggio commesso dalle forze giapponesi in Asia, apparentemente con la complicità dei membri della famiglia imperiale e, forse, a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Storia del Giappone
  5. Premessa
  6. Premessa alla seconda edizione
  7. Introduzione. Il Giappone e la storia
  8. Abbreviazioni
  9. I. Dall’età della pietra all’organizzazione statale: miti, preistoria e storia antica (fino al 710)
  10. Sintesi del capitolo I
  11. II. Cortigiani e guerrieri: dall’antichità alla fine del Medioevo (710-1600)
  12. Sintesi del capitolo II
  13. III. Il paese chiuso: il periodo Tokugawa (1600-1868)
  14. Sintesi del capitolo III
  15. IV. La costruzione di una nazione moderna: il periodo Meiji (1868-1912)
  16. Sintesi del capitolo IV
  17. V. Gli eccessi dell’ambizione: la guerra del Pacifico e i suoi antefatti
  18. Sintesi del capitolo V
  19. VI. La fenice risorge dalle ceneri: dai successi del dopoguerra ai giorni nostri
  20. Sintesi del capitolo VI
  21. Conclusione. Lezioni per aspiranti superpotenze
  22. Ringraziamenti
  23. Bibliografia
  24. Glossario
  25. Copyright