A proposito di Marta
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A proposito di Marta

Le poche cose che ho capito di mia figlia

  1. 216 pagine
  2. Italian
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A proposito di Marta

Le poche cose che ho capito di mia figlia

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«Che libri leggi? Che film hai visto? Che musica ascolti? Quali oggetti acquisti, e di quali senti di non poter fare a meno? Cosa mangi, e che rapporti hai con la medicina, con la scienza? Quali vestiti indossi? E che mi dici della politica? Credi in Dio? Ti soddisfa il mondo così com'è, o vorresti cambiarlo? E hai fiducia che possa essere cambiato?» Un padre nato negli anni Cinquanta tempesta la figlia venticinquenne con domande pressanti, talvolta invadenti, ma sempre animato dalla voglia incontenibile di conoscere i suoi interessi, le sue scelte di vita, i suoi dolori e le sue speranze e, attraverso di lei, quelli della generazione dei cosiddetti «millennials», dai quali sente di essere diviso da una voragine psicologica e culturale. Le risposte che riceve lo lasciano dubbioso, a volte incredulo, recalcitrante e persino adirato, ma non spengono il suo desiderio di capire come va il mondo di adesso, quale direzione ha preso, con quale linguaggio parla, con quali immagini si emoziona. E così, per farsene un'idea più chiara, si ritrova a rubare brandelli di conversazione, a scavare nei ricordi, a spiare gergo, gesti e gusti, a scrutare comportamenti e rituali collettivi (la figlia in compagnia degli amici) che spesso precludono ogni genere di dialogo.

Alla fine scoprirà che le tante, drastiche differenze (l'abbandono completo dei giornali, la sacralità della «natura» contrapposta alla scienza e alla tecnica, il diverso valore attribuito alla medicina, la preferenza accordata all'erboristeria rispetto alla farmacia, il ruolo centrale assunto dalla qualità del cibo e dalla cura del corpo, il culto del vintage), al pari delle insospettabili affinità (l'amore per i libri, ancora intatto nonostante certe statistiche, o la passione per la musica, per il cinema e per i musei, sia pure virtuali), descrivono una realtà in cui tutto muta a una velocità forsennata. Eppure qualcosa resta, anche se non sempre sappiamo riconoscerlo fino in fondo.

Nel suo spiritoso e autoironico racconto di cose vissute, che ruota attorno a un sapiente intreccio di sfera personale e sfera pubblica, Pierluigi Battista è un padre che non sale in cattedra, ma si sforza di ascoltare i pensieri e le ragioni della figlia Marta, senza però mai mancare di far sentire la sua voce quando vede che alcuni valori essenziali di ieri rischiano di andare perduti nel grande cambiamento che sta rivoluzionando il mondo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852083150
Parte prima

Il nome della cosa

I

Strada facendo

Per capire quanto sia cambiato in questi pochi anni l’universo degli oggetti quotidiani che plasmano la nostra vita, e quanto sia condannato alla volubilità il mondo delle cose, delle materialissime cose che formano la nostra identità personale e collettiva, avevo pronto un aneddoto che mi sembrava raccontasse bene fino a che punto e perché io e mia figlia fossimo oramai su due pianeti diversi, sempre più inconoscibili l’uno all’altro: l’aneddoto dello stradario cartaceo. Era un bell’aneddoto, ma un coetaneo di mia figlia me lo ha reso inservibile. Però, nello stesso tempo, senza volerlo mi ha permesso di accendere una luce sullo strano rapporto con il passato che si è imposto in questi ultimi decenni, sotto i miei occhi. Strano, e per me sorprendente.
Senza quel guastafeste avrei volentieri descritto, cercando di cavare dall’aneddoto una morale tonda tonda, come mia figlia non abbia la più pallida idea, ignorando lo stradario cartaceo, di uno strumento che in tutta la mia vita è stato indispensabile per orientarmi e raggiungere indirizzi sconosciuti, anche se, quando faceva buio, era difficile leggere i nomi delle vie sulla mappa, scritti in un carattere volutamente microscopico, troppo piccolo per me che sin da bambino ho portato gli occhiali da vista, con lenti che sembravano due spessi cocci di vetro, mica quelle super-sottili di oggi. Ecco, io ci ho tenuto molto, allo stradario, alla dimessa poesia racchiusa in quelle cartine stradali che ci avrebbero sempre dato una mano nel momento del bisogno, all’abitudine di riporlo, tutto sgualcito, nella tasca interna della portiera per averlo facilmente a disposizione. Perciò ci sono rimasto un po’ male quando, una sera di qualche anno fa, lei per poco non è scoppiata a ridere con un tassista che si contorceva come un dannato, chino e addirittura con una piccola torcia infilata in bocca, per individuare su una pagina stropicciata il nome della viuzza periferica dove eravamo diretti. Per me era una scena non dico consueta, ma plausibile, normale. Per lei invece era un’irresistibile gag, accolta con la stessa espressione stupefatta e divertita di Massimo Troisi e Roberto Benigni quando, in Non ci resta che piangere, vengono improvvisamente catapultati indietro di secoli, in un paesaggio di facce e oggetti e indumenti a loro totalmente, comicamente estranei.
Lo stradario cartaceo, tanto caro a me e al tassista anche lui avanti con l’età, era insomma per lei nient’altro che il reperto di un paio di secoli fa, come minimo: non ne aveva mai visto uno, oppure l’aveva visto ma senza farci caso, e comunque non si capacitava che esistesse qualche essere umano superstite, e tra questi addirittura suo padre, che ne facesse uso. Come del resto io stesso sarei folgorato da uno choc culturale se improvvisamente dovessi imbattermi in un essere umano che scorrazza per strada con un velocipede, ignorando l’invenzione della più comoda bicicletta. Più o meno, tra stradario e velocipede, ci siamo.
Lo stradario di mia figlia si chiama invece navigatore satellitare, che io uso molto maldestramente e che perciò, quando posso, anche per sorda protesta contro uno strumento che mi è cordialmente antipatico, cerco di evitare, preferendo piuttosto chiedere, come ai vecchi tempi, informazioni ai passanti o meglio ancora ai vigili, al modo di Totò e Peppino intabarrati davanti al Duomo di Milano. Lei invece lo usa sempre attraverso lo smartphone, con una frequenza quasi compulsiva, anche soltanto per cercare la via che sta proprio dietro l’angolo.
«Sempre» non è un’esagerazione, è proprio sempre. Ho infatti scoperto, osservando lei e molti suoi amici che, con il tempo, la mappa elettronica disabitua chi la usa ossessivamente a memorizzare in generale, e la toponomastica in particolare. La mappa elettronica soppianta la memoria dei percorsi stradali, dei nomi delle vie. Vanifica nella mente anche la più semplice linearità del sistema stradale, vicoli e viali, piazze e traverse. Se per esempio, trovandoti a Roma, vuoi raggiungere piazza del Popolo da piazza di Spagna, non ti ricordi proprio più, anche se a Roma ci sei nato o ci vivi da sempre, che devi soltanto percorrere via del Babuino per poche centinaia di metri, sempre diritto, non ti puoi sbagliare. Viceversa, privo di memoria stradale, immediatamente, macchinalmente, dal cellulare apri la mappa elettronica, ti colleghi al grande Tutto, chiedi l’aiutino dell’onnisciente, entri nello stradario universale e segui pedissequamente le indicazioni: per piazza del Popolo prendi via del Babuino, percorri 500 metri, arrivi a piazza del Popolo. Una cosa semplicissima, addirittura offensiva nella sua ovvietà facile facile, cosa mai ci voleva per sapere quello che tutti sapevano già? Niente, solo una spolveratina di ricordi. Ma dai trent’anni in giù non puoi fare a meno dell’onnipresente mappa elettronica. Che sa tutto quello che dovresti sapere, ma non sei più disposto a faticare per saperlo bene.
L’aneddoto dello stradario cartaceo mi sarebbe servito anche per portare un esempio di come, nell’èra dominata dai nostri figli, anche le più sconvolgenti novità nel campo degli oggetti e delle cose sbiadiscano con rapidità crescente e l’oggetto più innovativo, o almeno quello che al suo apparire è accolto come un’innovazione sbalorditiva, venga consumato sempre più in fretta e finisca in un battibaleno nella discarica delle cianfrusaglie inutili. La mappa elettronica, per dire, ha cominciato la sua irresistibile ascesa un po’ di anni fa con il mitologico tomtom, vissuto come una vera svolta, nonché come uno status symbol, nella vita di molti di noi: ma ce l’hai il tomtom? Ancora non hai il tomtom? Pensa che quello nemmeno conosce il tomtom. Sono passati soltanto pochi anni e il tomtom è diventato subito archeologia. Tutto cambia a velocità vorticosa e insieme a quello stradario sgualcito, oggetto di nostalgia e di rimpianto per me, anche il tomtom classico, che bisognava piazzare in bella vista sul cruscotto della macchina per farne trionfale simbolo di progresso, si è trasformato per mia figlia nel ricordo di un passato lento e scomodo.
Ora è tutto incorporato nello smartphone e mia figlia e i suoi amici, dimentichi del vetusto tomtom, riescono a districarsi con naturalezza e disinvoltura in un’applicazione del telefonino che in qualunque città del mondo ti dice esattamente dove ti trovi, su quale via, all’altezza di quale numero civico, quali sono i ristoranti più vicini, i tipi di negozio, i musei e le chiesette meno conosciute, i percorsi tortuosi per arrivarci senza sbagliare: e non si sbaglia mai, in effetti. Tutte le volte che mi capita di vederla armeggiare con quella app, persino quando gira per una strada secondaria male illuminata e lontana dalle principali rotte automobilistiche di un pezzo sperduto di una provincia poco battuta («Prende? Sì, prende»), mi sembra impossibile che un’innovazione così prodigiosa venga adoperata da lei con tanta dimestichezza, mentre il mio dito, al contrario, scorre lento e impacciato sullo smartphone con lo stesso eroico sforzo di un analfabeta anziano che, ai tempi in cui ero un ragazzino, imparava a scrivere seguendo in tv «Non è mai troppo tardi» con Alberto Manzi.
Sono passati pochi anni, ed è come se fossero millenni. E se io le raccontassi che cosa è stato «Non è mai troppo tardi», la confermerei nell’idea che a dividerci ci sia un fossato di almeno due secoli. Perciò, anche stavolta, evito. Evitare per sopravvivere.
Ecco, l’aneddoto dello stradario cartaceo ignorato sarebbe stato perfetto per raccontare come, da quando si è messa a rincorrere la modernità della produzione industriale, la storia è diventata una grande giostra in cui un mucchio di cose materiali sparisce in fretta all’irrompere di cose nuove che ne prendono il posto. Però, negli anni che corrono tra la mia giovinezza e quella di mia figlia questo avvicendarsi di cose e oggetti ha come preso un ritmo forsennato. Le cose che hanno parlato e continuano a parlare a me, per lei sono mute. Gesti e oggetti materiali che hanno fatto la sostanza della mia esistenza non ci sono più, non hanno più energia vitale. Per lei non significano niente. Volendo fare un confronto, è esattamente lo stesso rapporto che potrei avere io con il fonografo che ha preceduto il grammofono: un bel pezzo di modernariato, e basta.
Ma qualcosa, diciamo così un contro-aneddoto, mi ha suggerito che le cose sono più complicate. E che il modo di vivere il passato di mia figlia e dei suoi amici non è semplice come pensavo, fatto solo di ripudio e negazione, di dimenticanza e quasi di disprezzo. Un manifesto programmatico il cui l’imperativo sia: getta via tutto, dimentica tutto ciò che c’era prima, guarda con commiserazione chi fa uso di cose oramai obsolete, deperite con la velocità di un fulmine. Un suo coetaneo, ho infatti scoperto, non solo sa benissimo cos’è uno stradario cartaceo, ma mi ha detto di farne da qualche tempo golosamente incetta, di collezionare stradari di tutte le città, grandi e piccole, e di avere l’abitudine di chiedere ai genitori (anziani) dei suoi amici, e dunque anche a me, se per caso non sia rimasto in qualche angolo di casa, impolverato e abbandonato, almeno il residuo di uno stradario del passato. Pratica un culto quasi maniacale per gli stradari, che considera reliquie di un tempo che lui non ha personalmente vissuto ma che intende recuperare, e non già per custodirlo inerte in una teca, non per museificarlo o per lasciarlo impolverare su una mensola poco frequentata, ma per usarlo con ironia, per citarlo, per sentirsi attore di un’altra epoca. Per maneggiarlo con tenerezza, per celebrarlo nello splendido anacronismo di un oggetto desueto.
Quando l’ho detto a mia figlia, lei si è stupita del mio stupore e mi ha spiazzato con una domanda che non mi sarei aspettato: «Ma scusa, e allora perché secondo te ci piace tanto perdere un sacco di tempo nelle botteghe vintage?». Ecco, il vintage è il ponte che congiunge il presente e il passato, un turnover di oggetti, una cantina di ricordi da saccheggiare per giocarci. E così, sfidando ogni principio logico, o quantomeno la nostra fissazione dell’aut-aut, le cose della mia vita non esistono più e tuttavia esistono ancora. Sono nella discarica, però, anche, affettuosamente recuperate e riportate alla luce. Non sono più una necessità senza alternativa, ma una libera scelta, anche un po’ ludica. Lo stradario è stato per me, a suo tempo, l’unico strumento per orientarmi nella giungla urbana. Ora il suo recupero è un modo scherzoso di giocare con il passato. Perché altrimenti, per rispondere alla domanda ironica di mia figlia, le piacerebbe tanto gironzolare per negozietti vintage? Perché non c’è più bisogno di distruggerlo, il passato: basta citarlo, scegliendone un pezzetto alla volta, come in un grande mercatino delle pulci. Prendi quello che vuoi, in piena libertà, e poi lo lasci, quando ti pare.
Mia madre, nella sua quasi secolare saggezza, dice che proprio per questo oggi è così difficile mantenere e salvare relazioni umane stabili e durature. Perché, con una disinvoltura per lei culturalmente inaccettabile, si prende e si lascia qualunque cosa e chiunque, cioè cose e persone indifferentemente, come se anche la vita fosse il magazzino di una bottega vintage da saccheggiare quando se ne ha voglia. Forse ha ragione lei. Non io, però nemmeno sua nipote.
II

Ufficio oggetti smarriti

Eppure, vintage o non vintage, tantissimi oggetti che nella vita mi sono stati molto familiari, e che sono l’arredamento della mia mente, davvero non esistono più, irrevocabilmente, e mi mancano molto. Cose che hanno modellato il mio spirito, formato la mia mentalità. Che hanno condizionato un certo modo di stare al mondo: ma ora molte di quelle mie cose sono sparite. E da quali altre sono state rimpiazzate?
Ricordare gli oggetti che hanno avuto grande importanza per me e per noi, e che mia figlia e i nostri figli non conosceranno mai, è forse un’operazione nostalgica, anzi lo è davvero senza alcun forse, e infatti nelle cene conviviali che si intrecciano tra chi ha oltrepassato più o meno la soglia dei cinquant’anni questo esercizio si risolve di solito in un gioco amaro e malinconico baciato ogni volta da un discreto successo: un collettivo «come eravamo» insistito e spesso accompagnato da qualche sospiro un po’ patetico, come se davvero fossimo tanti Barbra Streisand e Robert Redford che si incontrano e si commuovono dopo tanti anni e si guardano con rimpianto. Però è anche un utile parametro per misurare quanto sia vorticosamente cambiato il mondo in pochi anni. E scavando con un po’ di sforzo, un po’ di affetto e un po’ di paura nella memoria di ex ragazzo in là con gli anni, mi illudo di poter illuminare con più concretezza la distanza tra le mie abitudini e l’oggi, il qui e ora vissuto da mia figlia. Basta concentrarsi.
In un suo personalissimo e tenerissimo «inventario sentimentale», per esempio, Giacomo Papi si è concentrato molto bene e ha avviato questa opera di scavo passando in rassegna, alla rinfusa, una prima galleria di oggetti oggi perduti ma per me, per lui, per noi, ancora familiari in una forma quasi struggente: «le otturazioni d’oro, le radioline la domenica, le terze visioni, la carta carbone, le cartoline illustrate, le caramelle Charms, i treni di notte, le pattine». Eccetera eccetera. Tutte cose vecchie, come lo stradario cartaceo del tassista non al passo con i tempi. Le otturazioni d’oro: beh, erano quelle che la portinaia aveva sui denti davanti e che mia figlia fissava imbambolata come fossero diamanti incastonati nella sua bocca. Le terze visioni al cinema: difficile spiegarle, al tempo del video on demand, che cosa siano. E le radioline la domenica per sentire «Tutto il calcio minuto per minuto», cosa mai saranno per lei, forse gli attrezzi di un rito primitivo? E quindi dovrei parlarle anche della voce inconfondibile del suo sacerdote massimo, Sandro Ciotti?
Nutro la segreta aspirazione che mia figlia un giorno mi chieda cosa fossero le caramelle Charms di cui tanto parliamo, e perché ci piacessero tanto. Non vedo l’ora. Anche se mi accorgo che non saprei rispondere con precisione: mi piacevano e basta, e appena sento la parola «Charms», mi tornano in mente, prepotenti, la mia adolescenza e la pubblicità su «Carosello», come per le caramelle Rossana con la carta rossa trasparente, che però, fortunatamente, non sono ancora dannate nel dimenticatoio collettivo. Ma dubito che sia una spiegazione convincente.
È bastato citare le Charms per suscitare in me un incoercibile «effetto madeleine»: il ricordo di una caramella che non esiste più e subito comincia a galoppare la memoria involontaria. Ma le cose a me carissime che mia figlia non conosce sono davvero un’infinità. Di solito vengono in mente il gettone telefonico con la canaletta in mezzo e la stessa cabina telefonica. A me vengono in mente soprattutto i finestrini dei treni che si potevano aprire, anche se nella mia infanzia il meccanismo di apertura e chiusura, con quella manovella gelida d’inverno e bollente d’estate, si inceppava sempre, e quando finalmente riuscivi a tirarli giù per salvarti dall’effetto canicola nell’era precedente la diffusione di massa dell’aria condizionata, allora infuriavano nello scompartimento (lo scompartimento? Cos’era uno scompartimento?) le tempeste di vento. Quegli stessi finestrini che hanno reso possibile la scena più esilarante di Amici miei di Mario Monicelli, quando i buontemponi prendono a ceffoni i viaggiatori che ingenuamente avevano messo fuori la testa per salutare con il fazzoletto chi restava, mentre il treno partiva.
Oggi un erede di Monicelli non potrebbe più girare quella scena. Le persone che partono con l’alta velocità non salutano più sporgendosi dal finestrino, perché il finestrino è sigillato. Per motivi di sicurezza non ci sono neanche più i fidanzati e le fidanzate che sostavano sul binario, e che con i fazzoletti e la lacrimuccia facevano ciao ciao a chi partiva. I tempi cambiano e del resto anch’io, per dire, pur cresciuto nell’èra dei finestrini apribili, non ho mai visto una locomotiva a vapore, se non al cinema o nelle vecchie foto. Ma nemmeno i miei genitori hanno fatto in tempo a vederla: i ritmi del cambiamento, con tutta evidenza, si sono fatti sempre più convulsi.
È sparita la sveglia telefonica, e anche l’abitudine di chiedere al portiere dell’albergo la sveglia per le 7 e 30: «Mi raccomando, altrimenti perdo l’aereo». È sparito l’orologio sveglia, e sotto i trent’anni quasi del tutto pure l’orologio da polso, a meno che non sia un regalo di lusso, o un computer mimetizzato, o una cosa di plastica colorata, oppure un oggetto riciclato quale elemento decorativo, da esibire come un braccialetto o un tatuaggio, però mai adoperato per la sua precipua funzione: controllare l’ora. Viene guardata e compatita come un minuscolo dinosauro la vecchia 500, infinitamente più piccola della nuova, e anche la R4 e la 2 Cavalli della Citroën, che sono state la nostra epica a quattro ruote e che mia figlia può conoscere solo dai film in cui si racconta il pellegrinaggio giovanile in macchina nel Portogallo della «rivoluzione dei garofani», metà anni Settanta. Spariti dalle automobili i deflettori («i deflettori? papà, che diavolo sono i deflettori?») che ti permettevano di buttare fuori la cenere senza che la brace ardente della sigaretta s’infilasse assassina nella camicia del guidatore. Sparito l’adesivo con la calamita del santo che ti proteggeva; e così pure le portiere che si aprivano al contrario, dal dietro in avanti; il rosario avvolto attorno allo specchietto retrovisore; le foto dei bimbi con la scritta sull’adesivo «Papà, non correre»; l’autoradio estraibile per non fartela rubare; la levetta per l’aria nelle partenze a freddo e tutte quelle cose mirabilmente descritte nel libro di Enrico Menduni sulla nascita del costume autostradale e su come gli italiani hanno imparato ad andare in macchina.
È sparito il foulard annodato con eleganza sotto il mento dalle signore sofisticate, persino per ripararsi dal vento quando in montagna, per andare nei rifugi, si avventuravano su una seggiovia monoposto con quella seggiolina un po’ storta e cigolante che sorvolava i crepacci ma non disponeva dei requisiti minimi di sicurezza oggi tassativamente richiesti da norme inderogabili. Scomparsi gli sci di legno con gli attacchi a mano durissimi da chiudere e gli scarponi con i lacci rossi che per allacciarli ci volevano ore e sforzi sovrumani. Sparita l’arte della stenodattilografia, mentre quando ero piccolo, all’alba degli anni Sessanta, c’era addirittura una canzone che associava un ritmo (allora) moderno come il cha cha cha alla segretaria dattilografa: è morto il cha cha cha, e pure il mestiere della dattilografa. E anche quello del dimafonista, che nei giornali trascriveva con un complesso macchinario di ascolto e trascrizione, chiamato appunto «dimafono», le corrispondenze declamate dagli inviati da posti lontani, con la comunicazione che si interrompeva continuamente e il giornalista (categoria in via di estinzione, mia figlia dirà di me ai suoi nipoti: mio padre faceva un mestiere strano che si chiamava «giornalista») che urlava all’apparecchio per farsi sentire, come in una velenosa satira sui cronisti scritta da Evelyn Waugh. Non si ha più notizia del proiettore domestico e delle noiosissime serate in cui si era arruolati per vedere le diapositive (le diapositive?) dell’estate. E questa, almeno, è una fortuna.
Non si ha più notizia del ditale per non pungersi con l’ago mentre si rammenda (si rammenda?), dell’uovo di legno per riparare le calze bucate: quanti, anche della mia età, si ricordano dell’uovo di legno? Io sì, e mi ricordo pure dei gomitoli di lana di ogni colore che mia madre usava per fare i maglioni: esistono ancora i gomitoli di lana per fare i maglioni? Si fanno ancora i maglioni con i gomitoli di lana e i ferri per lavorare a maglia o addirittura all’uncinetto? Mia figlia non ne ha visto nemmeno uno nella sua vita, giusto qualche maglioncino che la nonna le aveva fatto quando era piccola, ma era appunto troppo piccola per ricordarsene ora. Io sì, ricordo ancora i maglioni di lana con le figure a rombo sul davanti e ricordo che dovevo dire che sì, mi piacevano. Ma non mi piacevano. Non mi sono mai piaciuti.
Ricordo anche con quanta cura mia madre e le sue amiche si occupassero della macchina da cucire Singer, che poi chiamavano «Singer» anche se non era la vera marca di quella che possedevano: ma la macchina da cucire era, per definizione, la Singer. Mia figlia credo che non abbia mai visto in casa una macchina da cucire, anzi ne sono certo, e Singer è per lei soltanto il cognome di due grandi scrittori. Io sono molto contento che sappia dell’esistenza di due formidabili scrittori, fratelli per giunta, che si chiamano Singer, però un po’ mi dispiace che non conosca la grande epopea della macchina da cucire che invece mia madre sapeva usare così bene. Per una «generazione che non ha mai cucito altro che un paio di bottoni», ha scritto Niall Ferguson, è infatti veramente difficile co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A proposito di Marta
  4. Prologo
  5. Parte prima. IL NOME DELLA COSA
  6. Parte seconda. IL LAVORO CULTURALE
  7. Parte terza. DE RERUM NATURA
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright